Il rifiuto. La
meditazione e la preghiera a Dio chiunque egli sia
Helena ancora non mi
aveva congedato, ma, nonostante insistessi, la mia situazione non migliorava.
Non mi incoraggiava a dirle quanto di meglio avevo pensato sul nostro destino,
non me ne dava l’occasione necessaria, di cui avevo bisogno per elevare il livello
e alzarmi in volo con lei.
Sicché le dicevo che facevo l’insegnante di lettere
nelle scuole medie senza nemmeno accennare a cosa significasse per me
l’educazione dei ragazzini; poi aggiungevo che avevo letto dei libri buoni,
senza nominarne alcuno né chiarire che cosa ci avevo trovato di bello.
Tanto meno osai dirle, forse neppure potevo
immaginarlo, che un giorno avrei scritto di lei qualcosa di straordinario, anzi
“cosa non detta in prosa mai né in rima”. Ancora non ero certo che sarei stato nunzio agli
uomini della storia grande e meravigliosa avvenuta tra noi. Sarei diventato suo
profeta, profeta di lei, maestra di amore come Diotima nel Simposio di
Platone.
Non riuscivo a meritarmi la sua attenzione.
Helena mi guardava inesorabile con l’aria di chi
pensa: “e a me cosa vuoi che importi di questo? In che mi riguarda?”.
Vedevo che il mio livello di conversazione e la mia
stessa persona non la interessavano punto. Mi ascoltava e rispondeva alle
domande non senza cortesia formale, però non mi domandava niente a sua volta,
non rilanciava mai, tanto che per proseguire dovevo sempre essere io a
riprendere l’iniziativa, e questo rendeva il mio parlare via via più
imbarazzato e meno sicuro; a mano a mano che non mi chiedeva nulla, il mio
eloquio diventava sempre più forzato e incolore, il mio aspetto più
insignificante e opaco.
La bella donna non aveva alcun interesse di sapere
alcunché sul mio conto sulle ragioni del mio interesse per lei.
Non avevo significato nulla per quella donna, né
meritato niente agli occhi suoi.
Alla fine mi fece una domanda che mi annientò: mi
chiese se poteva tornare al tavolo dei suoi connazionali senza offendermi.
“Così mi annichilisci, altro che offendermi!”, pensai,
ma feci un gesto di rasssegnazione.
Mi sembrava armata di pruni o di
ortica.
Il mio cuore pompava fiotti di sangue pallido. Mi
sentivo come arenato nelle secche della sventura, chiuso in una tana priva di
luce, tetra e soffocante.
Era la caverna orribile dell’amore mancato,
la spelonca piena di pianti e rimpianti, abitata dalle Forcidi
canute, vecchie vergini che hanno un occhio
in comune e un solo dente, e a loro non volge mai lo sguardo il sole con i suoi
raggi né la luna di notte[1]. Con quelle orrende streghe avrei passato la
notte.
I miei sentimenti da chiari e dritti si confondevano
in un groviglio fitto e arruffato, i pensieri si sgretolavano come frammenti e
pezzetti privi di ogni coesione.
“Ma forse non è quella gran donna che sembra”, cercai
di consolarmi. “E’ solo una delle tante. Se non vede il mio valore, non vale
niente, chiunque ella sia”.
L’accompagnai al tavolo della sua gente senza
chiederle se voleva ballare di nuovo più tardi, perché non mi sembrava il caso
di riproporglielo, proprio per niente. Temevo di cadere nel patetico ruolo
dell’accattone implorando miseramente una proroga.
Frustrazione, dolore, angoscia. Forse però potevo
rifarmi. “La sorte è capricciosa, balzana, e fa salti imprevedibili, ma se il
valore la imbriglia si lascia guidare”, pensai
“La mamma talora indifferente o furente, le zie
pretificate e autoritarie, la nonna agraria e imperiosa, sprezzante con i
suoi contadini e la povera vessatissima “serva” di casa, le ho domate
tutte dopo le prepotenze subite; con loro mi sono rifatto.
Mi permettono una vita meno misera,
materialmente e mentalmente di quella di tanti colleghi miei.
Quella finnica bella e fine sembra dotata di un
potere benefico; ma allora, a maggior ragione, deve arrivare ad amarmi, a
unirsi con la mia natura, non del tutto ignobile forse, non proprio fiacca,
spero. Lei sembra una donna di grande formato e levatura; allora, in questo ambiente
di giovani disordinati, di lazzaroni confusionari, di uomini senza colore e
rassegnati alla mediocrità, di vecchi il cui essere è solo un essere stati, di
teste svigorite, prive di coscienza o al massimo dotate di una semi coscienza
obnubilata e crepuscolare, ebbene Helena, tra tutti costoro, dove può
trovare un uomo, se non proprio in me? Se tutta la natura è imparentata con se
stessa,
questa femmina finnica mi è particolarmente congeniale.
Fallo sapere, annuncia che Gianni, diversamente da
Pan, non è morto!”
Così pensavo per rinfrancarmi.
Esageravo nel denigrare gli altri, facendone un
mucchio deforme, un impasto tellurico, per mettermi su un altare accanto alla
mia dea, quella che doveva rivelarsi quale magna mater, non
mediterranea del resto ma iperborea. Madre anche del mio destino.
Invero l’università estiva di Debrecen ospitava
giovani e meno giovani di qualità superiore alla media, una media per giunta
che nei primi anni Settanta non era certo inferiore a quella dei decenni
precedenti e successivi: allora tra le persone, soprattutto se dotate di
educazione accademica, circolavano curiosità, cordialità, simpatia e facilità
nei rapporti di amicizia e di amore. Conoscevano tutti il latino, diversi anche
il greco. Si parlava retoricamente e pure politicamente, si cantavano canzoni
politiche piuttosto che le volgarità goliardiche nate dalla frustrazione
sessuale.
Come usava nei primi anni Sessanta.
Insomma l’ambiente nell’insieme era bello e
stimolante. Eros ci aveva radunati lì, in quel consesso festoso, perché gli
facessimo onore accoppiandoci non senza amore.
C’erano anche diverse persone valide dalle quali
potevo imparare. Soprattutto c’erano tante ragazze squisite.
Ma in quei giorni avevo deciso che la magna
mater et magistra, e l’amore, poteva essere solo lei, Helena. Era lei il
mio “compito difficile”, quello che viene assegnato all’eroe. nei miti e nelle
favole belle che mi illudevano fin dall’infanzia. E mi illudono ancora.
Consideravo che c’era un mese davanti a noi e tante
altre feste: varie occasioni per avvicinarla. Sì, perché guardandomi in giro,
avevo già visto che se la mancavo quell’Elena lì, nessun’altra mi avrebbe mai
più compensato di tale fallimento. Certamente non in questa vita e
probabilmente nemmeno nelle prossime . “Grandissima donna spirituale o
pneumatica”-pensavo- all’epoca senza ironia. “Bella, fine, sublime,
predestinata a me ab aeterno.
La sua anima non è come quella dei maiali e di tanti
che sembrano uomini”.
Avevo imparato non ricordo da quale filosofo, forse lo
stoico Cleante, che i porci hanno l’anima (e[cein th;n yuchvn) invece del sale (ajnq j
aJlw`n) , solo perché non imputridiscano le
loro carni, escrescenze di corpaccioni pigrissimi, come le pance adipose di
certi otri ambulanti che appaiono in brutte sembianze appena umane.
“Voglio farmi tornare in mente le cose interessanti
che ho pensato e raccontargliele - premeditavo ancora - devo impressionarla,
vincere la sua ritrosaggine. Dare spettacolo con le parole, come ho imparato
dalle tragedie di Seneca e da quelle di Shakespeare. Trovare frasi di brevità e
di forza.
Le mie parole devono scaturire proprio dall’energia
della mia vita, dalla libido che sento per quella donna. Da quello che dirò
dovranno sprigionarsi fulmini profumati che incantino quella creatura e
spezzino tutte le sue resistenze, ogni chiusura frapposta al mio desiderio.
L’importante è non attenuare la cupido,
né degradarla rivolgendola a un’altra: ‘fac tantum cupias,
sponte disertus eris’.
Ovidio, maestro e amico.
Devo evitare però espressioni concitate, sguardi
affamati, sorrisi disperati.
Dammela, Dio, dammela. Cosa ti costa? Non l’hai creata
tu stesso, con le tue mani, così bella e fine apposta per me? Per chi se no?
Dio, se me la dai, te ne sarò grato per sempre; sempre crederò in te, e
celebrerò il tuo nume ogni due giorni, anzi tutti i giorni che vorrai
regalarmi, Dio buono. Il mio altare fumerà almeno dodici volte all’anno di
olocausti santi, per te.
Se non me la dai, invece, potrei degradarmi,
bestemmiare, ingrassare, e andare con la nera Volkswagen scoperta, sul
lungomare di Rimini, a insultare forsennatamente le puttane e i
bagnini, ubriaco fradicio e ruttando fiato puzzolente di cavolo e di
formaggio rancido.
Dicevo a me stesso: “Pochi mesi fa in caserma, per
disperazione mangiasti, poco prima della cena a base di pasta asciutta, una
mezza pagnotta di pane nero, un intero salame e ti scolasti un bottiglione di
birra nera, spessa, inebriante”.
“Prelibatezze” che mi aveva fatto arrivare sottobanco
mia sorella, per compassione. Pensava che mi tirassero su. Invece ingrassavo
diventando deforme, ogni giorno di più.
Questo magari no, non lo farò più in nessun
caso. Ingrassare sia il vetitum maximum, il tabù principale.
Bestemmiare pure è vietato, poiché infamare gli
dèi è odiosa sapienza.
Se ti rispetto minore è la colpa. Però dammela, Dio santo,
tu che mi hai aperto anzi tempo le porte del carcere cieco della caserma dove mi
facevano lavare i piatti di giorno e stare sveglio davanti al muro di cinta con
il fucile scarico in spalla quasi tutte le notti perché, mentre facevo il CAR
avanzato ed ero entrato nella compagnia atleti vincendo una gara di corsa,
avevo detto a un commilitone, tal Gariboldi, di essere comunista e che mi
dispiaceva militare in un esercito che non era al servizio del popolo ma
fungeva da cane da guardia della borghesia. L’infame riferì al capitano.
Sicché mi sequestrarono i libri sui quali preparavo il
concorso e mi trasferirono immediatamente nella caserma dei riottosi e degli
“sciacquini”.
Ma tu, dio della giustizia, dio dell’amore, mi hai
salvato con un anno di anticipo, il 15 maggio scorso. Sotto nobili gioie anche
la pena gravida di rinascente rancore, muore, finalmente domata. Come scrisse
qualcuno, Pindaro forse. Dopo quei cento giorni di morte civile e sessuale
voglio ribattezzarmi negli umori santi di Helena, la sua saliva, il seno
odoroso, le profumatissime spezie del suo grembo. Le lacrime no.
Ora rendimi interessante agli occhi di questa
femmina finnica, dio, una femmina umana di grande formato!
Anzi questa donna è il modello di tutte
le forme modellate con arte: ha la bellezza di Afrodite, la mente di
Themi, la favella di Atena. Ogni sua movenza è dotata di misura e di ragione,
come i movimenti del sole”.
Così pregai, con franchezza, senza ironia che
non si addice a chi ama.
Dio mi guidò, Dio mi esaudì. Del resto le mie divinità
qui sulla terra sono state, volta per volta, le donne, le femmine umane che ho
amato sempre e, nei secoli dei secoli, sempre amerò. Portano significazione di
gioia, di angeli che annunciano il paradiso terrestre.
giovanni ghiselli
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