sabato 24 luglio 2021

La storia di Elena Sarjantola. IX capitolo. Naso magister erat

Intanto nell’attesa soffrivo, ma capivo che la sofferenza aggiungeva intelligenza alla situazione[3]. Se volevo interessarla, dovevo oltrepassare il personaggio che pure con grande sforzo e discreta soddisfazione avevo già raggiunto, senza però essere diventato ancora una persona se non nel significato latino di questa parola[1]: in quel periodo lontano ero piuttosto contento di avere costruito in me stesso il giovane uomo non sgradevole, presunto elegante, non senza qualche nota di sprezzatura, dotato di alcune letture buone, di un’automobile simpatica, quasi originale per l’epoca, di denaro in quantità sufficiente per invitare a teatro e a cena una donna o un amico, e questo anche grazie ai mezzi che mi elargivano la vecchia nonna e le zie, le anziane tiranne, oramai domate e ridotte a dispensiere generose del mio benessere materiale.

 “Sorelle Materassi”, le chiamava la mamma.

 Ebbene Helena Sarjantola, con il suo stile nobile e maturo, cosciente di sé, mi fece capire che nella mia umanità dovevo trovare qualcosa di meglio del dandy di provincia, del giovin signore raffinato che volevo sembrare e non ero. Avevo bisogno di una donna siffatta per levarmi questa maschera  e  diventare quello che sono. Avermi aiutato a trovare dentro di me una persona migliore, ossia più buona, più intelligente, autentica e lieta del personaggio che cercavo in vari modelli esterni, per imitarlo ed esibirlo agli altri, è stato il grande dono suo.

 Gliene sono grato ancora, dopo cinquanta anni da quell’evento.

Cinquanta compiuti in questo luglio 2021.

 Ci voleva quella creatura di nome e formato classico, Elena dalle braccia bianche come mandorle sbucciate, dalle splendide chiome negre sciolte sul collo candido[4], era necessaria lei per provocare una nuova maturazione mia a quasi ventisette anni: se non l’avessi incontrata, probabilmente avrei continuato per chissà quanto tempo a fare il ragazzo carino, piacente, quale ero diventato dopo anni di esercizio in tal senso: sorridente e un poco ridicolo, incipriato di alcune letture citate spesso, anche a sproposito, sfoggiate da arricchito intellettuale come l’automobile strana, le magliette firmate, le scarpe di marca costosa, alternate con altre dalla suola bucata, da comunista chic o da zingaro dionisiaco,  noncurante dell’abbigliamento, eppure domicilato in un appartamentino di lusso, una nicchia nella piazza centrale di Padova . All’epoca ero, in qualche modo, fortunato, ma non certo felice. Difettavo di autenticità e di realtà. Mi atteggiavo a comunista, ad artista, ed ero solo un borghese sviato.

Con il personaggio che rappresentavo  potevo trovare ragazze a loro volta carine, ma senza esigenze di stile davvero elegante, di pensiero profondo quale attribuivo a quella finnica che, conosciuta da poco, stava transvalutando, cioè rivoluzionando la mia scala di valori  piccolo borghesi, fasulli e infantili.

La realtà era cosa più seria, moralmente più seria di me.

C’erano diverse femmine appetibili quella sera di luglio, la ismerkedési est [5], nel grande cortile dell’Università, dove Eros ci aveva riuniti in tanti proprio per farci conoscere.

 Alcune poi erano decisamente belle: ad esempio Katalin, la ragazza ungherese conosciuta nel ’68, quando era ancora fanciulla diciottenne. Nel 1971 non era più tanto pulzella, né come esperienza né come atteggiamento: nel frattempo si era sposata. non bene, e quella sera sembrava avere voglia di un diversivo, e proprio con me, se non erravo nell’interpretare il tono aspro, cattivo, che usava con il consorte, e le occhiate incoraggianti, i caldi sorrisi ammiccanti che mi indirizzava. Avrei potuto vivere un’avventura piacevole e piccante con l’indigena venusta e procace, godere di quelle natiche belle, per giunta agghindate, da giovane callipigia magiara, ma costei non aveva nulla di fine, mentre io sentivo la necessità di Helena di Yväskylä per crescere ancora.

Katalin per giunta non era contenta di sé, e alla mia crescita non giovava piacere a una donna che non piaceva a se stessa.

 

 Così mi tenni impegnato per tutta la “sera della conoscenza” a studiare Helena, onde trovare in me le parole adatte per impressionarla, per lasciare un’impronta nell’anima sua durante l’incontro successivo. Poi magari pure un segno di me  in quella mente bella e in quel  corpo formoso che compendiavano il cosmo. Sarebbe stato un trofeo e un’apoteosi. Riguardo a Katalin, che venne a invitarmi più di una volta, offrendomi anche un numero di telefono, non coniugale e domestico, ma galeotto, cercai di prendere tempo, per vedere se prima di accettarne o rifiutarne l’oblazione, per niente sgradita, potevo avere una seconda occasione con l’altra, la femmina umana, anzi più che umana: nel mio sentimento Elena eradotata di grazia, piena di Dio, foriera di un destino buono, del fato che, solo, era mio. Era l’eterno femminino che doveva trarmi verso l’alto[6].

 Annusavo come un cane dalle buone narici. Fiutavo una serie di eventi favorevoli, da non lasciarmi scappare. Contavo sulle capacità della mia mente e del mio carattere.

La luce del mio intelletto non doveva disperdersi, ma focalizzarsi su quella donna, illuminarla e scaldarla. La forza della mia intelligenza doveva manifestarsi diritta come un raggio di sole, o come una freccia, e colpirla. Senza farle del male però.

 “Il futuro verrà” mi dissi, ricordando Eschilo[7], e mi avviai verso la camera e il letto, da solo.

Salutai gli amici: “Avete ragione ragazzi, sono fissato con le finniche. Vado a letto in anticipo per pensare a quest’ultima senza essere disturbato da contubernali molesti quali voi siete. Buona notte”.

“Fai bene a pensarla da solo, magari masturbati pure, tanto non la guzzi!”, ripeté Claudio battendo sul tavolo il suo pugno freddo, da diavolo, mentre un sorriso carnivoro gli allargava le mascelle. In certi momenti aveva la forza e il vigore di una belva.  

 L’ augurio sinistro comunque non mi smontò, anzi ravvivò il mio desiderio di Helena. Schivavo gli assalti come con il canotto evitavo le onde nel mare di Pesaro tanti anni prima. Da una cosa se ne imparano tante perché tutto è collegato con tutto.

“Il demonio è l’infernale personificazione della negatività”, mormorai con un sorriso.

 Poi a voce udibile dissi: “Tu Claudio ora per me sei e{n ti tw`n ajdiafovrwn[8], una cosa di quelle cose indifferenti, di cui non tengo alcun conto. Comunque lo stile non subisce decreti sulla piazza del mercato.”

Uscii e mentre passavo accanto alla fontana, variopinta, illuminata da luci colorate pensai: “il successo delle prossime mosse mi aiuterà a trovare la via della mia vita. Non sono un sapiente, ma alcune cose le so”.

Andai a letto. Ero solo e sospiroso, ma il guanciale non era pieno di sassi[9], né conteneva uno zoccolo di giumenta [10].

Piuttosto era soffice e sodo nello stesso tempo, piacevole e utile come le mammelle di Helena. “ E’ la vita  che imita l’arte”, pensai dandomi scioccamente un sacco di arie davanti a me stesso, “non l’arte la vita[11].

Domani farò tesoro dei suggerimenti del maestro peligno”.

Naso Magister erit.

Mi addormentai speranzoso. Abbastanza. Apettavo che le stelle si mostrassero liete verso di me.

 

Bologna 24 luglio ore 16, 51

giovanni ghiselli

 



[1] Persona= maschera

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