martedì 13 luglio 2021

Gli imbestiati ritrovano la loro umanità. Gli imbestiati Calibano di Shakespeare, Ciàula di Pirandello e Lucio di Apuleio ritrovano la loro umanità

Si sente un’aria suonata con un tamburello e uno zufolo e Calibano dice che l’isola è piena di rumori suoni e dolci arie deliziose. A volte lo fanno dormire e lui sogna che le nuvole si aprano mostrandogli ricchezze pronte a versarsi su di lui. Poi si sveglia e piange perché vorrebbe sognare ancora (when I wak’d –I cried to dream again,  La tempesta, III, 2, 140-141).
“Calibano non riesce  a conciliarsi con se stesso  e non può rassegnarsi al suo destino di deficiente e di schiavo” (Kott, Shakespeare nostro contemporaneo,  p. 50). Cfr. Ciàula scopre la luna di Pirandello 1921

Pirandello  Ciàula scopre la luna (1907)
Ciàula è il caruso, l’aiutante sottoposto a un minatore, un picconiere vecchio, povero Zi’ Scarda, vessato a sua volta dal soprastante Cacciagallina. Ciàula “aveva più di trent’anni, (e poteva averne anche più di settanta scemo com’era)” Il superiore lo chiama “col verso con cui si chiamano le cornacchie ammaestrate: Te’ pa’! te’ pa’!” Ciàula stava a rivestirsi per tornare al paese”. Rivestirsi significava indossare un panciotto bello largo e lungo, avuto in elemosina, che doveva essere stato un tempo elegantissimo e sopraffino (ora il luridume vi aveva fatto una tal roccia che a posarlo per terra stava ritto). Con somma cura Ciàula ne affibbiava i sei bottoni, tre dei quali ciondolavano, e poi se lo mirava addosso, passandoci sopra le mani, perché veramente lo stimava superiore ai suoi meriti: una galanteria. Le gambe nude, misere e sbilenche, durante quell’ammirazione, gli si accapponavano, illividite dal freddo. Se qualcuno dei compagni gli dava uno spintone o gli allungava un calcio, gridandogli: - Quanto sei bello! - egli apriva fino alle orecchie ad ansa la bocca sdentata a un riso di soddisfazione, poi infilava i calzoni, che avevano più d’una finestra aperta sulle natiche e sui ginocchi; s’avvolgeva in un cappottello d’albagio tutto rappezzato, e, scalzo, imitando meravigliosamente a ogni passo il verso della cornacchia - crah! crah! - (per cui lo avevano soprannominato Ciàula), s’avviava al paese”.

Ma quella sera i due dovevano restare nella cava a estrarre e trasportare lo zolfo messo nelle casse.
Era l’ordine di cacciagallina cui Zi’ Scarda obbediva.
A lui obbedì subito Ciàula che andò a levarsi il panciotto.
Il caruso non aveva paura “della tenebra fangosa delle profonde caverne (…) Aveva paura, invece, del bujo vano della notte (…) Ogni sera, terminato il lavoro, ritornava in paese con zi’ Scarda; e là,  appena finito d’ingozzare i resti della minestra, si buttava a dormire sul saccone di paglia per terra, come un cane; e invano i ragazzi, quei sette orfani nipoti del padrone, lo pestavano per tenerlo desto e ridere della sua sciocchezza; cadeva subito in un sonno di piombo, dal quale, ogni mattina, alla punta dell’alba, soleva riscuoterlo con un noto piede”. Quella notte dunque riprese il lavoro saliva “la scala così erta che Ciàula con la testa protesa e schiacciata sotto il carico, pervenuto all’ultima svolta, per quanto spingesse gli occhi a guardare in su, non poteva vedere la buca che vaneggiava in alto”. Ma alla fine il caruso sbucò “da ventre della terra” e scoprì la luna.
“Estatico cadde a sedere sul suo carico, davanti alla buca. Eccola, eccola là, eccola là, la luna… C’era la Luna! La Luna!
E Ciàula si mise a piangere, senza saperlo, senza volerlo, dal gran conforto, dalla grande dolcezza che sentiva, nell’averla scoperta, là, mentr’ella saliva pel cielo, la Luna, col suo ampio velo di luce, ignara dei monti, dei piani, delle valli che rischiarava, ignara di lui, che pure per lei non aveva più paura, né si sentiva più stanco, nella notte ora piena del suo stupore”.
L’uomo imbestiato dagli altri e da se stesso, si umanizza, come Lucio diventato asino poi reso a se stesso dalla vista di Iside apparsa come luna.
L’asino si sveglia di notte e vede la luna, immagine di Iside e la prega, attribuendole molti nomi. Chiede di deporre diram faciem quadripedis e di renderlo a se stesso redde me meo Lucio (Apuleio, Metamorfosi, 11, 2), rendimi al Lucio che sono.
  
Nel sonno appare una divina figura, una dea con foltissimi, lunghi capelli, con una veste di lino sottile, dal colore cangiante , ora candida, ora gialla come fiore di croco, ora rossa. Era coperta da una sopraveste di un nero splendente.
La dea è chiamata con molti nomi Cerere, Venere Celeste, Diana, Proserpina.
Cerere, Venere e Diana sono i tre aspetti luminosi della dea cosmica; Proserpina, nocturnis ululatibus horrenda, è l’aspetto oscuro.
 
giovanni ghiselli
 

 

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