Elena disse: “Tu mi sembri un uomo strano, singolare. Prima, osservandoti nel salone dell’università ho notato che hai qualche cosa di particolare negli occhi”.
“Sono molto miope e ho le lenti a contatto” dissi con modestia ostentata, del tutto falsa. Sapevo bene, già allora, che gli occhi sono il centro dell’energia erotica.
Si nescis, oculi sunt in amore duces [4], ricordai senza dirglielo. Ho la tendenza a citare e devo guardarmi dal cadere nel cattivo gusto, nella parte dell’erudito ombroso e ingobbito: “davanti a lui ogni uccello giace spennato”[5]. Le citazioni non possono essere più che i cavalli laterali della troika. Gli altri due destrieri siano sentimento e fantasia. La ragione rimanga l’auriga.
Che ne dici lettore? Cito troppo? Sono un pedante mezz’orbo di occhi e di mente? Fammelo sapere con tutta franchezza.
Elena sorrise e continuò. “Quello che dici, mi conferma che non sei una persona comune. In te ci sono dolori profondamente sofferti, ma c’è anche qualche cosa di intelligente e di buono che può prevalere, se qualcuno ti aiuta”.
Colsi la palla al balzo, immediatamente, con zampata da giovane leopardo affamato, e dissi:
“Aiutami tu. Puoi farlo perché mi piaci, mi emozioni, mi costringi a pensarti, mi stimoli a fare bella figura.
Ti sono molto grato di avermi interpretato tanto benevolmente.
Anche io in te ho visto qualche cosa di non ordinario, e fin dalla prima sera, quando tu non mi avevi notato”.
“Non c’era abbastanza luce a quell’ora”, si scusò.
“Lo immaginavo. Sotto quella luce incerta, non c’era neppure la luna - ironizzai - non potevi notare una presenza riservata, introversa come la mia. Io invece ti ho notata lo stesso, perché tu eri luminosa come un giorno senza nubi, o come luna piena che risplende nelle notti serene e quasi nasconde le stelle. O come gli astri lucenti in mezzo alle nuvole. Tu brilli sempre, anche adesso: rifulgi di luce corporea, e di luce interiore. Io vorrei orientare la mia vita sul corso della tua luce. Il tuo volto luceva più di tutti gli altri”.
Dovevo tradurre il mio desiderio di quella donna in immagini lucide e profondamente emotive.
“Io… io credo che mi innamorerei di te senza riserve, penso che potrebbero unirci ponti vertiginosi se tu non fossi legata a un altro.”
“Già. Peccato che l’altro non veda in me quanto vedi tu”.
Questa risposta, sussurrata, mi parve un altro particolare decisivo. Lo era.
Afrodite e suo figlio mi stavano togliendo ogni dubbio.
“Forse non siete abbastanza sintonizzati, dico spiritualmente”, azzardai, tutto contento, e rivolsi un sorriso amichevolmente giulivo a Fulvio che, tutto travagliato, cercava di comunicare con l’altra, l’ imbambolata.
“Può essere” fece Elena con un sorriso tra l’ironico e il mesto. “Scusa, devo dire due parole alla mia amica”.
Pensai che stesse manifestando la popria autonomia dalle convenzioni sociali in base alle quali la fidanzata avrebbe dovuto respingere con sdegno, perfino con “santa” ira il mio corteggiamento, almeno nella fase iniziale. Non avevo mai incontrato una donna così educata e nello stesso tempo tanto “dissoluta”, in senso buono, ossia sciolta dal perbenismo piccolo borghese tipico delle promesse spose italiane, particolarmente di quelle bruttine o “racchie da ridere” come si dice a Pesaro.
Potevo continuare a punzecchiarla in molti sensi.
Si rivolgeva in finlandese alla biondastra che si trovava in difficoltà a parlare con Fulvio, disorientato anche lui. Forse pensava alla ragazza carsica che sembrava riluttare alle nozze. Ero felice, ogni momento di più. Avevo trovato il tono giusto, atto a suscitare l’interesse non solo generico della splendidissima donna: procedendo metodicamente su questa via[6] potevo farla innamorare di me, e non in modo proditorio o sadico, ossia per umiliarla e tradire la parola data, ma in buona coscienza e rispettando la fides, fundamentum iustitiae, siccome ero innamorato di lei e sentivo che dalla comunione dei nostri corpi e dalla trasfusione reciproca delle anime poteva nascere in tutti e due una maggiore comprensione della vita e di quanto è umano, una intelligenza indispensabile per la crescita delle nostre persone e della missione di educatori che ci premeva. Mangiammo un piatto di carne senza le patate aborrite, insipide come certuni, e per giunta eterne nemiche della santa snellezza dovuta al mio progetto e a me stesso.
Sapevamo entrambi che l’aspetto ordinato, a partire dalla linea snella, fa parte del dovere dell’insegnante il quale rappresenta una figura emblematica agli occhi dell’allievo. Come un principe per il suo popolo. Condividevamo il disprezzo di Hanno Buddenbrook per i professori connotati dallo squallore[7].
Tornammo Debrecen nella notte nuvolosa, attraverso la puszta più che mai deserta. Arrivati nel campus universitario, davanti al kollegium, salutammo Fulvio e Marja Liisa che non avevano trovato modo né voglia di comunicare e si separarono subito non senza un paio di smorfie quasi spettrali. Seppi poi da Helena che tornata in camera trovò la sua contubernale mentre se la prendeva con i cuscini usando piedi e pugni quali catapulte. Come la vide entrare, la megera finnica si mise anche a digrignare i denti, poi a gridare gonfiando il collo. La mia donna, pur forte e coraggiosa, per schivare quella violenza, andò a chiedere asilo politico in un’altra stanza.
Lo stesso dovrò fare io molti anni più tardi per evitare una tale di Pesaro che non mi piaceva e voleva darmi la buona notte prima accarezzando la mia svogliatezza del tutto languida con tale impiastro, poi inveendo contro il mio disimpegno, frigidus sed callidissimus aggiunse, e mi sferrò un pugno nell’occhio più debole con violenza ferina. Dato che eravamo in Grecia, mi vennero in mente i Centauri stupratori del frontone occidentale del tempio di Zeus del maestro di Olimpia.
Non riuscii a dissuaderla cum civilitate né volevo, tanto meno potevo sedarla, e me ne andai a dormire nel contiguo androceo con Fulvio e Alessandro dove mi accolsero quale martire e, aggiunsero, vergine per quella sera.
giovanni ghiselli
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