martedì 14 luglio 2020

L'uomo privo di bisogni spirituali, l'eterno filisteo

L'esecuzione di Luigi XVI in Place de la rivoluzione del 21 gennaio 1793
collezione Musée Carnavalet, Paris

Oggi è il 14 luglio. Non mi sento di festeggiare la rivoluzione francese con il trionfo della borghesia che ha sguinzagliato il proletariato contro l’aristocrazia oramai priva di funzione storica, poi l'ha incatenato con ferri più stretti e duri di quelli dai quali lo aveva momentaneamente liberato.

Ai versi 130 - 131 dell’Edipo re di Sofocle, Creonte dice: "La Sfinge dal canto variopinto ci spingeva a guardare/quello che era lì tra i piedi, e a lasciare perdere quanto non si vedeva (tajfanh')". Se identifichiamo quest'ultima parola con i fatti dello spirito, o con le idee di Platone, non visibili attraverso i soli occhi del corpo, soprattutto quando sono rivolti in basso, e "quello che era lì tra i piedi", ossia "to; pro;" posi;", con gli oggetti terreni e materiali, ecco che il canto della ragazza alata (v.508) significa un invito a nozze per l'eterno filisteo, per "l'uomo privo di ogni bisogno spirituale", o " a{mouso" ajnhvr" che dire si voglia.

Queste definizioni si trovano nei Parerga e Paralipomena di A. Schopenhauer (pp.462 - 465 del primo tomo). Il filosofo tedesco afferma che tale individuo non sente alcun impulso alla conoscenza e non è capace di godimenti estetici; egli si sobbarca ai presunti piaceri imposti dalla moda e dall'autorità: "di conseguenza le ostriche e lo champagne sono il punto culminante della sua esistenza, e lo scopo della sua vita consiste nel procurarsi tutto ciò che contribuisce al suo benessere materiale" (p. 463).
Del resto la carenza di desideri spirituali rende impossibili i godimenti elevati. “propria e caratteristica del filisteo, è dunque una serietà ottusa e arida, prossima alla serietà animalesca”.
Per esempio quella di un bove. Non posso a questo punto dimenticare il Minotauro di Ovidio nel celebre pentametro dell' Ars amatoria (II,24): "semibovemque virum semivirumque bovem ". Le capacità spirituali suscitano la sua avversione e il suo odio, poiché di fronte ad esse il "semibove" prova un pesante sentimento di inferiorità, una sorda e segreta invidia. “La sua deferenza rimarrà esclusivamente riservata alla posizione e alla ricchezza, alla potenza e alle influenze che costituiscono ai suoi occhi gli unici veri preg, in cui sarebbe suo desiderio eccellere” (Parerga e Paralipomena, p. 464)
“La grande sofferenza di tutti i filistei sta nel fatto che le idealità non forniscono loro alcun passatempo e che per sfuggire alla noia essi hanno sempre bisogno di realtà” (p. 465). Questo ci dice Schopenhauer.

Rimanendo ancora tra gli autori tedeschi, possiamo attingere qualche cosa da Hermann Hesse il quale in Il lupo della steppa rappresenta un personaggio autoemarginato dal mondo borghese, un "sordido anacoreta", che per incapacità di accettare l'ordine filisteo aveva coltivato "una capacità di soffrire illimitata, geniale, spaventevole"(p.64).
 Il borghese è identificato con l'uomo che non tollera l'assoluto, si insedia nel mezzo tra gli estremi, e rinuncia a quella intensità di vita e di sentimenti offerta da un'esistenza rivolta all'eterno.
 Egli ottiene conservazione e sicurezza a spese della significazione, e raccoglie tranquillità invece che ossessione divina, agio piuttosto che piacere, comodità al posto della libertà, e temperatura gradevole invece che ardore mortale. E' una creatura "di debole slancio vitale, paurosa, desiderosa di evitare rinunce, facile da governare"(Dissertazione, XVI, XVII). Tutto sommato nel romanziere l'anatema è meno forte che nel filosofo.
Ad un accordo con il mondo borghese tende e arriva Thomas Mann. Egli vede già in Goethe lo scrittore e l'esponente geniale dell'età borghese, per il suo stile razionale e alieno da ogni superfetazione poetica.
Nei romanzi dell'autore di La morte a Venezia , i personaggi che rifiutano il mondo borghese, dicono no alla vita stessa; così Hanno di I Buddenbrook che muore quindicenne quasi senza essere malato (il tifo non uccide se chi l'ha contratto non"rabbrividisce di paura e ripugnanza per la voce della vita che lo chiama", p.481); così pure il suicida Naphta di La Montagna incantata, il mezzo gesuita "di una bruttezza così marcata, vorremmo quasi dire corrosiva, che i due cugini ne rimasero addirittura sbalorditi"(p.35 II vol.). Ebbene, Naphta definisce il progresso"puro nichilismo" ed il borghese liberale"l'uomo del nulla e del diavolo. Anzi, uno che nega Dio e l'Assoluto, per darsi in braccio al diabolico antiassoluto"(p. 201,II vol.).
Chi sopravvive, e produce è Tonio Kröger , il borghese che, dapprima sviatosi nell'arte, alla fine del romanzo rinsavisce e accetta la componente, non artistica, non demoniaca, ereditata dal padre, poiché dice: "se qualcosa è realmente in grado di fare di un letterato un poeta, è appunto questo mio borghese amore per l'umano e il vivo e l'ordinario. Ogni colore, ogni bontà, ogni sorriso, proviene da esso; e quasi mi sembra che sia quel medesimo amore del quale è scritto che chi ne fosse privo, anche se sapesse parlare tutte le lingue degli uomini e degli angeli, altro non sarebbe che un rame risonante e un tintinnante cembalo"(p.285).

Nelle ultime parole è citato, come si sa, un periodo della prima Lettera ai Corinzi di Paolo (13):  jEa;n tai'" glwvssai" tw'n ajnqrwvpwn lalw' kai; tw'n ajggevlwn, ajgavphn de; mh; e[cw, gevgona calko;" hjcw'n h] kuvmbalon ajlalavzon.

 Da Paolo l'apostolo, possiamo tornare al mondo greco - latino. Siamo partiti da Sofocle il quale già, almeno secondo G. Quadri (I tragici greci e l'estetica della giustizia, p. 128), interpreta la vita come lotta di liberazione dell'anima contro un elemento avverso, come luvsi" th'" yuch'". Però la dicotomia sistematica anima/corpo, o se vogliamo idealisti/materialisti, o filistei o borghesi che dire si voglia, se consideriamo la saggezza silenica e la filosofia eleatica quali "umbriferi prefazi", la collochiamo in quel precristianesimo per filosofi che fu il platonismo. Avviciniamoci dunque al più grande discepolo di Socrate.
Platone Sofista (246) segnala una gigantomaciva (...) peri; th'" oujsiva", una battaglia di giganti sull'essere. I due eserciti sono schierati così:"OiJ me;n eij" gh'n ejx oujranou' kai; tou' ajoravtou pavnta e{lkousi tai'" cersi;n ajtecnw'" pevtra" kai; dru'" perilambavnonte". Tw'n ga;r toiouvtwn ejfaptovmenoi pavntwn diiscurivzontai tou'to ei\nai movnon o;;;;;{ parevcei prosbolh;n kai; ejpafh;n tina, taujto;n sw'ma kai; oujsivan oJrizovmenoi, tw'n de; a[llwn ei[ tiv" ti fhvsei mh; sw'ma e[con ei\nai, katafronou'nte" to; paravpan kai; oujde;n ejqevlonte" a[llo ajkouvein", gli uni dal cielo e dall'invisibile trascinano a terra tutto, acchiappando con le mani proprio come se fossero rocce o querce. E infatti attaccandosi a tutte le cose siffatte affermano che soltanto è, ciò che offre un contatto e una presa manuale, e stabiliscono che l'essere e il corpo sono la stessa cosa, e se qualcuno degli altri dirà che c'è qualche cosa senza corpo, lo disprezzano completamente e non vogliono ascoltare nient'altro.
E gli avversari, chi sono? "oiJ pro;" aujtou;" ajmfisbhtou'nte" mavla eujlabw'" a[nwqen ejx ajoravtou poqe;n ajmuvnontai, nohta; a[tta kai; ajswvmata ei[dh biazovmenoi th;n ajlhqinh;n oujsivan ei\nai", quelli che nel dibattito si oppongono loro, molto cautamente si difendono attaccandosi a regioni superiori e all'invisibile e sostenendo con convinzione che il vero essere consiste in alcune forme pensabili e immagini incorporee.
Da queste definizioni si vede che i secondi sono più miti ("hJmerwvteroi"). I primi furono seminati nella terra e dalla terra sono sorti ("spartoiv te kai; aujtocqovne"", 247), gli altri sono amici delle forme"tou;" tw'n eijdw'n fivlou"", 248).
Chi sono questi non miti giganti del materialismo? Secondo A. E. Taylor (Platone, p.597) il filosofo non allude agli atomisti ma al "crasso, ottuso materialismo dell'uomo medio".
 Noi potremmo aggiungere che il termine spartoiv contiene un riferimento, certo non casuale, al mito di Cadmo e, vogliamo credere, alle mostruosità dei Labdacidi empi. E i partigiani delle forme? Essi non sarebbero i socratici (del resto tra loro ci sono grandi differenziazioni) poiché il maestro nel Fedone e nella Repubblica indica una partecipazione delle idee alle cose sensibili che pertanto hanno una realtà, sia pure parziale e secondaria. Saranno invece i dualisti estremi che considerano essere e divenire come scissi. Dovrebbe avere ragione Proclo, conclude Taylor, quando afferma che si tratta di certi sapienti pitagorici d'Italia. Sugli amici delle forme non aggiungiamo altro, del resto non sono loro l'oggetto di questa modestissima indagine; invece tra i materialisti vogliamo inserire, forse non del tutto arbitrariamente, l'eterno tiranno, a cominciare dal nostro Edipo nella fase dell'errore, per proseguire con il monarca raffigurato da Otane nella Storia di Erodoto (III,80) come colui che"novmaiav te kinevei pavtria kai; bia'tai gunai'ka" kteivnei te ajkrivtou"", sovverte le patrie usanze, violenta le donne e manda a morte senza giudizio, quindi passare al turanniko;" ajnh;r della Repubblica platonica (573c). Costui è per natura, o diventa per le abitudini,"mequstikov"..ejrwtikov"..melagcolikov"", incline al bere, al sesso, alla depressione; è di animo sostanzialmente servile"oJ tw'/ o[nti tuvranno" tw/' o[nti dou'lo""(579e).
Questa considerazione che sembra paradossale, magari dettata a Platone da un risentimento personale nei confronti dei despoti incontrati, è confermata da uno psicoanalista moderno: E. Fromm in Fuga dalla libertà (p.144) sostiene che" l'impotenza dà luogo all'impulso sadico a dominare; nella misura in cui l'individuo è capace, cioè in grado di realizzare le sue possibilità sulla base della libertà e dell'integrità del suo io, non ha bisogno di dominare e non prova alcuna brama di potere".
Platone giudica il tiranno anche " ejpiqumhtikov"", "appetitivo", dia; sfdrovthta tw'n te peri; th;n ejdwdh;n ejpiqumiw'n kai; povsin kai; ajfrodivsia kai; oJvsa a[lla touvtoi" ajkovlouqa, kai; filocrhvmaton dh;, o{ti dia; crhmavtwn mavlista ajpotelou'ntai aiJ toiau'tai ejpiqumivai", per la vemenza degli appetiti di cibo, bevande e sesso, e quante altre brame si accompagnano a queste, e (lo chiamiamo anche) amico delle ricchezze poiché soprattutto con le ricchezze si soddisfano tali appetiti(Repubblica , 580c).
Non poteva non unirsi a questa condanna la storiografia moralistica. Facciamo un solo esempio: quello di Sallustio. Nel secondo capitolo della monografia su Catilina, lo scrittore cesariano dà il suo contributo all'anatema dell'"eterno filisteo", una categoria dello spirito, o, se si preferisce dell'antispirito, al pari dell'Eterno marito che, a detta di Dostoevkij, "non può fare a meno delle corna, come il sole non può fare a meno di splendere"(p.357).
Scrive dunque Sallustio:" Omnis homines, qui sese student praestare ceteris animalibus, summa ope niti decet, ne vitam silentio transeant veluti pecora, quae natura prona atque ventri oboedientia finxit ” (Bellum Catilinae, 1), a tutti gli uomini che desiderano stare sopra agli altri esseri viventi, si addice sforzarsi al massimo per non passare la vita senza rinomanza come i bruti che la natura foggiò rivolti a terra e schiavi del ventre
 Quae homines arant, navigant, aedificant, virtuti omnia parent. Sed multi mortales, dediti ventri atque somno, indocti incultique vitam sicuti peregrinantes transiere; quibus profecto contra naturam corpus voluptati, anima oneri fuit. Eorum ego vitam mortemque iuxta aestumo, quoniam de utraque siletur " (B. C. 2). Quello che gli uomini fanno, arando, navigando, costruendo, dipende tutto dall' intelligenza. Ma molti mortali, dediti al ventre e al sonno, passano la vita, come viandanti, ignoranti e rozzi; a loro certamente, contro natura, il corpo serve per il piacere, l'anima è di peso. La vita di costoro giudico pari alla morte, poiché dell'una e dell'altra si tace. Così non sia della nostra.

 Un locus particolarmente provocatorio nei confronti dell'attualità può essere l’esecrazione del denaro e degli uomini avidi di denaro.
L’ uomo privo di bisogni spirituali" può essere raffigurato dal pullus ad margaritam di Fedro, la bestia "potior cui multo est cibus" o i porci del Vangelo ai quali non bisogna gettare le perle " neque mittatis margaritas vestras ante porcosne forte colcuncent eas pedibus suis et conversi dirumpant vos "[1], perché non accada che le calpestino con i piedi e rivolti contro di voi non vi sbranino.



[1] Matteo, 7, 6. Questo accostamento me lo ha suggerito il collega Giovanni Polara al convegno di Lamezia Terme (2004).

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