L’approccio. Il ricordo incoraggiante dell’altra Elena
L’incontro
alla “festa della conoscenza” nell’Università di Debrecen. Le due Helene
Partii da
Pesaro il 18 luglio del 1971, oramai ventisettenne.
Feci
il viaggio con Claudio nella nera Volkswagen decappottabile, tenuta a tetto
scoperto durante il giorno caldo e luminoso pieno di promesse. Ero contento,
tutto contento come un bambino: senza sapere perché. Se avessi previsto che il
compagno di scuola, di strada e di qualche bagordo, avrebbe perduto il lavoro e
sarebbe finito in galera accusato di infamie su infamie con mani sporche di strage[1],
e se avessi immaginato che nella città universitaria dell’Ungheria orientale
stava arrivando da una terra remota, iperborea, praticamente l’ultima Thule, e
proprio per incontrare me, la donna bella e fine che cercavo da anni, e sarebbe
diventata l’amore più grande della mia vita, non sarei stato allegro
e spensierato, ma dispiaciuto per l’amico dal duro destino, e viceversa felice,
pieno di felicità per il dono insuperabile di Helena, la meravigliosa creatura
di Yväskylä, cittadina universitaria della Finlandia centrale.
A Debrecen
dunque, il 20 luglio del ’71, incontrai la terza finnica del mazzo, la prima
davvero importante, la più influente sul seguito della mia vita. Mi piacque
subito per l’aspetto, nello stesso tempo florido e snello; poi la ascoltai
parlare, ne osservai lo stile, ne apprezzai il valore raro, e me ne innamorai;
quindi mi feci conoscere come persona e riuscii a piacerle; infine, come volle
Dio, chiunque egli sia, facemmo l’amore.
La vidi nel
grande cortile dell’Università la sera della “Festa della conoscenza”: mi
apparve vestita di colore bianchissimo, bianca la pelle, come l’avorio
tagliato, ma neri i capelli, e neri gli occhi dal taglio obliquo.
Scintillavano di energia spirituale, non erano solo due brillanti scaglie di mica[2].
Helena non era soltanto materia, come mi farà notare lei stessa durante una
breve crisi di questa storia.
Era bella,
fine, sicura di sé.
Aveva una
femminilità di razza. Di pura razza umana.
Avevo
riconosciuto in lei la forma che mi era piaciuta per prima: quella delle donne
mie consanguinee: la mamma subito, poi le zie, la sorella, perfino la nonna
delle fotografie. E in fondo, alla fine dei conti, narcisisticamente, anche la
forma mia.
La finnica
aveva un’aria intelligente e matura: parlava con calma e decoro. Senza fretta,
senza arie né smancerie, senza posare.
Niente
commedie né tragedie, le scene cui erano ancora inclini molte ragazze e donne
italiane, e non solo. Nessuna maschera comica, né tragica.
Helena era
naturale come i fiori non coltivati, i gigli dei campi, e come le stelle del
cielo che non hanno bisogno di orpelli, cosmetici, lifting cui ricorrono i
brutti, i bugiardi, gli insicuri di sé.
Le persone
che hanno scelto la propria natura, che hanno riconosciuto e approvato il
proprio destino e carattere, non fanno scene. Di loo ci si può fidare.
Appariva, ed
era nei fatti, l’antitesi delle mime volgari che insultano il buon gusto, ed
era, quindi, il contrario degli snob, i maleducati che trasudano ridicola
affettazione. Vogliono fare colpo sugli altri cercando di apparire diversi, più
importanti di quello che sono.
Dalla sua
persona uscivano, con naturalezza, effluvi di grazia nobile e antica.
Nobile era
lei in quanto naturale: niente è nobile quanto la natura, la quale è
aristocratica più di qualsiasi società feudale basata sulle caste.
Non aveva
niente di servile né di artificiale.
Come l’ebbi
notata, pensai che solo stando vicino a quella donna avrei potuto evitare le
contaminazioni che vedevo incombere altrove. Notavo non poche persone chiassose,
infantili, pronte a trasgressioni sciocche e disordinate.
Ero
sicuro che quella ragazza mi piaceva quanto nessun’altra delle numerose femmine
umane raccolte in quel luogo dove non si radunava certo il peggio dell’umanutà
“Questa
donna è giunta nel tempo e nel posto dovuto al nostro incontro, pensai, “è lei
la persona commisurata a me. Ed è pure il genius loci”.
E’ stato per
incontrare lei che Dio, chiunque egli sia, mi ha condonato diversi mesi di
caserma,
Mi
avvicinai dunque, e mi presentai.
Rispose con
cortesia, ma senza dare segni di particolare interesse per me. Bevemmo un
bicchiere di “sangue di toro di Eger”, il vino rosso ungherese dal nome
dionisiaco.. L’ho sempre sorseggiato sperando in esiti di gioia coribantica con
le donne via via corteggiate.
Parlammo
un poco, poi la invitai a ballare. Quando mi ebbe ripetuto il
suo nome classico, guardai le braccia appoggiate sulle mie spalle,
le chiome negre che le ombreggiavano il collo e il vestito
scollato sul petto bianco, tondo e luminoso più della luna piena e
alta d’estate, quindi, commosso, pensai: “ Elena dalle bianche braccia, dalle
belle chiome, probabilmente hai lavato da poco il corpo candido con acque
correnti, poi devi avere tirato fuori la biancheria e la veste da una cassa di cedro,
un legno che protegge i tessuti dall’umidità e dalle tarme. Voglio piacerti e
sentirmi accolto da te”.
Piccola
digressione: Helena Schejbalova
Ma ebbi
anche un pensiero più concreto; anzi il ricordo incoraggiante di un successo
erotico precedente. Sul mar Nero, nel luglio di quattro anni prima, una
ragazzina diciassettenne, di Praga, un’Elena anche lei, Helena Schejbalova, mi
aveva sorriso una mattina, mentre bevevo il caffè in un bar dove ero andato per
allontanarmi dai compagni di viaggio, tre marchigiani simpatici, con i quali
avevo avuto un screzio piccolo, non serio, da ragazzi insicuri quali eravamo
tutti e quattro. Segnavamo sullo sportello dell’automobile, con un pennarello,
una piccola croce per ogni ragazza baciata e facevamo a chi ne metteva di più.
Era il 1967 e avevamo 22 anni. Un’età mica brutta tutto sommato.
Questa
prima Helena era una biondina dagli occhi cerulei. Il suo sguardo colorò di
celeste anche il sorriso che mi rivolse. Glielo contraccambiai, mi avvicinai e
ci presentammo. “Sei bellina -le dissi- molto bellina”.
A parte
l’eterno richiamo dei sessi, allora i rapporti umani erano spesso cordiali. I
giovani soprattutto si guardavano con simpatia.
E non
c’erano pugnali nei sorrisi degli uomini[3].
Parlammo,
facemmo amicizia e riuscii a baciarla, ma non potei procedere: disse che era
troppo giovane per fare l’amore.
“Sono
giovane anche io-provai a replicare- eppure maturus tibi, puella”. Invano.
Tornai al
campeggio, dai miei compagni di viaggio, tutto contento comunque, e amichevole
assai. Si fece la pace. Poi andai a mettere la croce. Una in più.
La primavera
successiva, quella magica del ’68, Helena e io ci ritrovammo a Praga dove ero
andato nell’ambito di uno scambio di collegi universitari. Quello fu un anno in
cui la gioventù aveva fiducia in se stessa e nelle forze positive, progressive
della Storia. La fanciulla nel frattempo si era già iniziata al culto di
Afrodite, la dea dal sorriso amabile, e vivemmo una settimana d’amore che
allora non valutai abbastanza.
Io avevo
un’Elena finché la mia disattenzione non la dimenticò.
Ma passati
tre anni, potevo avere un’altra Elena e ne avrei fatto tesoro.
Mi tornò in
mente la più remota molto tempo dopo, durante una gita scolastica a Praga.
Erano passati più di trent’anni, quasi quaranta, veloci e inopinati come le
nuvole in cielo quando il tempo si guasta e il vento le spinge. Oramai avevo
superato i sessanta, ero senex, eppure le donne mi piacevano ancora. “Il
genio non ha età”, pensavo quando mi interessavo a una donna che poteva essere
mia figlia, “vediamo di farglielo capire”.
Ero
con una mia terza liceo, e gli allievi si trovavano in giro per conto loro, o
con altri professori, colleghi che mi piacevano poco, e io a loro piacevo anche
meno di poco. Andai dunque da solo nella storica birreria Ufleku dove da
ragazzo ero stato con lei, la diciottenne bionda, sorridente con gli occhi
celesti. Mentre ricordavo nei particolari quella settimana remota e il dono di
quella fanciulla, pensai che la mia vita era stata, e poteva essere ancora, un’avventura
magnifica, piena di eventi, quindi piansi di gioia e di gratitudine non
invecchiata[4].
Riconoscenza per lei, per le altre, altre femmine umane che mi avevano
contraccambiato, non poche, grazie a Dio e alla
vita. Ero grato per il destino che mi era stato
assegnato, o avevo acciuffato io tra quelli disponibili.
Non sapevo,
non saprò mai se l’avevo scelto il demone mio, o era stata Lachesi, la figlia
di Ananche a sorteggiarlo per me[5].
Comunque ero
felice e, solo com’ero, sollevai il bicchiere brindando a
quell’ajgaqo;" daivmwn. Chi mi vide dovette pensare che
fossi ubriaco.
In
quel tempo ero oramai quasi vecchio e abbastanza maturo per valutare con
attenzione i grandi doni ottenuti con l’impiego di tutte le mie facoltà, regali
preziosi come l’iperborea Helena Sarjantola e come Helena Schejbalova,
fanciulla di Praga. Nel ’68 non fui abbastanza cosciente e grato di
quell’offerta celeste, un’oblazione che cominciò a cambiarmi la vita in meglio.
Ero ancora una specie di prostituta che riceve i doni come potrebbero fare le
onde del mare se venissero seminate con chicchi di grano [6].
Ma la sera
del 20 luglio del ’71 il ricordo improvviso di quel sorriso caldo e luminoso mi
incoraggiò parecchio.
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[1] Processato,
venne assolto.
[2] Cfr.
Proust, All'ombra delle fanciulle in fiore, p. 397: "Se
pensassimo che gli occhi di una ragazza come quella non sono che una brillante
rotella di mica, non saremmo così avidi di conoscere e di unire a noi la sua
vita. Ma sentiamo che quel che riluce in quel disco pieno di riflessi non è
dovuto unicamente alla sua composizione materiale; che sono, ignote a noi, le
nere ombre delle idee che quell'essere si fa a proposito delle persone e dei
luoghi che conosce… le ombre, anche, della casa in cui rientrerà, i progetti
ch'essa fa o altri han fatti per lei; e soprattutto che è lei, con i suoi
desideri, le sue simpatie, le sue repulsioni, la sua oscura e incessante
volontà".
[3] Cfr.
Shakespeare, Macbeth, II, 3
[4] Euripide
mette in evidenza il grande valore della gratitudine quale componente
dell'amicizia nell'Eracle, dove Teseo non ha dimenticato l'aiuto
ricevuto dall'amico che lo ha riportato in luce dal regno dei morti (v. 1222)
e, disponendosi ad aiutarlo, gli dice: "cavrin de;
ghravskousan ejcqaivrw fivlwn" (v. 1223), io odio la gratitudine degli amici che invecchia,
[5] Ognuno
di noi, secondo il mito di Er, prima di tornare sulla terra, si sceglie il
proprio demone. Platone, alla fine della Repubblica (617 e) fa
dire a Lachesi, la vergine figlia di Ananche: "oujc
uJma'" daivmwn lhvxetai, ajll& uJmei'" daivmona aiJrhvsesqe", non sarà il demone a
sorteggiare voi, bensì voi a scegliere il demone.
[6] Cfr.
Alceo chi fa doni a una puttana è come se li gettasse nelle onde
del mare canuto (fr. 117 Voigt).
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