martedì 6 novembre 2018

Seneca, "Lettere a Lucilio", da 1 a 54. PARTE 4

Epicuro

27 La vera gioia consiste nella virtù
Sola virtus praestat gaudium perpetuum, securum; etiam si quid obstat, nubium modo intervenit , quae infra feruntur, vagano in basso, nec umquam diem vincunt (3)
Un certo Calvisius Sabinus et patrimonium habebat libertini et ingenium, aveva il patrimonio e il carattere del liberto. Non ricordava nemmeno il nome di Ulisse nihilomĭnus eruditus volebas videri (5) Allora comprò dei servi: magnā summā emit servos, unum qui Homerum teneret, alterum qui Hesiodum, novem praetera lyricis singulos adsignavit (Alcmane, Alceo, Stesicoro, Anacreonte, Saffo, Simonie, Bacchilide, Pindaro)
A cena seccava gli ospiti ripetendo i versi che gli suggerivano gli schiavi, ma spesso a metà di una parola inciampava.
Bona mens nec commodatur nec emitur (8) non si dà a prestito né si compra, at mala cotidie emitur.
Una sentenza di Epicuro: divitiae sunt ad legem naturae composita paupertas, la povertà conforme alla legge di natura è una ricchezza.

28 I viaggi non giovano affatto a guarire le malattie dell’anima
Animum debes mutare non caelum ( 1). Sequentur te quocumque perveneris vitia. Tecum fugis.
Fai come la Sibilla di Virgilio: bacchatur vates, magnum si pectore possit-excussisse deum” (Aeneis, VI, 78). Questa si agita habens in se spiritus non sui . Anche tu vadis huc illuc ut excutias insidens pondus quod ipsa iactatione incommodius fit , sicut in navi onera immota minus urgent (3)
Se sarai libero dal male, ogni luogo ti piacerà e potrai dire: “patria mea totus hic mundus est” (4). Se stai bene, bene vivere omni loco positum est (5). Tuttavia come ci sono luoghi malsani ut loca gravia per la salute del corpo, ita bonae quoque menti necdum adhuc perfectae et convalescenti sunt aliqua parum salubria (6).
L’uomo savio malet in pace esse quam in pugna (7). Triginta Tyranni Socraten circumsteterunt , nec potuerunt animum eius infringere (8). Quid interest quot domini sint? Servitus una est; hanc qui contempsit in quantalibet turba dominantium liber est.
Una bella massima di Epicuro: “Initium est salutis notitia peccati (…) deprehendas te oportet antequam emendes” (28, 9) devi scoprirti in fallo prima di correggerti.

Deprehendere si dice del cogliere o sorprendere qualcuno nell’atto di fare qualche cosa; come termine giuridico “prendere in flagrante”, Tale senso mal si presta alla diatesi riflessiva, presupponendo un grado d’introspezione che non fu raggiunto da nessuno scrittore latino, tranne Senreca (…) E’ vero che c’è un precedente ovidiano-e Ovidio è, dopo Virgilio, il poeta più valorizzato da Seneca. met, 3,428 s.” in medias quotiens visum captantia collum-brachia mersit aquas, nec se deprendit in illis;, ma si tratta di Narciso alla fonte, e il riflessivo postula uno sdoppiamento esteriore, anche se illusorio”1

29 Non sempre i consigli sono opportuni
Verum (…) nulli nisi audituro dicendum est, la verità va detta solo a chi è disposto ad ascoltarla.
Sapientia ars est, certum petat, punti a una meta precisa, eligat profecturos, scelga quelli capaci di progredire, ab iis quos desperavit recēdat, si allontani, non tamen cito relinquat, ma prima faccia gli ultimi tentativi, et in ipsa desperatione extrema remedia temptet (3)
Ancora Epicuro: Numquam volui populo placere; nam quae ego scio non probat populus, quae probat populus ego nescio” (10)
Clamor et plausus pantomimica ornamenta (29, 12) grida e applausi sono omaggi per pantomimi e il sapiente li sdegna.

30 Bisogna aspettare la morte con animo sereno
Prima pars est aequitatis aequalitas (30, 11), la prima parte della giustizia è l’uguaglianza
Tunc trepidamus cum prope a nobis esse credimus mortem: a quo enim non prope est, parata omnibus locis omnibusque momentis? (16)
Hostis alicui mortem minabatur, hanc cruditas occupavit, un’indigestione la prevenne.

31 Non bisogna curarsi del giudizio del volgo
Unum bonum est, quod beatae vitae causa et firmamentum est, sibi fidere (3).Labor bonum non est, la fatica, l’affaccendarsi non è un bene, quid ergo est bonum? Laboris contemptio (4)
Quid ergo est bonum? Rerum scientia. Quid malum est? Rerum imperitia (31, 6)
Parem autem te deo pecunia non faciet: deus nihil habet. Pratexta non faciet: deus nudus est (Seneca, Ep. 31, 10).

Cfr. l’Eracle di Euripide
Ahimé: questo è secondario rispetto ai miei mali 1340;
ma io non credo che gli dèi amino letti che non sono leciti.
né ho mai considerato degno né crederò che attacchino lacci alle braccia
né che uno sia padrone dell’altro.
Infatti il dio se è veramente dio, non ha bisogno
di nulla: queste sono povere favole di aedi. 1346.
Cfr. Seneca Ep. 110, 19
Contro i miti che attribuiscono vizi agli dèi
Cfr. questo rifiuto dei miti immorali con quello di Pindaro che nega veridicità alla favola tràdita secondo la quale Pelope sarebbe stato mangiato dagli dèi cui il padre Tantalo lo aveva imbandito: “ Poiché tu eri sparito, né alla madre ti/portarono gli uomini sebbene ti cercassero molto,/ subito uno dei vicini invidiosi spargeva di nascosto la diceria/che ti avevano tagliato membro a membro con il coltello/nel culmine bollente dell'acqua sul fuoco,/e al momento dell'ultima portata sulle mense si / spartirono le tue carni e le divorarono./Per me è inconcepibile chiamare/ghiotto uno dei beati: me ne tengo lontano;/una perdita tocca spesso ai malèdici. ( Olimpica I, vv. 45-54)
Nell'Olimpica IX Pindaro scrive:"diffamare gli dei è odiosa sapienza (ejpei; tov ge loidorh'sai qeouv"-ejcqra; sofiva, vv. 37-38), con un ossimoro che denuncia la critica filosofica dei miti, una lapidaria affermazione di ultratradizionalismo che sarà ripresa dall'Euripide postfilosofico o antifilosofico delle Baccanti :"Il sapere non è sapienza"(v.395), canta il coro delle menadi, quindi si augura di "tenere il cuore e la mente lontani dagli uomini straordinari, per accettare quello che il popolo più semplice pensa e crede"(vv. 427-432). Ebbene il tradizionalismo aristocratico di Pindaro è meno lontano dalle credenze popolari che dalla sapienza intellettualistica degli "uomini straordinari". Del resto la spienza non è a portata di tutti ma è "scoscesa"(Olimpica IX, 108).

Dio non ha bisogno di niente
L’ idea della divinità che non ha bisogno di niente si ritrova nel De rerum natura di Lucrezio: “ Omnis enim per se divum natura necessest/immortali aevo summa cum pace fruatur/semota ab nostris rebus seiunctaque longe./nam privata dolore omni, privata periclis,/ipsa suis pollens opibus, nihil indiga nostri,/nec bene promeritis capitur nec tangitur ira” (II, 646-651), infatti ogni natura divina per sé deve fruire di un’età immortale con pace suprema, lontana dalle nostre vicende e di gran lunga distinta. Infatti preservata da ogni dolore, preservata dai pericoli, potente da sola delle sue forze, per niente bisognosa di noi, non viene accattivata dai nostri servizi buoni e non è toccata dall’ira.

Un biasimo per la povertà e la trascuratezza fisica veniva rivolto a Socrate da Antifonte sofista il quale accusava Socrate di essere maestro di miseria, ma egli ribatteva che "non avere bisogno di niente è divino, di pochissimo è assai vicino al divino”2
Antifonte disse a Socrate che la sua filosofia non portava alla felicità poiché lui faceva una vita che nemmeno uno schiavo potrebbe sopportare:
mangi e bevi la roba più ordinaria, porti un mantello che non solo è ordinario ma è il medesimo per l’estate e per l’inverno, e vivi costantemente senza scarpe e senza tunica. Per giunta non prendi denaro che porta gioia a chi lo acquista.
Dunque considera di essere un maestro di infelicità: nomivze kakodaimoniva" didavskalo" ei\nai (Memorabili, I, 6, 3)
Socrate risponde che non accettando denaro non è costretto a frequentare nessuno.
I miei cibi sono ordinari ma li condisco con l’appetito, condito a sua volta con il movimento.
Io che vivo esercitandomi anche fisicamente sono in grado di sopportate il caldo il freddo, la fame meglio di te. Non c’è niente di meglio che evitare la schiavitù del ventre e della lascivia cercando i veri benefici. Io voglio diventare migliore e acquistare amici migliori.
“Tu credi Antifonte che la felicità sia lussuria e lusso (trufhv, polutevleia), ejgw; de; nomivzw to; me;n mhdeno;" devesqai qei'on ei\nai, e siccome il divino è il meglio, esserne vicino significa essere vicino al meglio (I, 6, 10).

Disce parvo esse contentus. Habemus aquam, habemus polentam. Nihil desideres oportet si vis Iovem provocare nihil desiderantem, sfidare Giove che nulla desidera
Haec nobis Attalus dixit, natura omnibus dixit.

Il bene è animus rectus, bonus, magnus. Bisogna chiamare un tale uomo deum in corpore humano hospitantem (hospitor sono accolto come ospite) un dio inquilino in un corpo umano (11)
Quid est enim eques romanus aut libertinus aut servus? Nomina ex ambitione aut iniuria nata (31, 11).

32 Esortazione alla filosofia
Multum autem nocet etiam qui moratur, ci arreca grave danno anche chi ci fa perdere tempo, utĭque in tanta brevitate vitae quam breviorem incostantiā facimus (2).
Opto tibi tui facultatem (cfr. facilis, e facio), desidero che tu sia padrone di te stesso (5).


CONTINUA

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1 A. Traina, Lo stile “drammatico” del filosofo Seneca, Patron, Bologna 2011, p. 16

2 Senofonte, Memorabili , I, 6, 10.

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