venerdì 16 novembre 2018

Debrecen. Capitolo 2

Graz sotto la pioggia
by Abigail Faffelberger

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Sceso dai monti, a un tratto, sulla sinistra, vidi una luce.
Per un momento credetti e sperai che fosse il sole sbucato di nuovo dalle nuvole occidentali. Invece era un lampione giallognolo, acceso contro il buio precoce. Saranno state sì e no le sette: in quel tempo la provvida ora legale non c’era. Certamente dal sole, che ho sempre adorato come l’immagine visibile della mente divina e del Bene, avrei tratto maggiore conforto. Quel fioco bagliore non era un segno del tutto propizio. Nemmeno sinistramente ominoso però. Era una luce triste, ma pur sempre una luce.
“Avanti - mi dissi - avanti, ché ce la puoi fare. Non volgere il tuo corso contro il destino! Procedi con lui! Devi comprenderlo e assecondarlo! Nulla ti accadrà che non sia in armonia con la natura dell’universo!”.
Verso le otto arrivai a Graz sotto un’acquazzone violento e il cielo più buio che mai.
Le lampade elettriche illuminavano l’asfalto bagnato della circonvallazione dove scura dai campi colava la terra disciolta e trascinata dalla forza dell’acqua che s’intorbidava fangosa e scivolosa. In una curva sbandai e quasi finìi fuori strada.
“Tutta la vita così”, pensai mentre assumevo un’espressione tragica. La tragedia greca mi è sempre piaciuta assai. Mi ci immergevo, ne traevo modelli e contromodelli.
 “Sarà dura arrivare alla fine, quando dirò ‘non doveva finire così’”.
Giocavo anche un poco con la sfortuna e con il dolore.
Ero di nuovo stanco e scoraggiato. Ricorsi al modello epico e mi sovvenne Achille che incalzato dallo Scamandro deplorava di finire annegato come un bambino porcaio travolto da un torrente in piena[1]. Poi invece se l’era cavata.
Volevo trovare una camera dove passare la notte già cominciata.
Immerso nel buio e nella solitudine profonda, guardavo le case lungo la strada, ma l’oscurità e la grande miopia mal corretta dagli occhiali appannati mi rendevano difficile la ricerca dell’asilo notturno.

Finalmente potei scorgere un cartello con la scritta Zimmer frei attaccato alla porta di una casa a tre piani.
Mi fermai, scesi dalla Seicento, suonai. Una finestra del secondo piano si schiuse: ne sbucò una testa bianca che richiuse subito i vetri senza dire parola. Aspettai un poco con la voglia di cercare più avanti, ma l’anziana venne ad aprire quasi subito. “Zimmer frei?” chiesi. Quella disse solo: “Passport” e tese la mano. Glielo diedi. La vecchia lo prese e guardò la fotografia confrontandola, sospettosa, con la mia faccia. Poi disse “Einen moment, bitte!”. Quindi si mosse verso una piccola porta situata a metà del corridoio quasi buio che dall’ingresso menava a una scala. Aprì quell’uscio, disse qualcosa a qualcuno, e tornò. Camminava piuttosto in fretta per la sua età. Subito dopo, dall’andito scuro arrivò un’altra donna anziana, somigliante alla prima, meno arcigna nel volto però. Al punto che mi sorrise. Me ne rincuorai. Parlarono un poco tra loro, mentre guardandomi di sbieco mi esaminavano. Infine si resero conto che non avevo intenzioni cattive. “Forse hanno capito che non sono un epigono di Raskol’nikov”[2], pensai.
Gli autori, i miei auctores mi aiutavano sempre: mi fornivano parole per i pensieri.
La meno aspra mi diede due chiavi: una della porta esterna che mi fece aprire e chiudere diverse volte per la paura tipica dei vecchi di non avere la casa serrata bene, l’altra della mia stanza, che mi indicò con un dito, al piano di sopra.
La più diffidente e dura, non condividendo, forse, l’atto, ritenuto affrettato della sorella, si mise ad agitare entrambe le mani: con la sinistra, più arretrata, accennava a restituirmi il passaporto, ma con la destra, tesa quasi fino al mio volto, manifestava il desiderio di essere pagata in anticipo, e senza indugio, sfregando rapidamente, rapacemente, l’indice con il pollice e dicendo: “Schilling, schilling, sofort!”, più volte. Poi scrisse un numero. Un prezzo non esoso invero, e colazione compresa. Pagai, riebbi il passaporto, e salii nella camera. Era spaziosa, poco illuminata e fredda. Mentre sistemavo la roba, pensai cosa potessero significare quelle due donne che mi avevano dato ospitalità nella notte, ma con diffidenza. “Sono allegoriche queste due vecchie!”, pensai, “forse addirittura ministre del fato, sue intermediarie!”

Significavano qualcosa, la parte peggiore delle mie zie, le sorelle più attempate di mia madre, la Rina e la Giulia.
Io dovevo fruire della loro ospitalità a Pesaro d’estate, e a Bologna nella casa che mi avrebbero comprato dopo la laurea, e dovevo ripagarle, ossia ricompensarle facendo un poco di carriera nella scuola: se fossi diventato professore di greco e latino nel miglior liceo di Bologna, loro due, ex maestre elementari, all’estero, tra l’altro a Budapest, quando c’era il fascismo, poi caduto Mussolini, tornate in Italia, ne avrebbero avuto sufficiente soddisfazione. Se avessi insegnato all’Università, sarebbero state felici. Dovevo rispettarle ed essere grato per l’aiuto che già allora ricevevo, però non dovevo permettere alle due zie anziane, più o meno ancora fasciste e pretificate, di interferire nella scelta delle mie donne, del mio destino. Volevano che mi sposassi con “una brava collega”. Ossia una ragazza di famiglia borghese, vergine, che insegnasse, mi preparasse piatti forti e schietti, e tenesse ordinata la casa. Io invece non volevo una moglie tratta dalla sesquiplebe[3], una casalinga addomesticabile, ma un’amante bella, intelligente, sensibile, colta, sportiva. Un’artista dotata di vis vitalis, una della mia levatura, quella che avevo perduto e volevo ritrovare.
Diverse amanti dovevo trovare anzi, magari una alla volta, però una più speciale dell’altra. I luoghi comuni, la gente ordinaria, la turba dei chiacchieroni mi davano noia. Cercando di assimilarmi a coloro, mi ero degradato. Dovevo voltare la schiena a quella genia. La vita dell’eterno marito di una serva non faceva per me. Le zie potevano diventare epigone delle sorelle Materassi ed io il loro diadoco.
Pegaso se viene messo a girare la ruota del mulino, si ammala e muore. Dovevo ritrovare le ali che mi ero lasciato portare via.
Mi mancava la compagnia di gente del mio stampo che sente, respira, vive le bellezza e l’arte.

Uscii per mangiare in fretta e tornare presto in camera. Volevo alzarmi la mattina di buonora. Fuori pioveva sempre e faceva freddo. Mentre mangiavo, pensai che dovevo orientarmi cercando di capire il destino: cogliere e interpretare i segni del cielo e di Dio che, con la sua mente ordinata e magnanima, nulla lascia procedere a caso. E avverte con premonizioni chi sa leggerle. Queste non sono sempre chiarissime, ci vuole un animo attento e allenato per comprenderle. Io facevo caso fin da bambino ai segni premonitori.
Ricordai che Ammiano Marcellino commenta positivamente l’attenzione del suo eroe, Giuliano Augusto, per gli auspici che si traggono dagli uccelli: non che i volatili conoscano il futuro, sed volatus avium dirigit deus[4]. I segni provvidenziali mi avrebbero indicato la strada da seguire con metodo[5]. Exinde quid agi oporteat bonis successibus instruendus[6].
Alla follia metodica di Amleto non sfugge che c’è una provvidenza speciale anche nella morte di un passero[7].
Pensando ai segni ricevuti quel giorno, mi addormentai.
All’una, fui svegliato da un campanello.
Prima credetti di sognare quel suono, poi mi svegliai. Qualcuno suonava davvero e con insistenza. Nessuno andava ad aprire. Vecchie sorde o paurose. Ancella infingarda, se c’era. Io? Non c’entravo, non mi sembrava il caso, poi avevo paura. Continuò per alcuni minuti.
Chi è alla porta, chi è alla porta, chi?[8] Mi domandavo.
Guardiani, ladri, assassini, scomposte menadi ubriache, spettri di orrori, oppure “in congreghe - diavoli goffi con bizzarre streghe”[9], o che altro?
Maledetto squillo di sventura.
Ma no, forse era un altro segno benedetto, un segno sonoro di cambiamento in meglio. Tutto è pieno di dèi, pavnta plhvrh qew'n[10], tutto è santo, tutto è santo, tutto è santo[11], ricordai.

Rimasi sveglio una mezz’ora per interpretare quel segno.
Lo feci in questo modo: “Non addormentarti, non rimanere assopito e stordito nella casa di Pesaro. Non è l’ambiente dove puoi svilupparti. Svegliati, alzati, cerca nuove dimore, esperienze nuove, anche a costo di ferirti, di smarrirti nel mondo.
 Devi imparare a stare ritto senza essere sorretto.
Se resti là, sei perduto per sempre. A Debrecen, cerca di conoscere delle persone, donne soprattutto, le donne belle e fini che devi meritarti: prova a iniziare una vita degna di te!”
Arrivai alla frontiera ungherese che c’era il sole. Mi chiesero se avessi una fotografia per il visto. Non l’avevo. Me ne fecero quattro dopo avermi messo seduto davanti a un muro. Me ne lasciarono una. La conservo. Ci vedo la faccia ombrosa di un ragazzo occhialuto, grasso, foruncoloso. Brutto, anzi imbruttito assai.
Con l’anima piena di piaghe.
Con un aspetto tanto malconcio, da Giobbe, tutto ulcere, non sarebbe stato facile risalire la china. Dovevo modificarlo. Rimpastarmi, come diceva la madre mia benedetta. Liberarsi da quel laido groviglio di tormenti. Dovevo evadere da quella nube di angoscia che mi toglieva la visione della luce.
Ci voleva l’abbronzatura, l’ornamento del sole che accarezza il mondo e il nostro viso con i suoi raggi come fa Apollo quando con il plettro tocca le corde della lira , e bisognava aggiungere la cosmesi l’altra cosmesi buona: quella dello sport: corse, bicicletta, nuoto, e digiuni da asceta. Poi le lenti a contatto. Dovevo ritrovare il compiacimento e l’orgoglio di me stesso, quelli che avevo quando studiavo al Mamiani e vincevo tutte le gare scolastiche e ciclistiche. Riprendere a primeggiare dovevo. Nello studio e nello sport. Tornare all’accordo con la vita a essere accordato alla vita.
Dopo il liceo infatti mi ero degradato con il cibo, con la pigrizia e con le lamentele, querimonie plebee, anzi servili.
Poi lo schifo degli altri, genitivo soggettivo e oggettivo, e le solitudini da anacoreta sordido, non santo.


CONTINUA


[1] Cfr. Iliade, XXI, 281-282
[2] Il protagonista di Delitto e castigo di Dostoevskiy. Ammazza due vecchie appunto.
[3] Cfr. Vittorio Alfieri, satira IV, La sesquiplebe    
D'ogni Città voi la più prava parte,
Rei disertor delle paterne glebe,
Vi appello io dunque in mie veraci carte,
Non Medio-ceto, no, ma Sesqui-plebe.  (vv. 31-34)
[4] Ammiano Marcellino, Historiae, XXI, 1, ma il volo degli uccelli lo dirige Dio.
[5] E’ una tautologia voluta: oJdov" significa “strada”
[6] Quindi saranno I buoni successi a guidarmi (cfr. Ammiano Marcellino, Storie, XXI, 5. Parla Giuliano Augusto
[7] Cfr. Shakespeare,  Hamlet V, 2 there’s a special providence in the fall of a sparrow.
[8] Cfr. Euripide, Baccanti: “tiv~ ojdw` ; tiv~ oJdw/` ;tiv~ ;” (v. 68), chi è per strada?, chi è per strada? Chi?
[9] Carducci, Il comune rustico, 10-11.
[10] Talete in Aristotele, Sull'anima, 411a 8.
[11] P. P. Pasolini, Dialoghi definitivi di “Medea”, scena 7. In op. cit., p. 544 e p. 545.

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