domenica 18 novembre 2018

Debrecen. Capitolo 3


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Ripartii consolandomi con il pensiero che in fondo avevo già dato parecchi esami e quasi tutti con ottimi voti. Questo non bastava: anche tanti imbecilli e ignoranti li prendevano da professori che a loro volta, nella maggior parte dei casi, erano solo funzionari della scuola.
Per farmi coraggio, pensai che il mio sovrappeso era di una decina di chili, non di trenta: non ero ridicolo, non indicavano a dito la mia pancia. Quand’ero vestito quasi non si vedeva. Bastava non spogliarsi. Dunque potevo rifarmi. Il fondo oramai, il mio punto più basso l’avevo toccato. Se non risalivo, potevo morire laggiù.
Arrivai a Budapest verso le due del pomeriggio. Mi fermai un’ora per mangiare. Non avrei dovuto. Più avanti sarei riuscito a saltare il desinare o la cena. Ancora non avevo assimilato il divieto, quel vetitum che sarebbe diventato il primo tabù del mondo occidentale, una volta caduta la proibizione del sesso. Poi sarebbe arrivata la diffusione del virus dell’AIDS a ripristinare la fobia del sesso.
La città danubiana mi sembrò enorme e dispersiva, mentre di fatto è bella e magica non meno di Praga. Ma avevo gli occhi offuscati da tante paure. Non trovavo la strada per Debrecen.
Dovetti chiederla una decina di volte. Finalmente riuscii a infilarla. Era, è, la Üllői út, la numero 4. Seguendola per 220 chilometri si arriva a Debrecen. La terra del mio riscatto, speravo non senza ragione. Erano passate le quattro. In quel momento prevaleva l’angoscia di non arrivare prima del buio. Il sole non era più tanto alto da rassicurarmi. Calcolai che il tramonto da quelle parti cadeva mezz’ora prima che da noi: entro le otto il dio[1] sarebbe sparito alle mie spalle, entro le nove sarebbe stato buio pesto. Calcolare, conteggiare, riflettere mi è sempre servito a minimizzare l’angoscia, a difendermi dai colpi bassi della fortuna e dalle fregature dei farabutti.
Lanciai la povera, stanca Seicento verso la puszta, il deserto degli Ungheresi, coltivato del resto a girasoli, verdure, grano e foraggio.
Il grano era stato già mietuto. Pensai alla morte di Adone il giovane amato da Venere, ucciso dal cinghiale, e alla rinascita di ogni vita, comprese quella del grano, e la mia[2].

I girasoli avevano le teste chinate a terra. Mi sembravano fanciulle timide. Mai quanto me, pensavo quel giorno. Più che timido allora ero goffo, insicuro, incapace di piacere a una donna, a chicchessia.
Ero imbruttito parecchio dagli anni buoni del liceo. Ero appassito anzi tempo. Ero un fiore di ieri, di ieri l’altro, un’erba falciata e già scolorita. Inoltre mi vestivo male e mi lavavo poco, e non per imitare Socrate del quale all’epoca non sapevo che non curava l’igiene poiché non avevo ancora letto Aristofane[3].

A metà strada fra Budapest e Debrecen, cominciò a piovere.
Avevo sonno e avevo paura di perdermi nella puszta infinita, o quanto meno di non arrivare in tempo per inserirmi tra gli altri.
Pioveva sui girasoli reclinati, sulle oche bianche, sui maiali neri che animavano quella grande pianura semideserta. Per vincere almeno il sonno, mi fermai in una bettola di un paesino, Abony. Volevo bere un caffè e domandare se procedevo sulla via giusta Non ne ero sicuro. Tanto meno prevedevo che in quel locale avrei fatto una sosta trionfale, più volte tornando da Debrecen, ogni volta con una donna diversa, ma sempre bella, fine e innamorata di me.
 La sosta sarebbe diventato un rito celebrativo di trionfi erotici.
Sperarlo quella prima volta sarebbe stata follia.
Quel pomeriggio del ‘66, passate da un pezzo le cinque, avevo anzi paura di essere tagliato fuori dall’amore e dalla felicità. Troppo grasso, sfiduciato e malvestito. E con occhiali grossi e spessi. E con diversi denti cariati. Probabilmente mi puzzava anche il fiato. E pioveva. E non era presto. Né mi sbrigavo.
Ma le mie riflessioni dolorose non erano indegne di indugi e ritardi.
 In fondo al locale affumicato c’era un pianista miserando. Suonava Mezzanotte a Mosca in maniera atroce. “Potrei fare una fine del genere”, pensai. “Girare per taverne, soffrire le cimici, recitare Leopardi: “O natura, natura, perché non rendi poi…” Oppure: “non compagni, non voli, non ti cal d’allegria, schivi gli spassi…oh giorni orrendi in così verde etade!” E via lamentandomi con parole non mie. Mi sentivo come un verme spaventato che si torce nella polvere. Oppure mi davo importanza e mi facevo coraggio ricordando alcune parole dell’Edipo re di Sofocle:” tajma; ga;r kaka;-oujdei;~ oi|ov~ te plh;n ejmou` fevrein brotw`n[4], i miei mali/nessuno dei mortali è capace di sopportarli tranne me".

Comunque sentivo che non ero una persona comune, uno dei tanti e speravo di risalire, una volta toccato il fondo dell’abisso.
In effetti anche quella melodia sgangherata prediceva un poco di bene: qualche giorno più tardi, a Debrecen, una ragazza russa cantò Mezzanotte a Mosca, poi, parlando con me, mi diede animo dicendomi parole buone. Forse cominciai a risalire la china aggrappandomi a quelle frasi benevole.
Mi rimisi in viaggio alquanto disanimato.
A cinquanta chilometri dalla meta però riapparve il sole.
Mi rianimai. Sentivo entrarmi nel petto una forza nuova.
Nonostante la paura di fare tardi, mi fermai per chiedere aiuto al dio.
“Se dopo tanta pioggia, sia pure intermittente, arrivo in un momento di cielo sereno, questo viaggio termina con un auspicio favorevole. Sono pronto a ricominciare. Aiutami Elio. Dio, non permettere che una tua creatura, più buona che cattiva, soffra tanto per tutta la vita.
Stacca da me l’orribile aspetto di suino immondo, rendimi al Gianni che sono!”[5]
Dio mi ascoltò, Dio mi esaudì. Quel viaggio nella terra dei Magiari, la Magyarország, era voluto dal Fato. Mi avrebbe emancipato e staccato dal mio passato, dai parenti disordinati, dall’ambiente meschino di Pesaro, e mi avrebbe messo in contatto con le cose belle che spettavano alla mia natura prevalentemente buona e forte: con le lettere, con il meglio di questo mondo, con le idee iperuranie, e soprattutto con le donne belle e fini che mi erano predestinate. Sì, perché anche quando ero a terra le donne le pensavo al plurale[6].
 Avrei riformato il carattere, cioè l’orientamento.
Il carattere buono si orienta sulla stella polare del Bene, quello cattivo vede e ricorda solo il male. D’altra parte un carattere buono è una cara esca[7] che attira i buoni. Basta non lasciarsi prendere all’amo.
Un carattere cattivo attira e cattura i deboli e i farabutti, come una calamita o una rete dalle maglie malvage.
“O primo fra tutti gli dèi” ripresi a pregare “, tu ora, dopo la pioggia, mi appari fulgente e benedici il mio ingresso in questo nuovo mondo. Significhi che vuoi aiutarmi”.
Pensavo al dio Sole come a una una donna bella e fine, una mamma che mi avrebbe fatto incontrare le donne che mi spettavano e mi aspettavano.
Risalii nell’automobile. Il sole calava nella puszta, a sinistra.
Non si vedevano uomini né alberi, ma girasoli dalle teste un poco risollevate, almeno così mi sembrò, gambi di spighe di grano,
pannocchie di granoturco che spargevano un colore caldo e vitale,
poi foraggio, verdure, pozzi strani, muniti di antenne lunghissime e scenografiche assai, oche e maiali muniti di candide zanne.
 Nel cielo volavano grandi uccelli bianchi dalle ampie ali, cicogne dal becco crepitante.
Arrivai a Hajdúszoboszló, “un paese dal nome lungo e difficile”, pensai come lo vidi scritto. Un nome che per tanto tempo non seppi imparare e continuai a chiamare “quel paese dal nome lungo alle porte di Debrecen”. Erano le sette passate. Il sole si era già posato sulla pianura come un uccello stanco del volo. L’aria ferma era inebriata dall’odore di miele dei tigli.
Grazie a Dio mancavano solo una ventina di chilometri.
 Feci un’ultima corsa e giunsi alla periferia di Debrecen quando Elio auriga aveva già scolto i cavalli, ma solo da pochi minuti. Ci si vedeva ancora abbastanza. Entrai nella via principale: una strada larga e battuta dal vento che sollevava la polvere. Vi camminava gente malvestita. Anche gli edifici erano tenuti male. Il luogo mi si addiceva, messo male com’ero anche io. Mi guardai intorno, chiedendomi dove avrei potuto informarmi sull’ubicazione dell’Università. Vidi un locale con una scritta comprensibile: Hungaria. Avrei preferito il nome Pannonia, ma entrai. Aperta la porta, mi affacciai su una grande sala piena di tavoli, quasi tutti occupati. Rumoreggiava un’orchestra piuttosto chiassosa che musicale. Le pareti erano parzialmente coperte di tende bianche e gialle tra le quali apparivano stucchi pompieristici, carta da parati pretenziosa di raffigurare la puszta, colonne corinzie e pilastri.


CONTINUA


[1] Lo ministro maggior della natura-che del valor del ciel lo mondo imprenta-e col suo lume il tempo ne misura” (Dante, Paradiso, X, 18-20)
[2] Nell’estate del 362 Giuliano Augusto si affrettava verso Antiochia orientis apicem pulchrum, culmine bello dell’oriente. In quei giorni si celebravano gli Adonēa, secondo l’antico rito in onore di questo giovane amato Veneris, apri dente ferali deleto, quod in adulto flore sectarum est indicium frugum (Ammiano Marcellino, Storie, 22, 9). La morte di adone è il simbolo delle messi tagliate quando sono mature.
[3] Aristofane fa dire a Strepsiade che nessuno degli uomini del pensatoio di Socrate per economia si è mai fatto  tagliare i capelli o si è unto il corpo o è andato nel bagno a lavarsi:"oujd  j eij" balanei'on h\lqe lousovmeno"" (Nuvole , v. 837). Il Coro degli Uccelli  più specificamente qualifica Socrate come a[louto" (v. 1553), non lavato.
[4] Edipo re, vv. 1414-1415.
[5] Cfr. Apuleio, Metamorfosi , Depelle quadripedis diram faciem redde me meo Lucio (XI, 2).
[6] Cfr. il personaggio di Mefistofele nel  di Goethe: “Ich sage: Fraun! Denn ein für allemal-Denk ich die Schönen im Plural” (Faust II, 4, Alta montagna), dico donne! poiché una volta per sempre, io le belle le penso al plurale
[7] Ecuba consiglia alla nuora, vedova di Ettore,  di offrire al padrone presente fivlon devlear sw`n trovpwn (Troiane, 700) la cara esca dei tuoi costumi. Andromaca stessa aveva detto che la sua reputazione di donna per bene l’ha resa desiderabile tra gli Achei (v. 657).

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