giovedì 22 novembre 2018

Debrecen. Capitolo 4

Debreceni Nyári Egyetem

L’Hungaria e il Grande Tempio di Debrecen

Mi avvicinai a un cameriere e gli domandai dove fosse l’Università che credevo parola internazionale. Loro invece dicono egyetem. Io non lo sapevo, sicché non ci capimmo. Quello per giunta era assai affaccendato: nemmeno mi guardava mentre cercavo di farmi comprendere, invano. Quando vide entrare un folto gruppo di anziani allegri e ciarlieri, si allontanò senza avermi risposto. Ci rimasi male assai, mi sentii umiliato da quell’inserviente, ma gli andai dietro ripetendo la domanda in inglese e in italiano. L’insolente, seccato, gridò: “Budapest!” accrescendo il mio sconforto. Lo lasciai andare dietro lo sciame fitto di vecchi simili a fuchi. Ebbi paura che nell’immensa barbarie di quella landa remota non ci fosse alcuna università. Forse c’era stato un equivoco, una trappola del destino. Uscii con l’animo a terra. Oltretutto da Oriente arrivava la notte.
Nella via principale si vedevano, confuse tra loro, le ultime luci del giorno e le prime artificiali del paese assediato dal buio. Camminai nella direzione del cielo ancora rosso. Se avessi seguito la traccia lasciata dal sole, le sue palpitanti vestigia per tre chilometri, sarei arrivato alla Nyári Egyetem, l’Università estiva.
“Tu scaldi il mondo, tu sovresso luci:/s’altra ragione in contrario non pronta,/esser dien sempre li tuoi raggi duci”[1].
Questi versi però allora non mi vennero in mente.
Con il viso volto a terra cercavo tracce difficili da rintracciare mentre il cielo mi indicava la via vera.
In fondo alla strada principale si trova il grande tempio della città, una chiesa calvinista, come seppi più tardi. Era giallo. Mi avrebbero detto che era il simbolo di Debrecen, chiamata, dicevano, “la Roma calvinista”.
“Il cuore della città e, per quanto mi riguardava, del mondo intero, era il tempio grande. Il tempio grande era talmente grande che non riuscivo a misurarlo con il metro della realtà (…) La sua facciata gialla terminava in un triangolo, le torri erano munite di occhi e bocca con i volti umani, non ho più visto in vita mia un edificio che palpitasse di tutta quella vita, sembrava persino che respirasse”[2]. Un giorno anche per me quel tempio sarebbe diventato un luogo centrale, dell’anima se non del mondo.
Quella notte vidi solo un edificio alto, giallo e turrito.
Mi fermai un momento.
 Lì sembrava finire, anzi finiva, il centro di Debrecen: al di là del Grande Tempio si vedeva una via deserta, alberata, buia oramai. Un cane nero si confondeva e mimetizzava con la notte. Non senza abbaiare però. Mi fece paura.
Mi sentivo più o meno come Riccardo III: “so lamely and unfashionable that dogs bark at me, as I halt by them[3] così claudicante e goffo che i cani mi abbaiano contro quando arranco vicino a loro.
Nel crepuscolo della sera era l’oscurità a essere attiva: mi inquietava.
La tenebra mi fissava con mille occhi non buoni. Dovevo inserire i mostri della notte in un progetto di ordine: armonizzare e cosmizzare il caos: lo sentivo dentro di me e temevo quello di fuori.
Sulla sinistra, rispetto a chi guarda il tempio, c’era un altro edificio grande, e pure animato.
Un palazzo di sei o sette piani, sormontato da lunghi pinnacoli pseudogotici, quasi un castello, simile a quelli teatrali fatti costruire in Baviera da Ludwig II, il lunatico re sodomita.
Sarei andato in pellegrinaggio fino a quei castelli molti anni dopo con Ifigenia in un estremo e vano tentativo di riconciliazione.

bologna 22 novembre 2018 giovanni ghiselli


CONTINUA



[1] Dante, Purgatorio. 13, 19-21
[2] Parole di Magda Szabó, la scrittrice di Debrecen cui è ora intitolato il caffè dell’Arany bika. Non ricordo però da quale dei suoi romanzi abbia tratto questa citazione.
[3] Shakespeare, Riccardo III, I, 1

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