giovedì 29 luglio 2021

La storia di Elena Sarjantola. XV capitolo. Il corteggiamento nel bosco

Monet, Ninfee
Subito dopo il congedo dai due amanti mancati, Elena e io, amanti in pectore, nel petto già fervido, il mio almeno lo era, ci incamminammo per il bosco segnato da parecchi sentieri, verso la zona dov’era un laghetto con un ponticello di legno. Al fianco della bella donna perfino la tenebra mi appariva speciosa.

Giunti là, sedemmo su una panchina sotto una quercia immensa, sull’orlo dell’acqua. Elena mi parlò della sua vita in Finlandia, del suo lavoro che amava e del suo uomo di cui, invece, non sembrava innamoratissima. Disse comunque che voleva rispettarlo, e che gli voleva bene, particolarmente da quando, negli ultimi tempi, avevano quasi deciso di vivere insieme perché lei forse, probabilmente, aspettava un bambino. Quest’ultima notizia mi impressionò, ma non fu un deterrente tale da farmi cambiare proposito. Anzi, il desiderio di unirmi a lei ne fu incentivato: all’amore si aggiungeva il gusto del proibito, dell’assolutamente gratuito, e quello della rivalsa: lei era bella e fine; di lui disse che era facoltoso, una specie di Puntila brechtiano, non colto, un poco strambo, buon bicchiere e fisicamente prestante.

“Comunque - pensai - ai suoi occhi non è un magnanimo eroe, come dovrò apparirle io, per vincere la battaglia erotica. Sì: mi aspettava  un agone  militaresco: “Militat omnis amans et habet sua castra Cupido”.

 Sentite le sue parole, il mio demone avido, magro, cupamente famelico, mi spingeva più che mai a corteggiarla perché si unisse e mescolasse con me nutrendomi con la sua carne bianca e sostanziosa, dopo avere abolito con me tutti i divieti di cui ero stato imbevuto in famiglia e in parrocchia, tabù che in passato mi avevano impigionato e tolto la gioia di vivere.

“Perché hai scelto quell’uomo?” Le domandai a bruciapelo.

“Perché è buono, mi dà sicurezza e il suo aspetto mi piace”.

 Gongolando dentro di me senza farlo vedere, anzi con aria quasi compunta e un po’ gesuitica, le feci notare che non gli aveva attribuito genio né intelligenza, le doti che alle donne di una certa levatura piace al di sopra di tutte le altre. Infatti sono qualità di rilevanza cosmica. La potenza suprema che attira le femmine umane belle e fini, Elena non l’aveva riconosciuta al suo compagno, mentre in me la stava rilevando e persino potenziando dopo poche ore di conversazione.

La partita a scacchi dunque poteva procedere. Lo svantaggio della prima serata era stato colmato e si stava rovesciando in vantaggio.

Per confermarlo, passai all’attacco. Le domandai: “Sicché non è soprattutto intelligente il tuo fidanzato?”

“Crede di esserlo” rispose non senza ironia, aprendo la strada al mio trionfo, infondendo ulteriore coraggio al demone mio che non mancò di gioire. Satanicamente penserai tu, candido lettore.

Io invece pansai: “Una precisazione decisiva, un segno del cielo che significa molto. Una scala celeste che trae l’anima in alto. Il cielo ora non solo è sopra di me, è anche è dentro di me, e io ne colgo i segni con astrologica filologia e pure con sapienza erotica”.

E subito dissi: “Anche se tu hai un uomo e aspetti un figlio da lui, io ti amo, e sento che se mi ricambierai, noi ci rafforzeremo e diverremo più felici, dum vita manebit[8]. Se non potrai amarmi, io accetterò questo destino malvagio: sarò un vir fortis cum mala fortuna compositus”. Cercavo di controbilanciare il mio inglese modesto e troppo neolatino con il latino vero, quello classico che la bella donna conosceva e intendeva, come vedremo.

“Forse non aspetto un bambino”, replicò, “né rimarrò con lui. Sai, io non sto del tutto bene. A volte sento grandi dolori nel ventre. Quand’ero più giovane, da adolescente, mi hanno operata. Poi stavo molto meglio, ma ultimamente, con l’interruzione delle mestruazioni, sono tornati i dolori. Un medico di Yväskylä, poco prima che partissi, mi ha detto che devo farmi vedere presto, qui a Debrecen. Potrei essere incinta, ma potrebbe esserci un cancro. Ho paura. Comunque devo fare una serie di analisi, cominciando dal test di gravidanza. Ho molta paura. Non sono sicura di aspettare un bambino, né di volerlo, e ho terrore di essere malata a morte. Poi ho altri timori”.

Qui si interruppe. “Cioè?” le domandai spaventato, commosso, eccitato. Quella donna era la femmina incinta: la madre, amata nobis quantum amabitur nulla [9], la mamma che fino allora non era stata abbastanza affettuosa con me sebbene, adesso che lei sta in cielo ne sono certo, mi amasse, né io ero stato capace di affetti generosi con lei, nonostante l’amassi molto; Elena era inoltre la giovane bisognosa di aiuto e conforto: la figlia che non avevo e forse non avrei avuto mai il coraggio di mettere al mondo; era la donna intelligente, ammirata e desiderata: l’amante e l’amica quale mai avevo incontrato.

 

Le femmine leziose, le sbiadite, le variopinte, le petulanti, le insipide come patate, le frustrate aggressive, le scimunite, le morte di studio o di sonno, le commedianti incolte, le ciarliere in vari modi incontrate fino a quel momento non avevano mai suscitato interesse nell’anima mia.

Certo non così grande e forte

“Cioè non so parlare ungherese, e in clinica temo di non potermi spiegare”.

“Ti aiuto io - proposi - “io me la cavo, anzi, per te sarei capace di improvvisarmi eloquente anche in questa lingua magiara”. Non dissi “ostrogota” poiché l’ungherese e il finlandese sono strani idiomi imparentati tra loro . Sarebbe stato offensivo. Aggiunsi che le mie parole si sarebbero accese di una luce chiarissima, riverberando la splendente bellezza di lei. Una bellezza, aggiunsi, che era anche intelligenza e moralità.

“Voglio farmi ricordare da te, meritando di te assai, non poco” conclusi.

Ma Elena non si lasciò impressionare granché dal mio slancio: mi prese la mano destra e disse: “Gianni, io non ho bisogno di un amante. Tu sembri buono. Possiamo essere amici, se vuoi. In ogni modo mi piaci: sei intelligente, sei simpatico, sei gradevole. Tu sai piacere, davvero, e io sto imparando a stimarti, a volerti bene. Però non deludermi con una richiesta che ora non posso esaudire. Adesso non lo farei con nessuno, nemmeno con lui”.

La guardavo con aria di assenso. Dissimulavo la delusione.

Le dissi: “non preoccuparti. Ti farò questo piccolo favore senza aspettarmi niente in cambio, se non la tua simpatia. E su questo non giustificarti, non dire altro. L’aiuto che posso darti non ha bisogno di lunghi discorsi. Mi vengono in mente alcune parole dello sposo innamorato, il Commendatore, alla moglie donna Anna, nel Don Giovanni: ‘Dalla tua pace la mia dipende-quel che a te piace vita mi rende-quel che a te incresce, morte mi dà’. La musica di Mozart è la voce di Dio, il suo talento un dono di Dio. Come sei tu per me”.  

 Parlavo e pure cercavo di consolarmi: “Sembra un rifiuto, ma non lo è. Mi ha riconosciuto tutte le qualità per cui una donna di valore ama un uomo. Mi prega di non chiederle amore, mentre è lei che me lo offre. Sennò tornava in collegio con l’altra, la brutta, la megera scema dalle gote accese. La faccenda della lingua ungherese è un pretesto, magari suggerito dal fato, un’occasione offerta alla crescita della nostra intesa. I medici ungheresi o vietnamiti della clinica universitaria un poco di inglese lo sanno. Che noi due si faccia l’amore è destino. Dio stesso lo vuole e io non recalcitro mai al volere di Dio.

Sono naturalmente, e senza sforzo alcuno, concorde con Lui .

 Sono perfino disposto ad aiutarla gratis et sine corporis voluptatibus, se il Fato dispone questo e lei davvero non può darmi nulla in cambio. Ma è molto improbabile, quasi impossibile”.

 

Bologna 29 luglio ore 16, 23

giovanni ghiselli

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