La solitudine è dolore ma
anche la convivenza è doloreio nel '71
L’amore è gioia
Mentre pregavo, quasi a mani giunte, guardavo la donna tutta umana con aria seria e con il fiato sospeso, dal tavolo non poco chiassoso degli Italiani a quello sospiratissimo delle Finlandesi: Helena, l’auriga della mia anima, parlava pacatamente con un paio di sue connazionali sbiadite. Notai che non fumava. Era perfetta, era la mia dea, il completamento di me, spezzone di essere umano, la contromarca della mia vita era lei. Il suo volto adunava più luce di quelli di tutte le altre giovani femmine umane lì presenti e vive. Dovevo trovare parole tanto forti da impressionarla e farle sentire per me e vedere in me in tutto me il bene e il bello che per lei sentivo e in lei vedevo. Un parlare che le rivelasse tutto il pathos e il logos che quella donna incomparabile mi aveva infuso nell’anima.
Mi scusai con gli amici storici che nell’estate del ’71 erano tutti a Debrecen. Andai a controllare la forma mia in uno specchio dei gabinetti. Non ero male. Fisicamente mi trovavo nella condizione migliore: snello, abbronzato, con i capelli bruni bruni corti, ancora un poco militareschi che tuttavia mi donavano; portavo con disinvoltura le lenti a contatto, e avevo un vestito azzurro che si intonava bene con il colore assai scuro della mia pelle da etrusco adusto dal Sole, il dio che mai mi lascia sbiadire. Anche in caserma trovavo il modo di prendere il suo colore santo. Avevo l’incarnato e le fattezze corporee dalla mamma mia, Luisa Martelli, una ragazza bella, speciale, di Borgo Sansepolcro, il paese di Piero, il dipintore della Resurrezione di Cristo, della Madonna del parto[1], e di altro.
Gli occhi azzurri della madre mia no, purtroppo, non li avevo presi, ma andava bene lo stesso.
Mi piacevo abbastanza. Non ero male per niente: infatti passando in mezzo ai tavoli per andare a specchiarmi, avevo notato che diverse fanciulle mi guardavano con simpatia, e questa è la prova migliore, l’unica, che sei in buona forma e puoi piacere[2]. Ringraziai la mamma mia benedetta. Andava bene così. Con gli occhi azzurri magari mi sarei montato la testa e avrei peccato di u{bri~. Una volta la mamma disse che se avessi preso il suo colore di occhi e la statura di mio padre sarei stato bello come Alain Delon. Risposi che mi piacevo com’ero e non mi sarei cambiato con lui.
“Basta che tu sia contento te”, fece lei nella sua bella lingua aretina.
Io non volevo iniziare una vita diversa ma proseguire nel percorso in salita della mia.
Mi confortai: la bella donna non mi aveva scartato per via dell’aspetto, altrimenti mi avrebbe scansato subito e completamente, come stava facendo con alcuni giovanotti petulanti che la invitavano a ballare; no, Helena aveva provato noia della mia parola banale, priva di qualsiasi bellezza dal punto di vista del conoscibile, anche se il visibile to; oJratovn, non era male. Con l’eloquio vuoto di idee e privo di sentimenti avevo aggiunto squallore al silenzio. Come fa la gente comune, e lei, come la mamma mia, non era una persona comune. Io nemmeno. Dunque potevo trovare un rimedio. Una donna siffatta esigeva, e meritava, il meglio di me. Motivo di più per amarla. Era un’impresa ardua, del resto ogni cosa difficile ributta l’uomo imbelle. E viceversa.
Mi venne in mente Pindaro che nell’Olimpica I racconta l’impresa di Pelope il quale per conquistare Ippodamia deve battere, in una gara furiosa su un cocchio tirato da cavalli, il sanguinario padre di lei, Enomao[3], assassino dei pretendenti ogni volta sconfitti. L’eroe eponimo del Peloponneso, la notte prima dell’agone rischioso pensa, e prega così il dio Poseidone:
“Dato che è necessario morire, perché uno dovrebbe
smaltire invano una vecchiaia anonima seduto nell'ombra
senza parte di tutte le cose belle? Ma questa
gara giacerà sotto di me: tu dammi propizio l'evento"[4].
Io non potevo passare le serate a guardare partite di calcio sbraitando o con le carte, il gioco patetico nel quale le mani appassionate mimano la masturbazione: aspetti deplorevoli della vita umana secondo il demone mio.
Vivevo cercando amore e bellezza.
Per vincere la mia gara dunque, per evitare una sconcia disfatta, dovevo trovare il modo di farmi ascoltare con interesse in un secondo incontro con la bella donna cosciente del bello, dovevo piacerle tanto da farla giacere nuda con me nudo in un letto, cosa che è il solo rimedio al dolore della carenza amorosa. Dovevo espugnarla.
Era perciò necessario preparare una conversazione più intensa, più densa e pastosa; un logos più profondo e più alto, un pathos pieno di vita, parole e pensieri sublimi, com’era lei nella mia valutazione, forse eccessiva ma atta a stimolare tutte le mie energie migliori. I miei slanci amorosi dovevano avere il fascino di figure retoriche geniali: un fraseggiare di brevità, di bellezza e di forza; con meno di tanto non potevo farcela. Dovevo quel successo al prosieguo della mia esistenza terrena.
“E il vincitore per il resto della vita
ha una dolce serenità”[5], mormorai.
giovanni ghiselli
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