La sera del 28 agosto eravamo tornati a Patrasso e saliti sul traghetto del ritorno in Italia.
Stavamo scomodamente distesi sulle due cucce a castello della cabina troppo angusta per due persone pur snelle. Se avessimo portato a spasso con noi un amico ingombrante come un bue grasso avremmo dovuto farlo a pezzi, conciarlo per le feste, per farlo entrare.
La truffa dell’agenzia mi aveva messo di cattivo umore. A un tratto mi alzai per osservare lo stato d’animo della compagna che durante l’imbarco si era lamentata parecchio. Poi si era ammutolita.
Nel suo volto ingiallito dalla luce deturpante del neon, si avvallava profonda un’ombra di sofferenza che però non la imbruttiva, anzi rendeva il suo aspetto più maturo e umano.
Si era tolta la maschera e pure i coturni
Non era irata: non si stava preparando una delle nostre tremende tragedie: “Grande sonant tragici: tragicos decet ira cothurnos”[1], è alta la voce dei tragici: ai coturni si addice l’ira.
Sicché potevo rischiare di farle una domanda cruda e diretta.
“Perché siamo infelici Ifigenia?”
“Ci sono motivi diversi” rispose senza inquietarsi. Poi mi guardò con aria interrogativa , come per sentire il mio parere e chiedermi aiuto.
Sentii di potermi fidare, di poterle parlare con la mente e pure col cuore.
“Il motivo è che ancora non abbiamo chiarito con le parole la causa più vera del nostro scontento perché abbiamo pensato solo al sesso e al successo nel lavoro.
Il fatto è che noi due viviamo un conflitto tra la carne per qualche tempo soddisfatta e lo spirito per lo più trascurato. E anche tra l’estetica e l’etica. Abbiamo gioito e ci siamo perfino vantati della nostra potenza erotica, del nostro atletismo amoroso, del nostro cosmo corporeo, senza dare importanza allo squilibrio che stavamo ponendo nelle bilance delle nostre esistenze. A un certo punto un piatto è saltato, l’altro è precipitato.
“Che cosa possiamo fare a questo punto?”, domandò mentre i tratti del suo volto si distendevano e l’ombra del cruccio di schiariva.
“Dobbiamo armonizzare il corpo ancora sano e vigoroso con lo spirito fiacco, e declinante verso la malattia. La carne, seppure fatta a regola d’arte come la tua, subisce cambiamenti con il volgere delle stagioni che un poco alla volta la umiliano fino a mortificarla del tutto cacciandoci nell’avello finale. Ma l’idea incarnata dalla tua bellezza può sopravvivere e non scolorire, anzi addirittura diventare sempre più bella e fiorente. Non dico che devi trascurare la tua carne ben fatta, un dono grande degli dèi, però prenditi cura anche dello spirito: cura ut valeat, fallo crescere, dagli forza e coraggio. Il rivestimento somatico naturalmente sfiorisce, ma l’anima, se la nutri a dovere, può acquistare potenza fino all’ultima ora di vita e anche oltre, io credo. La buona forma corporea oltretutto riflette in gran parte quella mentale. La grande attrice che vuoi diventare deve essere potentemente espressiva e attraverso gli occhi mostrare i movimenti e gli stati di un’anima cosciente, elevata e profonda”.
Ifigenia sorrise, e, mentre l’ombra del suo volto cedeva il passo a una luce interiore, disse. “ora ti sento di nuovo come il mio educatore. Questa sera ti amo”.
“E io amo te”.
Quella sera facemmo l’amore sopra un asciugamano disteso sul pavimento della rollante cabina perché nessuno dei due giacigli canini assegnatici dalla maligna impiegata dell’agenzia di Patrasso era capace dei nostri due corpi, sebbene snelli e assai strettamente avvinghiati.
Bologna 2 novembre 18, 42 giovanni ghiselli
p. s.
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