mercoledì 14 marzo 2012

Il pensiero incarnato in Emmanuel Levinas - recensione di Giovanni Ghiselli







Francesca Nodari 


E’ appena uscito un libro molto denso di Francesca
Nodari:
Il pensiero incarnato in Emmanuel
Levinas (Morcelliana). 
La giovane
studiosa è direttore scientifico del Festival Filosofi lungo l’Oglio e
collabora alla cattedra di Filosofia teoretica dell’Università di
Milano-Bicocca. 







Alle origini del pensiero incarnato ci sono i Carnets de captivité che sono stati
pubblicati nel 1909, diversi anni dopo la morte (1905-1995) del filosofo ebreo-lituano
che fu prigioniero di guerra dei nazisti. Il corpo viene rivalutato dalla
svalutazione operata dai vari spiritualismi. Già Leopardi aveva scritto:“
anticamente la debolezza del corpo fu ignominiosa, anche nei secoli più civili.
Ma tra noi già da lunghissimo tempo l’educazione non si degna di pensare al
corpo, cosa troppo bassa e abbietta: pensa allo spirito; e appunto volendo
coltivare lo spirito, rovina il corpo, senza avvedersi, che rovinando questo,
rovina a vicenda anche lo spirito”
[1].




L’autrice, nella Prefazione, cita lo Zarathustra di Nietzsche: “Io sono tutto corpo e nulla al di fuori di questo”. Platone viene più volte confutato dal filosofo naturalizzato francese: Eros non è figlio di Poros e Penia, non nasce dalla mancanza, incarnata dalla madre, e non è fusione di due esseri, ma è la presenza di due persone distinte. Nell’eros è la dualità che diviene la gioia stessa.  “Versus Platone, Levinas insiste nel sottolineare come nell’amore non si dia l’unione tra due esseri…ma che ci siano due esseri, due soggetti incarnati, la cui dualità è costitutivamente insuperabile”. Il numero stesso, scrive Levinas “è sempre una riflessione almeno sul due”.

La fusione  confutata da Levinas  viene considerata quintessenza dell’amore   da Dostoevski:"questo amore mi tortura, mi tortura!...Prima, mi facevano languire soltanto le flessuosità del suo corpo
infernale, ma adesso 
tutta la sua anima l'ho trasfusa nella mia, e grazie a lei
anch'io sono diventato un uomo!"
[2],
dice Dimitri Karamazov di Gruscenka.




 Riguardo a quanto si vede della persona umana,
l’accento cade sul volto: “Il volto non è in effetti un insieme di elementi
anatomici: occhi, naso, bocca etc.-ma la possibilità del denudamento totale-la
forma che si smaschera”. Già nella Parodo dell’Edipo re di Sofocle, il Coro chiede ad Atena: “manda un rimedio dal
bel volto (v. 189). La polis è
travagliata da peste, fame e dalla guerra, come l’Europa nel tempo della
prigionia di Levinas.




La
colpa che consegue al dono della libertà è un altro concetto che si trova nei
quaderni del filosofo ed riconducibile alla tragedia greca: il Prometeo di
Eschilo si gloria di avere trasgredito l’ordine con la sua hybris santa che ha beneficato gli uomini:"io sapevo tutto questo:/di mia volontà, di
mia volontà ho compiuto la trasgressione, non lo negherò / aiutando i mortali
ho trovato io stesso le pene "(265-267). Nietzsche parla di dignità
conferita al delitto. E’ la felix culpa
focalizzata dalla Nodari. Infine il filosofo coglie l’essenza del giudaismo nel
“paradossale rovesciamento della sofferenza suprema in felicità”. I prigionieri
di guerra come Levinas, diversamente dagli ebrei sterminati nei lager nazisti,
sono in buona parte scampati alla morte e hanno potuto riflettere sul loro
dolore, al pari di Isacco che ha camminato per tre giorni verso il luogo del
proprio sacrificio. “E’ grazie a tale dilazione di rotta che la prova è
feconda”, Così Levinas e altri prigionieri di guerra ebrei hanno avuto il tempo
di chinarsi sulla loro disgrazia e di interrogarsi. E nella loro pena hanno
riconosciuto il dolore di tutto il mondo. Dopo Giobbe, il giudaismo sa scoprire
nei patimenti  stessi i segni
dell’elezione. Eschilo nell’Agamennone
ha scritto: “attraverso la sofferenza, la comprensione (177). Levinas ha
trovato possibile questo capovolgimento del dolore nella felicità. “Tutto il
cristianesimo è già contenuto in questa scoperta”.   




    










[1]
G. Leopardi, Operette morali, Dialogo di
Tristano e di un amico
.






[2]F.
Dostoevskij, I fratelli Karamazov  (del 1880), p. 709.



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