martedì 28 luglio 2020

Debrecen 1976. 6. Una mattina d’inverno a Venezia. Morte e resurrezione. Il tramonto a Venezia


Una mattina d’inverno a Venezia. Morte e resurrezione. Il tramonto a Venezia

 
Nel 1978 tornai in Grecia, da solo. Pedalavo dalla mattina alla sera e pensavo, illuminato dal sole. Ho già raccontato una parte di quell’antico, eroico pellegrinaggio. Pregavo gli dèi che mi ascoltarono e premiarono con Ifigenia, in novembre. Ma poi la giovane e bella collega, la borsa di studio meritata con tanta fatica mentale e fisica, si ritolse la sua promessa di una vita artistica da vivere insieme.
Allora mi diedi a scrivere per mantenere almeno i propositi miei.
Ora voglio raccontare una giornata dicembrina a Venezia. Ero arrivato al 1981: era già iniziato il tempo dell’egoismo, del reaganismo-thatcherismo- craxismo della “Milano da bere”, prologo adeguato a quella attuale di Fontana e del virus.

Era il 10 dicembre del 1981. Avevo portato una classe, la mia quinta ginnasio del liceo Rambaldi di Imola dove ero stato confinato, a vedere una mostra dei Manieristi. All’ora di pranzo avevo lasciato i ragazzini banchettare da soli, desideroso, a mia volta, di solitudine e pure di astenermi dal cibo in pro della salute e della linea.

Verso le due salii sul ponte di Rialto rischiarato da un sole fioco come un lampione. Mi fermai e scrissi su un quaderno: “La redenzione dalla sofferenza è cercare. La vita senza ricerca non era vivibile per Socrate e non lo è neppure per me[1].
In questa città “regale e pitocca”[2] vedo fiumi di uomini e donne che si ingorgano nelle calli e nei vicoli dove il sole non entra. Gente che fluisce a stento senza parlare, rappresa dal freddo dell’indifferenza ancora più che dal tetro gelo invernale. Qui, sul ponte famoso, i turisti, come nella puszta assetata, fanno fotografie, sorridono mostrando i denti, si lanciano inviti al ghigno obbligatorio e scattano a ripetizione”.
Preludio al telefonino di adesso. Ma torniamo a quel giorno.
“Vorrei guardare negli occhi suoi con i miei, una donna che mi piaccia, cui piaccia e parlarle dicendo parole buone e intelligenti e ascoltare il Verbo di lei, poi fare l’amore in un luogo molto ben riscaldato.
Siccome ora non posso, scrivo per quanti vivranno nel tempo del logos e del pathos risorti. Non c’è cosa più amara della gente muta e chiassosa, priva di idee e sentimenti profondi o per lo meno incapace di esprimerli. Ricavo più forza e più vita da questa larva di sole che già si piega sui tetti con membra deboli quanto quelle di un vecchio che cade nel letto della morte vicina.
La mente dell’universo, l’immagine visibile di Dio, mi perdoni per questa bestemmia. Faccio ammenda ricordando che tra pochissimi giorni, nel dies natalis Solis invicti,  risorgerà. Alle due e venti minuti si è appoggiato sopra un camino e ancora dipinge di rosa le pietre bianche di questo ponte, ma la sponda occidentale del grande canale erutta una cupa e umida nebbia nell’ombra della sera precoce. Potrei scoraggiarmi per questa carenza del caldo nutrimento solare, invece attendo con fede la resurrezione dei raggi benefici intrecciati di fiamme possenti come fruste tese a sferzare i sassi della città, le menti in letargo e i sensi assopiti degli uomini . Con Elio risuscitato aspetto una giovane donna che renda fervido il mio sangue pulsato a danzare la festa del mondo che rinasce alla vita”.


Nella mostra dei Manieristi avevo notato figure contorte sotto cieli neri di nuvole squarciate da lampi di luce minacciosa.
Osservavo Venezia nell’ora del tramonto precoce: la città era, come me, sempre più rattristata dal freddo e dal buio. Per ristorarmi con un poco di calore entrai in una bettola e bevvi un bicchiere di vino bianco, quindi ripensai agli aspetti lieti della mia vita mortale: le donne amate e amanti, gli uomini amici, la natura calda e luminosa da marzo a ottobre, i grandi maestri classici che conferiscono augmentum , accrescimento all’identità raffinandola tuttavia, non ingrossandola,  poi le estati a Debrecen, i monti dell’Italia e dell’Ellade scalati con la bicicletta, non senza forza né senza gioia. Benedissi i numi, gli angeli e i santi tutti per tanta grazia di Dio.
Quindi uscii dall’osteria. Nell’ultima ora del pomeriggio invernale osservavo le femmine umane infreddolite e frettolose ma sempre capaci di contraccambiare simpatia a chi sa guardarle con desiderio grande e pure rispettoso.

 Tra una donna e l’altra, contemplavo il sole esausto del volo mentre con la luce estrema imporporava il cielo e le ali degli uccelli grigi che si libravano sopra le cupole verdi già in buona parte sommerse dall’inesorabile bruma dicembrina. Sorridevo al sole morente, alle donne belle e fini, prefigurandomi la resurrezione della stagione piena di gioie. E la mia.

giovanni ghiselli . Pesaro 28 luglio 2020, ore 10,35.
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[1] Cfr. Platone, Apologia di Socrate, 38a
[2] Cfr. T. Mann., La morte a Venezia, Mondadori, 1988, p. 39.

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