NUOVE DATE alla Biblioteca «Ginzburg»: Protagonisti della storia antica

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giovedì 8 marzo 2012

Lo sviluppo e la civiltà  antiumana - di Giovanni Ghiselli



Al presidente della
Repubblica sta a cuore “garantire lo sviluppo” e, ossimorica-mente, eliminare
la violenza. Credo che sia invece necessario opporsi al feroce Leviatano dello
sviluppo industriale che violenta la natura, reagire alla fede maligna nella crescita
ipertrofica, tumorale dei consumi, contrastare l’imperialismo guerrafondaio e
nemico dell’uomo.









A questi mali dobbiamo
contrapporrre l’intelligenza e la volontà del progresso, ossia di una crescita
in termini morali e umani, mettendo davanti a ogni altra cosa la felicità di
tutti gli uomini. Infatti gli interessi dei banchieri, dei finanzieri, delle
multinazionali non coincidono con quelli  degli uomini umani.


I poveri dell’Africa,
dell’Asia e ora anche dell’Europa e della nostra Italia, forse la parte
migliore, certo la maggiore dell’umanità.


 Posso fornire molte testimonianze nobili,
antiche e moderne, a sostegno di questo mio credo.


Partiamo dalle moderne, da
quella assai nota di Pasolini che ha pagato con la propria vita le denunce
rivolte alle mafie del potere.


" E' in corso
nel nostro paese…una sostituzione di valori e di modelli, sulla quale hanno
avuto grande peso i mezzi di comunicazione di massa e in primo luogo la
televisione. Con questo non sostengo affatto che tali mezzi siano in sé negativi:
sono anzi d'accordo che potrebbero costituire un grande strumento di progresso
culturale; ma finora sono stati, così come li hanno usati, un mezzo di
spaventoso regresso, di sviluppo appunto senza progresso, di genocidio
culturale per due terzi almeno degli italiani"[1].


Questa nostra
epoca di regresso culturale e di odio diffuso tra gli uomini, ricorda l’età del
ferro di Esiodo, l’era della compiuta peccaminosità, quando nel mondo regnava
la violenza.


“Abbiamo
bisogno di un concetto più ricco e complesso dello sviluppo, che sia nello
stesso tempo materiale, intellettuale, affettivo, morale…Il XX secolo non è
uscito dall’età del ferro planetaria, vi è sprofondato”
[2].


Durante
l’età del ferro non c’era niente di buono e bello: nemmeno la giovinezza: i
bambini nascevano con le tempie bianche, e, appena potevano, picchiavano i
genitori. “Essi disprezzeranno i genitori, appena cominceranno a
invecchiare..,usando il diritto del più forte”
[3].  


“L’umanesimo non dovrebbe più essere portavoce
dell’orgogliosa volontà di dominare l’Universo. Diviene essenzialmente quello
della solidarietà fra umani”
[4]. Umanesimo è, infatti,
amore per l’umanità.


Il Galileo di Brecht, nell'ultima scena del
dramma, afferma il dovere morale di rendere il sapere funzionale al bene
dell'umanità:"Che scopo si prefigge il nostro lavoro? Non credo che la
scienza possa proporsi altro scopo che quello di alleviare le fatiche
dell'esistenza umana. Se gli uomini di scienza non reagiscono all'intimidazione
dei potenti egoisti e si limitano ad accumulare sapere per sapere, la scienza
può rimanere fiaccata per sempre, ed ogni nuova macchina non sarà fonte che di
nuovi triboli per l'uomo".


Ma torniamo alle fonti della nostra cultura
e della nostra civiltà.


Il quinto canto dell’Odissea è quello della zattera di Ulisse ( jOdussevw~ scediva). 
L’eroe omerico, l’eroe della curiosità e della conoscenza, costruisce
con le proprie mani, e i pochi attrezzi fornitigli da Calipso, una larga
zattera con tanto di timone e vela: “e lui fabbricò bene anche quella” (v. 259).


I versi di Omero indugiano nella
descrizione degli strumenti e dell’uso che sanno farne le abili mani
dell’Itacese. Gli oggetti sono maneggiati con perizia per tre giorni, fino al
compimento dell’opera.  


Tolstoj “notò che, nei poemi omerici, perfino la
minuta descrizione di un vaso di bronzo o di un particolare tipo di zattera
irradia una vitalità che non ha eguali nella letteratura moderna…Hegel si chiedeva se il modo di produzione
semi-industriale e industriale non avesse reso gli uomini estranei agli
attrezzi, agli strumenti e alle altre suppellettili della loro vita. E'
un'ipotesi molto acuta, su cui insiste Lukács. Ma quale che sia la ragione
storica, Tolstoj torna a misurare la realtà esterna con una sorta di immediata
consanguineità. Nel suo mondo, come in quello di Omero, i berretti degli uomini
devono il loro senso, e la loro inclusione in un'opera d'arte, al fatto di
ricoprire le teste dei medesimi"[5].


Leggiamo alcune parole dell'Estetica  di Hegel:" Ciò
di cui l'uomo ha bisogno per la vita esterna-casa e corte, una tenda, una
seggiola, un letto, la spada, la lancia, la nave su cui attraversa il mare, il
carro che lo porta in battaglia, il cuocere e arrostire i cibi, l'abbattere la
preda, il mangiare e bere-niente di tutto ciò deve essere divenuto per lui
soltanto uno strumento morto, ma egli vi si deve sentire vivo con tutta la sua
sensibilità, con tutto se stesso, e quindi deve dare a quel che è in sé esterno
un'impronta individuale animata umanamente, collegandolo strettamente con
l'individuo umano"[6].


E’ la cosa dunque deve avere l’impronta dell’uomo,  non viceversa.


Dopo la zattera, altro oggetto dell’Odissea fatto a mano, dalle mani di un
principe, è il letto. In alcune tragedie di Euripide il letto è il mobile più
importante della casa: Alcesti in punto di morte gli parla e lo bacia prima di
morire[7]. Nel poema di Virgilio, Didone, prima di uccidersi
preme le labbra sul letto che conserva l’impronta sua e quella di Enea[8].


Nell’Odissea
il letto, quello che Penelope chiama “il nostro letto”[9], è il segno certo di riconoscimento tra i due sposi,
dopo venti anni che non si vedevano.


“Il letto racchiude tutti gli aspetti dell’esistenza
di Ulisse: il rapporto religioso con Atena, perché egli l’ha lavorato
nell’ulivo: l’identità, l’ostinata irremovibilità del carattere: ricorda il
matrimonio con Penelope, la fecondità della moglie, la casa cresciutagli
intorno, il suo potere di re; fonda natura e cultura, le radici ancora vive e
l’opera delle sue mani artigiane. Il letto è il “grande segno” segreto, che
soltanto lui, Penelope e un’ancella conoscono. Forse è sfuggito persino agli
dèi mascherati che spiano le sue vicende. Ulisse aveva conosciuto un altro
centro: Ogigia, l’ombelico del mare, il centro del mondo mitico. Il letto di
ulivo è l’ombelico della realtà: lui aveva preferito una volta per sempre il
mondo reale, dove si soffre e si muore, a quello mitico dove non si soffre e
non si muore…Ora, mentre marito e moglie stanno finalmente per abbracciarsi, Ulisse
descrive con un piacere minuzioso come, più di vent’anni prima, aveva costruito
il letto. Anche qui, la tensione narrativa viene rallentata. Ulisse descrive,
in primo luogo a se stesso, l’oggetto fondamentale della sua vita-che teme
perduto per sempre. Mentre lo descrive, il furore si quieta. Con quale piacere
racconta il suo capolavoro di artigianato: come costruì la stanza da letto
attorno a un ulivo rigoglioso: la coprì con un tetto, vi appose una porta,
recise i rami dell’ulivo, sgrossò il tronco, lo piallò, lo fece diritto col
filo, traforò il legno col trapano, piallò il letto, lo placcò d’oro, d’argento
e d’avorio, vi tese le cinghie del bue…Con questo letto così amorosamente
lavorato, ha inizio la corona di oggetti privilegiati attorno ai quali si
svolge la cultura occidentale: la ciotola di Robinson, il profumo di
Baudelaire, le marmellate di Tolstoj, la madeleine
di Proust, la seggiola di van Gogh; oggetti stabili, “solidamente fissati nel
suolo”, ai quali abbiamo donato il nostro cuore. Appena Ulisse rivela il
“grande segno”, le ginocchia e il cuore di Penelope si sciolgono, come accade
nell’amore, nel sonno e nella morte. Il letto costruito nell’ulivo è il segno
sicuro, del quale può fidarsi”[10].


Allora il signore si rapportava  direttamente alla cosa, non ancora “in guisa
mediata, attraverso il servo”[11]. Il letto di Odisseo è suvmbolon,
segno di riconoscimento con-diviso da 
due sposi; oggi le cose freneticamente consumate, nella mente dei più
devono simboleggiare e significare ricchezza del consumatore, spesso devono
nascondere la povertà della quale il consumista si vergogna.  


Insomma, nell’Odissea
è la forma umana che si imprime sugli oggetti i quali vengono così umanizzati;
nella civiltà industriale, e postindustriale viceversa viene reificato e
mercificato l’uomo.  “La forma di merce è
la forma dominante che influisce in maniera decisiva su tutte le manifestazioni
della vita”, chiarisce György Lukács in Storia
e coscienza di classe
[12]. Tale  sviluppo
metastatico condannato dal filosofo ungherese piace invece molto ai “nostri”
politici, a partire dall’autorevole presidente della Repubblica.  Del resto non manca una certa coerenza: Lukács
fu ministro dell’istruzione nel governo di Imre Nagy che nel 1956, venne fatto
cadere dall’intervento sovietico approvato da Napolitano. Più tardi, caduto il
regime sovietico, il futuro presidente si scusò, ma intanto  Nagy e tanti altri ribelli repressi erano
stati soppressi, per lo più impiccati.


Adesso però torniamo agli antichi, ché è meglio.


Prometeo, il presunto benefattore tecnologico, è un
personaggio negativo in quasi tutti gli autori. Il biasimo dipende proprio dal
fatto che il Titano è un latore di sviluppo, lo sviluppo tanto caro al signor
Napolitano, di sviluppo dunque senza progresso.


Nel
Protagora di Platone, il sofista racconta che Prometeo donò all’umanità
il fuoco e ogni sapienza tecnica, ma non diede loro la sapienza politica.
Allora i mortali commettevano ingiustizie reciproche (
hjdivkoun
ajllhvlou"
) in quanto non possedevano l'arte politica (a{te oujk
e[conte" th;n politikh;n tevcnhn
, 322b). Senza questa, che deve essere fondata
sul rispetto e sulla giustizia, gli umani si disperdevano e perivano: quindi
Zeus, temendo l'annientamento della nostra specie, mandò Ermes a portare tra
gli uomini rispetto e giustizia affinché questi valori costituissero gli ordini
delle città: "
JErmh'n pevmpei a[gonta eij" ajnqrwvpou" aijdw' te kai;
divkhn, i{n ei\en povlewn kovsmoi
" (322c). Chi non li avesse accettati,
doveva essere ucciso come malattia della polis
(322d).


Il personaggio Socrate, nel Gorgia  di Platone, afferma che Pericle e prima di lui
Temistocle e Cimone, non hanno reso grande la città, come si dice, in quanto essa è diventata piuttosto  gonfia
e purulenta (oijdei`
kai; u{poulo~ ejstin
, 518e) poiché l’
hanno riempito di porti, di arsenali, di mura, 
di contributi e di altre sciocchezze del genere, senza preoccuparsi  dell’equilibrio e della giustizia" (a[neu ga;r swfrosuvnh~ kai;
dikaiosuvnh~,
519a).


Quando il bubbone esploderà,
gli Ateniesi se la prenderanno con gli ultimi politici, come  Alcibiade o lo stesso Callicle, i quali non
sono responsabili dei mali, ma semmai corresponsabili (519b).


Sarebbe stato Pericle infatti
a rendere gli Ateniesi pigri (ajrgouv~),  vili (deilouv~)  ciarlieri (lavlou~),
amanti del denaro (filarguvrou~), avendo introdotto la misqoforiva
(515e)[13].





Il capo della povli~ insomma dovrebbe prendersi cura non solo
del benessere materiale ma anche e soprattutto di quello morale e mentale dei
governati.





Nel
Politico, Platone fa dire allo
straniero di Elea che l’arte politica  consiste nell’ avere cura dell’intera comunità
umana (
ejpimevleia
dev ge ajnqrwpivnh~ sumpavsh~ koinwniva~,
276b). Il guidare gli uomini come fanno i
pastori con gli animali, dobbiamo invece chiamarla
qreptikh;n  tevcnhn, tecnica dell’allevamento, non basilikh;n kai;
politikhvn tevcnhn
(276c), non arte regia e arte politica. Infatti il re e l’uomo
politico è quello che si prende cura (
ejpimevleian
di uomini bipedi che liberamente l’accettano (
eJkousivwn dipovdwn, 276d ).


 Questa idea  di humanitas
  è stata e sarà ripresa nei secoli dei
secoli, perfino da alcuni capi di Stato.


Marco
Aurelio, imperatore (161-180 d. C.)  e
filosofo, scrive: “noi siamo nati per darci aiuto reciproco (
pro;" sunergivan), come i piedi, le
mani, le palpebre, come le due file dei denti. Dunque l'agire  uno a danno dell'altro è cosa contro natura (
to; ou\n
ajntipravssein ajllhvloi" para; fuvsin
)[14].


Chi
agisce contro il prossimo, chi uccide, danneggia, umilia, calunnia gli uomini,
opera contro natura.


Napolitano
di recente ha approvato i bombardamenti inflitti al popolo libico. Questo forse
per lui era sviluppo e non era violenza.


Sarebbe
invece violenza quella dei Valsusini che si oppongono allo sconcio
squarciamento della loro valle. Comunque il “nostro” presidente ha dato un’altra
prova di coerenza: quella di stare sempre dalla parte del più forte, dato che,
come nell’età del ferro, oggi vige il diritto del più forte. Non in mio nome.


In Devotions upon Emergent Occasion di  John Donne[15] 
leggiamo:" Nessun uomo è
un'isola conclusa in sé; ogni uomo è una parte del Continente, una parte del
tutto. Se il mare spazza via una zolla, l'Europa ne è diminuita, come ne fosse
stato spazzato via un promontorio..la morte di qualsiasi uomo mi diminuisce,
perché io appartengo all'umanità, e quindi non mandare mai a chiedere per chi
suona la campana (for whom the bell tolls
[16] ); suona per te”. Questo dovremmo pensare
tutti, quando si progettano e propugnano bombardamenti, quando gli
automobilisti ammazzano pedoni e ciclisti gratis, cioè senza pagarne il fio,  poiché le automobili devono essere vendute ed
è più facile venderle, se chi le guida ha licenza di uccidere. Tanti mentecatti
e criminali impotenti si sentono potenti quando ammazzano pedoni e ciclisti.


Chiudo l’anello
tornando a Pasolini il quale si chiede
“Chi vuole lo sviluppo?”[17].  La risposta è
che “a volere lo “sviluppo” in tal senso è chi produce; sono cioè gli
industriali. E, poiché lo “sviluppo”, in Italia, è questo sviluppo, sono per l’esattezza, nella fattispecie, gli
industriali che producono beni superflui…I consumatori di beni superflui, sono
da parte loro, irrazionalmente e inconsapevolmente d’accordo nel volere lo
“sviluppo” (questo “sviluppo”). Per
essi significa promozione sociale…Chi vuole, invece, il “progresso”?...lo vogliono
gli operai, i contadini, gli intellettuali di sinistra. Lo vuole chi lavora e
chi è dunque sfruttato…Il “progresso” è dunque una nozione ideale (sociale e
politica) : là dove lo “sviluppo” è un fatto pragmatico ed economico” [18].  L’economia
adesso regna sovrana e chi la controlla è il burattinaio della pupazzata
pseudopolitica, ma  “per quanto parli di economia, il nostro tempo è un
dissipatore: sperpera la cosa più preziosa, lo spirito”[19].


Provate a leggere qualche
libro, qualche volta, signori pupazzi della 
grande baracca televisiva!





Giovanni ghiselli
g.ghiselli@tin.it














[1]
Scritti corsari, p. 286.




[2]
E. Morin, I sette saperi, p. 70.




[3]
Opere e giorni, v. 185 e v. 189.




[4]
E. Morin, La testa ben fatta, p. 101.




[5]G.
Steiner, Tolstoj o Dostoevskij , p.
56.




[6]
Hegel, Estetica, pp. 1392- 1393




[7]
Euripide, Alcesti, vv. 177-183).




[8]
Virgilio, Eneide, IV, 659.




[9]
Odissea, XXIII, 226.




[10]
P. Citati, La mente colorata, p. 272.




[11]
In questo caso cito Hegel  (dalla
Fenomenologia dello spirito) in maniera mediata, attraverso Remo Bodei  in Hegel e la dialettica, p. 47.




[12]
P.. 109.




[13]
Si tratta di una modesta retribuzione delle cariche introdotta verso il 457:
due oboli al giorno (la paga di un operaio) per gli eliasti (hJliastikovn), e 5 oboli per i buleuti (misqov~). Un
compenso da burla rispetto a quelli che ricevono palesemente e sottobanco gran
parte dei nostri parlamentari.







[14]
Ricordi , II, 1




[15]
1572-1631




[16]
E', notoriamente, il titolo di un romanzo di 
Hemingway, 1940




[17]
Scritti corsari, p. 219




[18]
Scritti corsari, p. 220




[19]
Nietzsche, Aurora, p. 130.



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