lunedì 26 luglio 2021

La storia di Elena Sarjantola. XII capitolo. La csárda di Hortobágy e Piero della Francesca

Hortobágy
Arrivati a Hortobágy, distante da Debrecen una trentina di chilometri, entrammo nella grande osteria dove gli zigani suonavano violini e cembali.

Nella loro musica, già ascoltata negli anni precedenti in vari locali di Debrecen, e lì nella puszta, sentivo già in quella estate  del ’71, l’eco di un tempo remoto che però non mi induceva alla nostalgia, anzi  mi dava la spinta a procedere, “soffio possente di un fatale andare”[7], poiché confrontando il presente con il passato, notavo un continuo progresso che non si sarebbe arrestato durante la mia vita terrena, forse neppure oltre la morte. I suoni discordanti che componevano la mia vita  dovevano però essere armonizzati in una melodia ricca di significato e di promesse riguardo a successive conquiste in termini di umanità.
“Chi si affatica sempre a procedere oltre, noi possiamo redimerlo”, dice il coro di angeli nell’atto di salvare Faust[8]. Questo mi ricordai.

Entrammo e ci mettemmo seduti a un tavolo situato vicino a una stufa di maiolica o terracotta policroma, bianca e azzurra come una formella robbiana. Mi vennero in mente quelle viste alla Verna un pomeriggio nel quale ero salito lassù durante un giro ciclistico della Toscana. La mattina ero andato a vedere la Maddalena di Arezzo, la Madonna incinta di Monterchi e la Vergine della Misericordia di Borgo Sansepolcro: figure semplici e belle, ideali e reali, dolci e risolute come la donna che stava seduta di fronte a me.
La poesia di spirito e carne di Elena non stava al di sotto della poesia matematica di Piero, anzi. Confrontavo ricordando. Mi dava una strana cnsolazione.
 Quel giorno dell’estate precedente, le immagini di Piero della Francesca, il giaciglio dell’onesto Francesco, lo stesso Gesù della pinacoteca del Borgo, il Cristo che esce dal sepolcro, “accigliato colono imbalsamato dal sole”[9], mi avevano riconciliato con la religione cristiana, facendomi antivedere una risurrezione mia, grazie alle donne belle e fini che avrebbero donato gioia e conforto alle solitudini immense, alle fatiche erculee dei questa mia vita da asceta pagano cui sono predestinato da sempre e per sempre. 

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