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martedì 19 novembre 2024

Giuseppe Moscatt: Ricordo di Pasquale Villari, il discepolo più fedele di Gianbattista Vico

Ricordo di Pasquale Villari, il discepolo più fedele di Gianbattista Vico
di Giuseppe Moscatt

 

Lo scorso anno, in occasione del sessantaseiesimo anniversario della morte di Gaetano Salvemini – 1873-1957 - ci è passato fra le mani uno scritto dello storico Pasquale Villari, maestro di storia meridionale dell'illustre storico e politico pugliese or ora citato. Pubblicato sulla rivista La nuova antologia nel 1894, dopo una prima uscita già nel 1891, lo storico napoletano, ma dal 1848 trapiantato a Firenze dove appunto si laureò il Salvemini; nel pieno della polemica europea scatenata dalla reazione del positivismo alla scuola romantica ormai decadente - si pensi ai saggi di Comte e Darwin - e mentre il romanzo romantico continuava a svilupparsi nella sua dimensione storica fra Hugo e Dickens; quando la questione filologica fra il Wilamowitz e Nietzsche scoppiava sulle origini della tragedia greca; una domanda impegnava la storiografia dell'epoca: la Storia era un Scienza o era un'Arte?

La domanda non era nuova. Già una forte polemica era sorta in sede teorica fra la scuola cartesiana e il nostro Vico. Questi partì da una semplice constatazione: il vero ed il fatto si convertono reciprocamente, ovvero il criterio e la regola che ci dà la verità consiste nell'averlo fatto, cioè la verità di una cosa sta nei principi e nelle vicende di essa stessa. Così per Vico non si può conoscere qualsiasi cosa senza possedere tali elementi e solo chi può produrli li possiede e li può quindi testimoniare. Dunque la Scienza è conoscenza del genere o del modo di produrlo e così provare per causa come diceva Aristotele. Già Bacone lo aveva sperimentato come attività di verifica del fatto. E qui lo scontro con Cartesio e i suoi adepti. Il filosofo francese è noto che pose nel pensiero in sé la chiave delle scienze assolute. L'evidenza è data dalla Ragione sicuramente necessaria per l'esistenza; ma è sufficiente per la natura delle cose, per l'essere senza che l'Io sia in grado di produrre? Vico sul punto oppone l'insufficienza umana per la conoscenza intima della Natura, riservata a Dio che appunto è Autore supremo del mondo. All'uomo è data la Ragione per ricostruire dall'esterno la natura, impenetrabile perché all'uomo è vietato l'interiorità. Galileo del resto aveva già detto che la scienza sperimentale da lui formulata permetteva di conoscere il moto dei pianeti; no di certo, la causa della loro origine. E dunque, la scienza umana fa l'anatomia del corpo umano, ma non può mai verificare ciò che fa il corpo umano all'interno del suo intelletto.

E' lo stesso per le Arti: meno certe sono le Arti di pensiero che non danno evidenza per come operano, per esempio la politica ed appunto la medicina. Al contrario sono Scienze meno imperfette la Fisica e la Pittura, perché queste assumono un'evidenza causale più marcata. All'opposto, la geometria euclidea, oppure l'algebra araba, e quindi la matematica, per Vico vedono qui quella conversione fra vero e fatto di cui si disse: dato un punto e una linea è possibile all'uomo di conoscere dall'interno una struttura perché solo così è in grado di produrre e riprodurre. Quanto detto, vale per la storia? Vico con una certa cautela lo afferma positivamente.

Certamente la matematica crea mondi artificiali e anche il mondo della Civiltà Umana può essere fatto dall'uomo e quindi può essere riproducibile. Anzi, l'attività concreta è meglio realizzabile proprio nel caso della Storia, dove il grado di evidenza spiega molto bene la creatività umana. Questa é la Scienza nuova del Vico, cioè la Storia della civiltà operata dall'uomo e perciò è scientifica l'azione di reperimento della stessa all'interno delle varianti che la mente umana produce. Anche qui la rottura con Cartesio - e il suo discepolo Bayle - è palese: la sopravvalutazione della Ragione di Cartesio ne fa un Assoluto che rischia di falsare quello che è in realtà e che nega il naturale mutamento dell'Uomo e della sua Civiltà.

Il citato Bayle (1647-1706, contemporaneo di Vico perché la Scienza nuova è del 1725, quando però i rapporti con i francesi sono ormai interrotti fin dal 1711, perché i loro discepoli italiani di Venezia avevano respinto le critiche suddette) aveva invece insistito sul pensiero assoluto di Cartesio e lo aveva adattato per disvelare gli errori e i pregiudizi, nonché le mistificazioni che la tradizione storiografica medievale aveva prodotto, costruendo favole per favorire con l'ignoranza e la superstizione il Potere della Chiesa e dell'Impero. La storia per Bayle (secondo il Dizionario storico e critico del 1697) era stata una raccolta di tali miti ad usum Delphini e in ciò Vico concordava. Come pure il metodo di adottare prove varie per cancellare false ricostruzioni, che lo rende un giudice, è opera che Vico comunque rispetta. Solo che Vico insiste nel valutare ancora insufficiente tale minuziosa ed esasperata messe di fatti, anche perché spesso la loro ricerca è difficile se non impossibile. Essere arbitro può essere un buon metodo, ma sa manca l'autore del fatto, che fare? Bayle condannò senza speranza il Medio Evo e scartò con polemiche antireligiose eventi non rigidamente provati e perfino ciò che la Ragione non poteva vedere, per esempio le ragioni dei contadini soggetti a guerre, a epidemie e a eventi naturali, dimenticando, al pari di Voltaire, quanto fossero incipienti le consuetudini che tenevano luogo spesso alle leggi.

Insomma svalutava l'Esistere a vantaggio dell'Essere, come aveva notato criticamente Vico di Cartesio. Sia come sia, la domanda risorgeva dopa le lezioni sulla storia riproposte da Walter Scott in Inghilterra, da Heine in Germania e poi anche dal nostro Manzoni. In particolare, le scuole neocartesiane e anglosassoni, erano afflitte per Villari da un determinismo rigido, citate nel saggio predetto ( per precisione, si veda la Nuova antologia, n. 1-2 dell'Aprile; e del Luglio, 1894).

Gli inglesi Buckle, lo Shelley e il Freeman, nonché i tedeschi Dallmann, Gebhardt e Liebig, svalutavano l'opera dell'Uomo e concentravano ogni azione umana secondo leggi statiche dove ad un evento non può che seguire un altro strettamente legato al primo. E al più, la Storia preparava i fatti e l'Arte li esponeva. Anzi si diceva che la storia è quella che era, mentre l'Arte perseguirebbe solo il Bello, detraendo dal fatto il Brutto. Lo storico sarebbe solo un narratore del Bello in sé, della Fede e della Provvidenza, oppure di una mano segreta, secondo le teorie teiste e fataliste di stile protestante moderato. Infatti Manzoni e Adam Smith si affidavano a essa nella crescita di una Società. Lo storicismo hegeliano tedesco, di cui il Ranke sembrava il portatore concreto, provò a fare da mediatore nella logica del divenire idealista: il cronista ricercava, il poeta immaginava, ma lo storico adattava il senso degli eventi e forniva al politico la strada per governare. Cornice e quadro, dunque il vero dal falso, senza intaccare la bellezza dell'esposizione romanzesca.

I primi critici di tali operazione sincretistica, per non dire ideologica perché preparava il terreno alla visione borghese della primazia delle nuovi classi al potere; viene dalle scuole tecnocratiche, in Italia rappresentate dal Cattaneo. Si rilevava che la Storia, fin da Tucidide, fosse una scienza critica, densa di paragoni, dove era però estranea la ricerca dell'armonia, operazione di cui i classici, come Polibio e Machiavelli non si distaccavano nettamente. Neppure si negava una sua assimilazione con le Scienze Politiche, perché spesso si scendeva nel singolo Grande Uomo - si pensi al Carlyle - cosa del tutto diversa da quell'area di lettura. La vera via rimaneva sempre quella del Vico, secondo Ranke, il primo storico d'oltralpe, che lo richiamava, vale a dire che era l'Uomo che fattosi Nazione, riandava alla Storia per mezzo della politica e della sociologia. Come la letteratura greca e latina, che usufruivano soprattutto delle tecniche filologiche e linguistiche.

Epperò - rilevava acutamente il Villari - tornava nella conoscenza storica quel determinismo scientifico cacciato dalla porta. Il francese Bois - Reymond tentava una mediazione partendo da un esempio che rinfocolava le polemiche: la Caduta dell'Impero Romano causata dall'ignoranza di una proprietà dell'acido solforico, la cui capacità distruttiva era stata sottodimensionata dagli operai romani. La fecondità dei suoli, che aveva prodotto la nascita di quell'Impero, sarebbe diminuita per frequenti carestie dovute proprio perché si ignoravano le conseguenze di quel fermento chimico... Ancora: se i Romani avessero scoperto la polvere da sparo già posseduta dalla Cina come Marco Polo ci aveva narrato; i Barbari si sarebbero potuti respingere. Come dire che se gli Indiani d'America avessero avuto i fucili a retrocarica avrebbero meglio resistito agli invasori europei... Deduzioni che ripetevano il classico scientismo determinista e dimenticavano che l'Uomo non era una macchina e la sua libertà di scelta, come insisteva il Carlyle, rimaneva essere sempre il motore della storia. Piuttosto, Villari prende in considerazione uno storico di area romantica e liberale, fratello maggiore del più famoso Alexander: il naturalista ed esploratore Wilhelm von Humboldt (1767-1835), che forse era riuscito a leggere il Vico nei suoi viaggi di studio e di politica estera a Napoli. Legato a Goethe, Wilhelm aveva osservato i luoghi classici del Meridione di Italia. Nei dialoghi nei suoi diari con il mondo classico, e nel fare il cronista delle città e delle vestigie più antiche, come aveva fatto il Vate di Weimar nel suo viaggio in Italia poco prima della grande Rivoluzione del 1789. La narrazione delle sue profonde osservazioni per ritrovare la cause recondite degli eventi, spesso ricostruite con pertinenti considerazioni a volte frutto di deduzioni di fatti marginali. Tesi che ricordano a Villari le conclusioni del Vico. Un reale verosimile che realizza le previsioni ideali. Il fatto non è disgiunto dal linguaggio e l'evento deriva della geografia e dal clima. Le idee sono già nei fatti; ivi comprese le idee dell'Arte. Così Villari trova un modello che lo rassicura nella sua indagine, che segue la nota teoria della successione di epoche, dei corsi e dei ricorsi, senza quello sciocco determinismo che bloccava il sottile divenire della Storia. Un filo logico che guarda al linguaggio e agli usi dei popoli. Perfino i miti, le carestie, i terremoti, nonché le pesti e le guerre che da Napoli a Palermo avevano influenzato la vita e l'economia, il linguaggio e la fede, non ultima la politica, tutto per Humboldt - e dunque per Vico e per Villari - fa Storia. La storia della Cultura, quella bassa e quella Alta, Napoleone e il suo tamburino; Cesare e colui che lo pugnalò! lo spirito dell'Umanità che cresce come un bambino, matura nel lavoro, si riflette nella vecchiaia. Non la Ragione astratta, ma il buon senso comune regola la vita quotidiana. Considerazione che Villari anticipa a Marc Bloch e i suoi colleghi degli Annales di Histoire Economique et sociale nel 1929, divenendo nel '900 la Bibbia dello storico moderno. La tecnica dalla ricerca dei nessi fra eventi ci dà una Ragione ben diversa della Storia che si pone all'esterno di Noi. Il fatto e il frammento che fa Storia. Spesso è un pezzo di cronaca che la genera. Villari però non è ancora soddisfatto del passo avanti che ha compiuto. Ora, è lo storico l'attore che ricompare sulla scena con un diverso copione, senza però quel metro statico che lo faceva un mero geometra. I saggisti, invero, a metà '800, alzarono le vele verso il romanzo storico capitanati da Walter Scott, che con Ivanhoe e Robin Hood consentì di mettere a terra la Storia, influenzando di lì a poco Dumas con i suoi Tre moschettieri, senza contare il Thierry che nel 1835 riprendeva la storia dei Vichinghi alla conquista dell'Inghilterra con Guglielmo il Conquistatore. La nuova scuola storica prospettava la conoscenza della Storia passata - per esempio l'odiato '600 spagnolo - per criticare la realtà politica attuale, col Manzoni dei Promessi sposi che lì ambientava nella Milano di quel secolo, ma di fatto descrivendo la Lombardia austriaca degli anni '40 dell'800. In armonia coll'ideale del Ranke, realtà romanzesca e realtà storica entrano nelle biblioteche borghesi da Milano a Berlino, da Parigi a Mosca, da Londra a New York, spesso accompagnate da forme complottistiche da Grand Guignol (si pensi al Conte di Montecristo), oppure a situazioni di degrado morale della donna (La signora delle camelie di Alexandre Dumas figlia del 1848, che qualche anno dopo farà capolino come Traviata nel teatro d'opera di Verdi). La Storia diventa la cornice fedele del passato che ci consente di analizzare attraverso il Romanzo, la società presente anche se d'appendice. Villari cita a tal proposito il grande storico francese Michelet che nella sua famosa Storia della Rivoluzione Francese dà finalmente un'anima al popolo (1847). E Dickens, con le sue avventurose vicende analoghe nel romanzo Le due città, (1859) supera i limiti del muro cronista di quell'epoca per trascenderle in vicende umane di ogni epoca e paese. La biografia consente ora allo Storico-Artista di dare un ruolo morale al personaggio, tanto che all'eroe di Carlyle succede l'eroe borghese e popolare di Hugo: per esempio Jean Valjean ex forzato per bisogno, poi Sindaco popolare amato dai suoi concittadini operai. E' il Vero della Storia così agognato dagli illuministi, che ora è l'eroe che combatte sulle barricate di Parigi, Dresda e Milano (1848-1849). Le piccole biografie vanno alla ricerca di eroi locali e nazionali: Villari cita il caso letterario di Pier Capponi, l'eroe sconosciuto che strappa i Trattati davanti a Carlo VIII di Francia. L'essere è l'esistere del protagonista della storia l'autore che impersonerà i fatti ed i valori che Weber fra qualche anno porrà come paletti per la storia contemporanea. Nondimeno, cresce l'operazione selettiva dei fatti obiettivi, che si ricostruiscono ove manchino le cosiddette pezze di appoggio, i documenti scritti e materiali. E dunque, precorrendo Spengler e Jung, Villari distingue tre età: l'età del fatto, l'età della rappresentazione del fatto e l'età della critica al fatto. Qui Villari riprende la tradizione storiografica di Erodoto e Aristotele: la classica relazione che scolpisce un evento, cioè il come, il quando ed il perché...Da cui Cicerone trasse la massima immortale, la storia come maestro di vita, idonea a influenzare la nostre scelte politiche e sociali del presente. Se dunque lo storico guarda il passato per capire il presente ed orientare il futuro; se il poeta preferisce il mito perché la fantasia perché gli è più facile così entrare nelle corde dell'uomo di ogni tempo; allora la via dello storico gli appare segnata: è la biografia a fargli da contesto del mondo in cui vive, l'uomo gli sembra il vero motore, a mediare fra reale ed ideale. La vita di Dante è l'esempio per capire l'età dei Comuni. Il suo più grande discepolo, Gaetano Salvemini ne attua i dettami nel magnifico saggio storico Magnati e popolani in Firenze dal 1280 al 1295 del 1899, che apre le danze alla storiografia italiana nel nuovo secolo, anticipa chiaramente quella storiografia sociologica della scuola degli Annales sopracitata, nonché oggi riproposta nelle celebrazioni di Dante nel 2023 da parte dei validissimi cultori quali Barbero e Cardini. Sullo sfondo di tali studiosi antichi e presenti, è ben vivo, l'analisi di Villari, che giudica l'opera di Vico ad avere iniziato. Grande mediatore fra la ricerca storica puntuale e scevra da superstizioni e consuetudini illogiche o di parte fino ad accogliere ricostruzioni coerenti col contesto temporale, Vico piuttosto parte da un pensiero di Pascal, secondo cui la storia dell'Uomo è fatta di 3 fasi- gioventù, maturità e vecchiaia - dalla quale discende l'intera storia di tutti i popoli. Dal dì che nozze, tribunali ed are dice il Foscolo, la storia dei popoli si è disciolta nel divenire del mondo. La prima è l'età primitiva, dove il poeta declama il Mito. Segue l'età degli eroi che incarnano i fatti; e dunque l'età classica che segue il mondo primitivo. Alla fine, l'età della Storia, quella che è attuale di volta in volta, dove la critica connette i fatti e dà le spiegazioni valoriali, che ricerca e scopre le relazioni. Alla domanda iniziale - la storia è una scienza? - ne succede per Villari una diversa, ma di più ampia importanza, c'è uno scopo, una filosofia della storia? La filosofia della storia greco-romana è unanime nel negarlo: da Senofonte a Cicerone, da Marco Aurelio a Plinio il Vecchio, la credono caotica e senza senso. Ma Agostino e Boezio, fino a Tommaso e Bousset, sia cristiani cattolici e Luterani, pensano al contrario: il fine della Storia è Cristo ed il termine di essa medesima, segnata dalla Provvidenza e destinata a cadere nelle mani Dio, soggetta al suo intervento nella Storia per Suo effetto. La Storia per Agostino è frutto di un disegno impenetrabile. La fortuna e la caduta dei popoli è un oscuro disegno che solo Dio può sapere. L'uomo ne conosce solo i contorni, le fasi e ne coglie il senso alla fine di un percorso solo in superficie di dolori e conflitti. Bayle - l'antagonista di Vico - la vede invece come schiava di un Destino- caotico e negativo. Ma Vico e Villari oppongono invece che essa manifesta in apparenza un destino avverso, ma compensato dalla crescita del popolo, che sa trarre dal mito una buona linfa per continuare a ritrovare il filo rosso che guida l'Uomo che lo fa Soggetto della Storia rivolto alla rinascita. Ecco dunque la chiave per rileggere il Medio Evo: non una prigione per l'Uomo, ma un tempo di riflessione e di sotterranea rinnovamento, sballottato da epidemie, guerre e disastri climatici che producono carestie e fughe dalle terre di origine. Circostanze che però spingono l'Uomo ad avventure ritenute impossibili. I Vichinghi, Colombo e Marco Polo rompono la stasi culturale dell'epoca. La Ragione come la goccia, corrode le montagne: l'Uomo dopo la peste del '300 produce, Dante, Lutero, Galileo, cioè l'Umanesimo, il Rinascimento, la Riforma. Questo è il filo logico progressista che il razionalismo storico di Vico vede nell'azione della filosofia che ha riportato l'uomo al centro della Storia. Vico col suo fare cosciente, dopo secoli di vita incosciente, ha ritrovato il sapere dei Greci e dei Romani; onde la sua Scienza nuova, che i Romantici applicheranno nel diritto neogiurisdizionalista di Niebuhr, Müller, Savigny e Ranke dopo la bufera napoleonica. Processo lineare verso l'alto che Villari giudica prodromico, pur con qualche momento di crisi di ritorno al Dispotismo assolutista, ma rimessosi nel binario del progresso proprio con la Rivoluzione francese. Del resto, ai primordi del Romanticismo, il singolarismo letterario che lo caratterizzò nell'età napoleonica ed oltre, aveva avuto un poeta legato alla realtà dei popoli qual'era stato l'Herder, che più volte aveva ammonito l'amico Goethe a considerare la Storia come un mosaico fra Natura, Linguaggio e Poesia, saperi rivolti alla riscoperta dell'Uomo. Un netto rifiuto al meccanicismo illuminista di Kant e di Fichte, dove prevalgono lo spirito causalistico e soggettivista, ristretto dall'incombere dello spazio e del tempo che soffocano la libertà dell'uomo. Il rischio dello Scetticismo e del rigetto di Dio - Fichte dichiara: domani, o Signori; faremo Noi Dio! - preludono per Villari all'Assoluto di Hegel, un insieme di Dio e di Uomo acquisito da quest'ultimo nella dimensione dello Spirito che è coscienza di sé pensante in divenire. In parole di Storico, il divenire della Storia a posteriori; il suo esistere che consentirebbe quella ricostruzione degli eventi umani in assenza di documentazione scritta o fisicamente comprovabile. Insomma, la teoria dell'Uomo sempre unico per tutte le stagioni, vacilla nella realtà progressiva e quindi la necessità di tenere le scienze morali e fisiche in costante controllo per lo scopo di dare risposte alle domande della Storia. Villari appare affascinato dal nuovo metodo storico, ma ne diffida perché la Ragione ne risulterebbe addomesticata dall'Uomo stesso. Dove sta invece il mondo che necessariamente lo condiziona, come già Marx aveva opposto allo stesso Hegel? Il materialismo razionalista non può essere svalutato in quella necessaria ricostruzione. Ecco perché Villari osa risalire alla sociologia di Comte ed all'idea di Progresso che lo stesso Vico aveva mantenuto nell'idea di ricorsi storici. Materialismo che scade nel machiavellismo nella sua ricerca delle leggi positive che regolerebbero la conoscenza storica. Fino a diventare utilitarismo economico, senza contare l'impressionismo nelle arti figurative dove il Bello cede al Brutto ed al difforme. Il dualismo fra fatti e valori, di Durkheim e Spencer, di Simmel e Weber, ripropone le questioni iniziali sulla carenza di Spirito nel rinnovato materialismo machiavellico, come la storiografia tedesca del Sombart e del Meinecke già percorrevano, nel coro di coloro che caldeggiavano le politiche espansioniste germaniche e russofile nel duello pericolosissimo fra le ideologie pangermaniste, colonialiste e panslaviste, rappresentati in Italia dal Crispi con le sue manovre politiche coloniaste in Africa Orientale ed in economia protezionista, favoriva soltanto l'entrata di capitali tedeschi nel nostro Paese. Solo che la questione meridionale, patrocinata da non pochi scritti dello stesso Villari, con gli effetti di profonde migrazioni e la ripresa economica del Paese, richiamata al fine di ricostruire la politica industriale da parte del Capitale tedesco di cui si è accennato. Villari piuttosto rimodellava la questione sociale e riapriva la terza questione critica, quella del presente che occorreva spiegare col passato d'Italia. Proprio dalla Germania veniva una voce di revisione della storia che abbisognava di un grado ineluttabile di creatività artistica che l'Italia di Vico aveva conquistato agli inizi del '700. Il genio critico vichiano non a caso era riscoperto dal lato letterario da un sodale di Villari, Francesco de Sanctis, che ripeteva nella storia della letteratura Italiana lo stesso dilemma: critica estetica soggettiva od oggettiva? Limitarsi al testo letterario o inquadrare l'autore nel contesto? Dante ed il suo secolo, o Dante come spirito creativo assoluto? Come consentire un ponte fra passato e presente? Nietzsche ha già ridotto il problema della nascita della tragedia al di là della filologia razionalistica. Ed aveva una chiave utilitaristica alla lettura del presente: chi vive delle glorie passate sarebbe stato un infelice perché odiava il presente che lo ignora e ne ripete gli errori. Chi invece faceva una storia elogiativa ed antiquaria era un vecchio inutile perché melanconico. Chi poi si limitava all'oggi era un fanciullo disadattato e materialista da illusioni perdute. Piuttosto, l'Uomo che vuole trarre dalla storia un valore, deve avere certi i fatti per fare quello che il Destino (o Dio) riserva all'uomo fin dall'ora presente. Ecco perché Villari plaude al pensiero nicciano che vede una chiara prosecuzione del Vico. L'Italia è una enciclopedia-storica vivente. L'ansia della storia ci assilla e perciò per studiare il presente dobbiamo fare tesoro del passato. La politica per conto suo deve progettare il futuro. Non vale nulla richiamare i fasti del passato, come faceva il Nazionalismo dannunziano, mentre la crisi economica di fine secolo produceva la reazione popolare e degenerava nella cannonate sui morti di fame a Milano nelle tristi giornate del maggio del 1898. Forte fu perciò la sua reazione alla pubblicazione di un saggio di metodologia della ricerca storica di evidente favore sociologico e utilitarista, da parte dello storico Henry Sidgwick, docente di psicologia morale al Cambridge nel 1886. Aderendo al pensiero del positivista Spencer, lo storico predetto propose un metodo storico utilitarista estendendo la nuova scienza utilitarista alla Storia. Come per le leggi fisiche, anche l'etica soggiacerebbe a leggi scientifiche deterministe, anche il Destino sarebbe ineluttabile, salvo ricorrere a scelte tattiche machiavelliche a danno della collettività. In altre parole, il Colonialismo sarebbe una scelta per evitare le crisi di produzione elevate non coperte dal mercato interno e dunque la Gran Bretagna doveva necessariamente sfruttare le risorse dei paesi colonizzati. Nondimeno, Sidgwick escludeva ogni rispetto morale nella stessa politica di Governo e criticava la Storia etica quando il Governo si soffermava dubbioso sulle questioni di tutela delle popolazioni assoggettate. Il rigetto della Storia e dei suoi insegnamenti morali di rispetto dei diritti umani e nessun riguardo per la coscienza a favore di una Ragione più bieca, era l'unico mezzo per garantire la ricerca dalla pace e del bene della maggioranza perbene, anche a danno di minoranze improduttive. Il bene Comune sociale, che perfino la Chiesa Cattolica di Leone tredicesimo aveva posto a fondamento della Pastorale con l'enciclica Rerum Novarum, venne considerato un'utopia come quella di Tommaso Moro, difensore della Chiesa cattolica. La ricchezza individuale era l'unico valore per quella Società, dove ancora la servitù domestica era da proteggere, come ci raccontavano Dickens, James, Conrad e perfino il giovane economista Keynes nei suoi diari anteriori alla Prima Guerra Mondiale. La reazione di Villari al meccanicismo amorale anglosassone ci appare nel saggio in esame di notevole originalità. Anticipando la storiografia attuale - per esempio Calamandrei (1939) e Carlo Ginzburg (2006) - il Nostro estende alla conoscenza storica la teoria della casualità adeguata del fatto all'evento, corretta dal necessario supporto morale. Richiamando Kant e la sua critica della Ragione Pura, Villari ricordava come punto fermo che la Metafisica è sempre il regno dell'irrazionale. Che a discutere di Storia spesso la Ragione non basta. Un esempio per tutti: i grandi uomini di Carlyle spesso si perdono in imprese razionalmente già assai difficili, come nel caso della spedizione in Russia di Napoleone. Dunque il principio di causalità è assoluto nella realtà naturale, ma nell'etica pubblica? Come ammettere uno Spirito privo di causalità? Come accettare il fatto che la volontà umana è schiava pura della Natura... Dalla Ragione Pura alla Ragione pratica, con una causalità adeguata nella Ragione Pratica, moderata dalla morale nell'agire del mondo sociale, dove l'agire umano deve tenere conto dell'Altro. Il cui rispetto - sia che questo sia l'altro Uomo, che le Cose inanimate, diremo oggi per la materia ambientale - la restringe e le pone il problema del minimo danno che la creatività soggettiva deve comunque salvaguardare. Da notare che proprio Kant, comprendendo il disagio di mantenere nella morale un minimo di relazione causale contenuta dall'interesse esterno all'uomo, dirotta l'azione della fantasia creativa alla terza opzione dell'Uomo, il giudizio critico dell'arte. Il filosofo di Königsberg, forse influenzato da Leibnitz - citato con chiarezza dal Villari - cita la musica come massima area dall'agire inconsapevole dell'animo. Infatti il linguaggio che essa adotta - come del resto quello della Fede - risulta ostico agli scienziati fisici e li predispone a forme di ateismo spiccato. Ed infatti Villari è consapevole che la conoscenza filosofica è cosa ben diversa dalla conoscenza storica e molto distante dalla conoscenza scientifica, molto ben distinte dalle premesse Kantiane. Nel finale dello studio - che creerà un solco a Destra con Croce ed un pari rifiuto a Sinistra col Labriola - Villari ben distingue la Filosofia dalla Storia, la prima delle quali per mezzo della Metafisica, fungerebbe da legame fra scibile e mondo. Non è un caso che Coscienza e Volontà siano state legate nella ricerca nel moto degli atomi, un Soggettivismo che fa dire al Fichte ditemi chi siete e che vi dirò qual'é la vostra filosofia. E' vero che le scienze naturali godono di una regolarità cui basta risalire per comprenderle ed addomesticarle. Ma Kant - e Dilthey suo raffinato discepolo che Villari non poteva non conoscere - ha operato quelle distinzioni che dettano al matematico, al teologo, al musicista, il campo del loro agire, affinché non vengano a confliggere nella vita quotidiana. Purtroppo, Vico aveva messo il dito nella piaga: la chiarezza della loro separazione concettuale ed oggi distinta dalla conoscenza iconica, dove l'oggetto è visibile nei limiti kantiani, mentre la conoscenza proposizionale, dalla prima si distingue quando una proposizione è vera in modo indiretto. Purtroppo, il limite fra Ragione e Sentimento, è nella Storia come si è visto alquanto difficile. Bentham e Schopenhauer - sulla cui scia il nostro Barbero ha osato proporre la scissione didattica fra Storia e Filosofia accorpate da Gentile nelle Scuole Superiori fin dal 1923 - hanno inteso sempre la storia come frutto di un che di irrazionale e sentimentale, quasi una creazione intellettuale e letteraria, dandole un'anima poco razionale, riducendo tutto a un duello fra Ragione ed appunto Destino immutabile. E se i due protagonisti del pensiero in esame hanno tentato di dimostrare che la conversione fra fatto e verità è un unicum tipico della storia, lo è perché la narrazione non potrà che confermare come l'evento sia avvenuto, giudicandolo nel significato e specificando i nessi ed il disegno generale di cui fa parte. Tale procedimento rimane nella storiografia un'interpretazione più che singolare cui la scuola francese da Bloch a Braudel dovrebbe essere grata.

Giuseppe Moscatt

 

Bibliografia

  • Su Pasquale Villari, vd. GIOACCHINO VOLPE; Pasquale Villari, Milano,1940; GIOVANNI SPADOLINI, La Firenze di Pasquale Villari, ed. Le Monnier, 1989.
  • Su Gaetano Salvemini, discepolo di P. Villari, cfr. i Suoi Scritti sul fascismo, in www.bibliotecaginobianco.it
  • Sul rapporto con G.B. Vico, vd. PASQUALE VILLARI, Teoria e filosofia della storia, editori Riuniti, a cura di M. Martirano, 1999, pagg. 76 e ss.
  • Ci permettiamo altresì di segnalare un Nostro intervento sul giornale Libertà Sicilia del 25 luglio 2019, Lieber Professor, egregio collega: Theodor Mommsen e Pasquale Villari, Un dialogo italo tedesco, dove le due personalità a cavallo dei due secoli scorsi ebbero un fecondo carteggio che aprì la strada alla più volte citata scuola storica francese degli Annales.

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