Lo scorso anno, in occasione del
sessantaseiesimo anniversario della morte di Gaetano Salvemini – 1873-1957 - ci
è passato fra le mani uno scritto dello storico Pasquale Villari, maestro di
storia meridionale dell'illustre storico e politico pugliese or ora citato.
Pubblicato sulla rivista La nuova antologia nel 1894, dopo una prima
uscita già nel 1891, lo storico napoletano, ma dal 1848 trapiantato a Firenze
dove appunto si laureò il Salvemini; nel pieno della polemica europea scatenata
dalla reazione del positivismo alla scuola romantica ormai decadente - si pensi
ai saggi di Comte e Darwin - e mentre il romanzo romantico continuava a
svilupparsi nella sua dimensione storica fra Hugo e Dickens; quando la
questione filologica fra il Wilamowitz e Nietzsche scoppiava sulle origini
della tragedia greca; una domanda impegnava la storiografia dell'epoca: la Storia
era un Scienza o era un'Arte?
La domanda non era nuova. Già una
forte polemica era sorta in sede teorica fra la scuola cartesiana e il nostro
Vico. Questi partì da una semplice constatazione: il vero ed il fatto
si convertono reciprocamente, ovvero il criterio e la regola che ci dà la
verità consiste nell'averlo fatto, cioè la verità di una cosa sta nei principi
e nelle vicende di essa stessa. Così per Vico non si può conoscere qualsiasi
cosa senza possedere tali elementi e solo chi può produrli li possiede e li può
quindi testimoniare. Dunque la Scienza è conoscenza del genere o del modo di
produrlo e così provare per causa come diceva Aristotele. Già Bacone lo aveva
sperimentato come attività di verifica del fatto. E qui lo scontro con Cartesio
e i suoi adepti. Il filosofo francese è noto che pose nel pensiero in sé la
chiave delle scienze assolute. L'evidenza è data dalla Ragione sicuramente
necessaria per l'esistenza; ma è sufficiente per la natura delle cose, per
l'essere senza che l'Io sia in grado di produrre? Vico sul punto oppone
l'insufficienza umana per la conoscenza intima della Natura, riservata a Dio
che appunto è Autore supremo del mondo. All'uomo è data la Ragione per
ricostruire dall'esterno la natura, impenetrabile perché all'uomo è vietato
l'interiorità. Galileo del resto aveva già detto che la scienza sperimentale da
lui formulata permetteva di conoscere il moto dei pianeti; no di certo, la
causa della loro origine. E dunque, la scienza umana fa l'anatomia del corpo
umano, ma non può mai verificare ciò che fa il corpo umano all'interno del suo
intelletto.
E' lo stesso per le Arti: meno
certe sono le Arti di pensiero che non danno evidenza per come operano, per
esempio la politica ed appunto la medicina. Al contrario sono Scienze meno
imperfette la Fisica e la Pittura, perché queste assumono un'evidenza causale
più marcata. All'opposto, la geometria euclidea, oppure l'algebra araba, e
quindi la matematica, per Vico vedono qui quella conversione fra vero e fatto
di cui si disse: dato un punto e una linea è possibile all'uomo di conoscere
dall'interno una struttura perché solo così è in grado di produrre e
riprodurre. Quanto detto, vale per la storia? Vico con una certa cautela
lo afferma positivamente.
Certamente la matematica crea
mondi artificiali e anche il mondo della Civiltà Umana può essere fatto
dall'uomo e quindi può essere riproducibile. Anzi, l'attività concreta è meglio
realizzabile proprio nel caso della Storia, dove il grado di evidenza spiega
molto bene la creatività umana. Questa é la Scienza nuova del Vico,
cioè la Storia della civiltà operata dall'uomo e perciò è scientifica l'azione
di reperimento della stessa all'interno delle varianti che la mente umana
produce. Anche qui la rottura con Cartesio - e il suo discepolo Bayle - è
palese: la sopravvalutazione della Ragione di Cartesio ne fa un Assoluto che
rischia di falsare quello che è in realtà e che nega il naturale mutamento
dell'Uomo e della sua Civiltà.
Il citato Bayle (1647-1706,
contemporaneo di Vico perché la Scienza nuova è del 1725, quando
però i rapporti con i francesi sono ormai interrotti fin dal 1711, perché i
loro discepoli italiani di Venezia avevano respinto le critiche suddette) aveva
invece insistito sul pensiero assoluto di Cartesio e lo aveva adattato per disvelare
gli errori e i pregiudizi, nonché le mistificazioni che la tradizione
storiografica medievale aveva prodotto, costruendo favole per favorire con
l'ignoranza e la superstizione il Potere della Chiesa e dell'Impero. La storia
per Bayle (secondo il Dizionario storico e critico del 1697) era stata
una raccolta di tali miti ad usum Delphini e in ciò Vico
concordava. Come pure il metodo di adottare prove varie per cancellare false
ricostruzioni, che lo rende un giudice, è opera che Vico comunque rispetta.
Solo che Vico insiste nel valutare ancora insufficiente tale minuziosa ed
esasperata messe di fatti, anche perché spesso la loro ricerca è difficile se
non impossibile. Essere arbitro può essere un buon metodo, ma sa manca l'autore
del fatto, che fare? Bayle condannò senza speranza il Medio Evo e scartò con
polemiche antireligiose eventi non rigidamente provati e perfino ciò che la
Ragione non poteva vedere, per esempio le ragioni dei contadini soggetti a
guerre, a epidemie e a eventi naturali, dimenticando, al pari di Voltaire,
quanto fossero incipienti le consuetudini che tenevano luogo spesso alle leggi.
Insomma svalutava l'Esistere a
vantaggio dell'Essere, come aveva notato criticamente Vico di Cartesio. Sia
come sia, la domanda risorgeva dopa le lezioni sulla storia riproposte da
Walter Scott in Inghilterra, da Heine in Germania e poi anche dal nostro Manzoni.
In particolare, le scuole neocartesiane e anglosassoni, erano afflitte per
Villari da un determinismo rigido, citate nel saggio predetto ( per precisione,
si veda la Nuova antologia, n. 1-2 dell'Aprile; e del Luglio, 1894).
Gli inglesi Buckle, lo Shelley e
il Freeman, nonché i tedeschi Dallmann, Gebhardt e Liebig, svalutavano l'opera
dell'Uomo e concentravano ogni azione umana secondo leggi statiche dove ad un
evento non può che seguire un altro strettamente legato al primo. E al più, la
Storia preparava i fatti e l'Arte li esponeva. Anzi si diceva che la storia è
quella che era, mentre l'Arte perseguirebbe solo il Bello, detraendo dal
fatto il Brutto. Lo storico sarebbe solo un narratore del Bello in sé,
della Fede e della Provvidenza, oppure di una mano segreta, secondo le
teorie teiste e fataliste di stile protestante moderato. Infatti Manzoni
e Adam Smith si affidavano a essa nella crescita di una Società. Lo storicismo
hegeliano tedesco, di cui il Ranke sembrava il portatore concreto, provò a fare
da mediatore nella logica del divenire idealista: il cronista ricercava, il
poeta immaginava, ma lo storico adattava il senso degli eventi e forniva al
politico la strada per governare. Cornice e quadro, dunque il vero dal falso,
senza intaccare la bellezza dell'esposizione romanzesca.
I primi critici di tali
operazione sincretistica, per non dire ideologica perché preparava il terreno
alla visione borghese della primazia delle nuovi classi al potere; viene dalle
scuole tecnocratiche, in Italia rappresentate dal Cattaneo. Si rilevava che la
Storia, fin da Tucidide, fosse una scienza critica, densa di paragoni, dove era
però estranea la ricerca dell'armonia, operazione di cui i classici, come
Polibio e Machiavelli non si distaccavano nettamente. Neppure si negava una sua
assimilazione con le Scienze Politiche, perché spesso si scendeva nel singolo
Grande Uomo - si pensi al Carlyle - cosa del tutto diversa da quell'area di
lettura. La vera via rimaneva sempre quella del Vico, secondo Ranke, il primo
storico d'oltralpe, che lo richiamava, vale a dire che era l'Uomo che fattosi
Nazione, riandava alla Storia per mezzo della politica e della sociologia. Come
la letteratura greca e latina, che usufruivano soprattutto delle tecniche
filologiche e linguistiche.
Epperò - rilevava acutamente il
Villari - tornava nella conoscenza storica quel determinismo scientifico
cacciato dalla porta. Il francese Bois - Reymond tentava una mediazione
partendo da un esempio che rinfocolava le polemiche: la Caduta dell'Impero Romano
causata dall'ignoranza di una proprietà dell'acido solforico, la cui capacità
distruttiva era stata sottodimensionata dagli operai romani. La fecondità dei
suoli, che aveva prodotto la nascita di quell'Impero, sarebbe diminuita per
frequenti carestie dovute proprio perché si ignoravano le conseguenze di quel
fermento chimico... Ancora: se i Romani avessero scoperto la polvere da sparo
già posseduta dalla Cina come Marco Polo ci aveva narrato; i Barbari si
sarebbero potuti respingere. Come dire che se gli Indiani d'America avessero
avuto i fucili a retrocarica avrebbero meglio resistito agli invasori
europei... Deduzioni che ripetevano il classico scientismo determinista e
dimenticavano che l'Uomo non era una macchina e la sua libertà di scelta, come
insisteva il Carlyle, rimaneva essere sempre il motore della storia. Piuttosto,
Villari prende in considerazione uno storico di area romantica e liberale,
fratello maggiore del più famoso Alexander: il naturalista ed esploratore
Wilhelm von Humboldt (1767-1835), che forse era riuscito a leggere il Vico nei
suoi viaggi di studio e di politica estera a Napoli. Legato a Goethe, Wilhelm
aveva osservato i luoghi classici del Meridione di Italia. Nei dialoghi nei
suoi diari con il mondo classico, e nel fare il cronista delle città e delle
vestigie più antiche, come aveva fatto il Vate di Weimar nel suo viaggio in
Italia poco prima della grande Rivoluzione del 1789. La narrazione delle sue
profonde osservazioni per ritrovare la cause recondite degli eventi, spesso ricostruite
con pertinenti considerazioni a volte frutto di deduzioni di fatti marginali.
Tesi che ricordano a Villari le conclusioni del Vico. Un reale verosimile che
realizza le previsioni ideali. Il fatto non è disgiunto dal linguaggio e
l'evento deriva della geografia e dal clima. Le idee sono già nei fatti; ivi
comprese le idee dell'Arte. Così Villari trova un modello che lo rassicura
nella sua indagine, che segue la nota teoria della successione di epoche, dei
corsi e dei ricorsi, senza quello sciocco determinismo che bloccava il sottile
divenire della Storia. Un filo logico che guarda al linguaggio e agli usi dei
popoli. Perfino i miti, le carestie, i terremoti, nonché le pesti e le guerre
che da Napoli a Palermo avevano influenzato la vita e l'economia, il linguaggio
e la fede, non ultima la politica, tutto per Humboldt - e dunque per Vico e per
Villari - fa Storia. La storia della Cultura, quella bassa e quella Alta,
Napoleone e il suo tamburino; Cesare e colui che lo pugnalò! lo spirito
dell'Umanità che cresce come un bambino, matura nel lavoro, si riflette nella
vecchiaia. Non la Ragione astratta, ma il buon senso comune regola la vita
quotidiana. Considerazione che Villari anticipa a Marc Bloch e i suoi colleghi
degli Annales di Histoire Economique et sociale nel 1929, divenendo nel
'900 la Bibbia dello storico moderno. La tecnica dalla ricerca dei nessi
fra eventi ci dà una Ragione ben diversa della Storia che si pone all'esterno
di Noi. Il fatto e il frammento che fa Storia. Spesso è un pezzo di cronaca che
la genera. Villari però non è ancora soddisfatto del passo avanti che ha
compiuto. Ora, è lo storico l'attore che ricompare sulla scena con un diverso
copione, senza però quel metro statico che lo faceva un mero geometra. I
saggisti, invero, a metà '800, alzarono le vele verso il romanzo storico
capitanati da Walter Scott, che con Ivanhoe e Robin Hood consentì
di mettere a terra la Storia, influenzando di lì a poco Dumas con i suoi Tre
moschettieri, senza contare il Thierry che nel 1835 riprendeva la storia
dei Vichinghi alla conquista dell'Inghilterra con Guglielmo il
Conquistatore. La nuova scuola storica prospettava la conoscenza della Storia
passata - per esempio l'odiato '600 spagnolo - per criticare la realtà politica
attuale, col Manzoni dei Promessi sposi che lì ambientava nella Milano
di quel secolo, ma di fatto descrivendo la Lombardia austriaca degli anni '40
dell'800. In armonia coll'ideale del Ranke, realtà romanzesca e realtà storica
entrano nelle biblioteche borghesi da Milano a Berlino, da Parigi a Mosca, da
Londra a New York, spesso accompagnate da forme complottistiche da Grand
Guignol (si pensi al Conte di Montecristo), oppure a situazioni di
degrado morale della donna (La signora delle camelie di Alexandre Dumas
figlia del 1848, che qualche anno dopo farà capolino come Traviata nel
teatro d'opera di Verdi). La Storia diventa la cornice fedele del passato che
ci consente di analizzare attraverso il Romanzo, la società presente anche se
d'appendice. Villari cita a tal proposito il grande storico francese Michelet
che nella sua famosa Storia della Rivoluzione Francese dà
finalmente un'anima al popolo (1847). E Dickens, con le sue avventurose vicende
analoghe nel romanzo Le due città, (1859) supera i limiti del muro
cronista di quell'epoca per trascenderle in vicende umane di ogni epoca e
paese. La biografia consente ora allo Storico-Artista di dare un ruolo morale
al personaggio, tanto che all'eroe di Carlyle succede l'eroe borghese e
popolare di Hugo: per esempio Jean Valjean ex forzato per bisogno, poi Sindaco
popolare amato dai suoi concittadini operai. E' il Vero della Storia così
agognato dagli illuministi, che ora è l'eroe che combatte sulle barricate di
Parigi, Dresda e Milano (1848-1849). Le piccole biografie vanno alla ricerca di
eroi locali e nazionali: Villari cita il caso letterario di Pier Capponi,
l'eroe sconosciuto che strappa i Trattati davanti a Carlo VIII di Francia.
L'essere è l'esistere del protagonista della storia l'autore che impersonerà i
fatti ed i valori che Weber fra qualche anno porrà come paletti per la
storia contemporanea. Nondimeno, cresce l'operazione selettiva dei fatti
obiettivi, che si ricostruiscono ove manchino le cosiddette pezze di
appoggio, i documenti scritti e materiali. E dunque, precorrendo Spengler e
Jung, Villari distingue tre età: l'età del fatto, l'età della
rappresentazione del fatto e l'età della critica al fatto. Qui
Villari riprende la tradizione storiografica di Erodoto e Aristotele: la
classica relazione che scolpisce un evento, cioè il come, il quando ed il
perché...Da cui Cicerone trasse la massima immortale, la storia come maestro
di vita, idonea a influenzare la nostre scelte politiche e sociali del
presente. Se dunque lo storico guarda il passato per capire il presente ed
orientare il futuro; se il poeta preferisce il mito perché la fantasia perché
gli è più facile così entrare nelle corde dell'uomo di ogni tempo; allora la
via dello storico gli appare segnata: è la biografia a fargli da contesto del
mondo in cui vive, l'uomo gli sembra il vero motore, a mediare fra reale ed
ideale. La vita di Dante è l'esempio per capire l'età dei Comuni. Il suo più
grande discepolo, Gaetano Salvemini ne attua i dettami nel magnifico saggio
storico Magnati e popolani in Firenze dal 1280 al 1295 del 1899,
che apre le danze alla storiografia italiana nel nuovo secolo, anticipa
chiaramente quella storiografia sociologica della scuola degli Annales
sopracitata, nonché oggi riproposta nelle celebrazioni di Dante nel 2023 da
parte dei validissimi cultori quali Barbero e Cardini. Sullo sfondo di tali
studiosi antichi e presenti, è ben vivo, l'analisi di Villari, che giudica
l'opera di Vico ad avere iniziato. Grande mediatore fra la ricerca storica
puntuale e scevra da superstizioni e consuetudini illogiche o di parte fino ad
accogliere ricostruzioni coerenti col contesto temporale, Vico piuttosto parte
da un pensiero di Pascal, secondo cui la storia dell'Uomo è fatta di 3 fasi-
gioventù, maturità e vecchiaia - dalla quale discende l'intera storia di tutti
i popoli. Dal dì che nozze, tribunali ed are dice il Foscolo, la storia
dei popoli si è disciolta nel divenire del mondo. La prima è l'età primitiva,
dove il poeta declama il Mito. Segue l'età degli eroi che incarnano i fatti; e
dunque l'età classica che segue il mondo primitivo. Alla fine, l'età della
Storia, quella che è attuale di volta in volta, dove la critica connette i
fatti e dà le spiegazioni valoriali, che ricerca e scopre le relazioni. Alla
domanda iniziale - la storia è una scienza? - ne succede per Villari una
diversa, ma di più ampia importanza, c'è uno scopo, una filosofia
della storia? La filosofia della storia greco-romana è unanime nel negarlo:
da Senofonte a Cicerone, da Marco Aurelio a Plinio il Vecchio, la credono
caotica e senza senso. Ma Agostino e Boezio, fino a Tommaso e Bousset, sia
cristiani cattolici e Luterani, pensano al contrario: il fine della Storia è
Cristo ed il termine di essa medesima, segnata dalla Provvidenza e destinata a
cadere nelle mani Dio, soggetta al suo intervento nella Storia per Suo effetto.
La Storia per Agostino è frutto di un disegno impenetrabile. La fortuna e la
caduta dei popoli è un oscuro disegno che solo Dio può sapere. L'uomo ne
conosce solo i contorni, le fasi e ne coglie il senso alla fine di un percorso
solo in superficie di dolori e conflitti. Bayle - l'antagonista di Vico - la
vede invece come schiava di un Destino- caotico e negativo. Ma Vico e Villari
oppongono invece che essa manifesta in apparenza un destino avverso, ma
compensato dalla crescita del popolo, che sa trarre dal mito una buona linfa
per continuare a ritrovare il filo rosso che guida l'Uomo che lo fa
Soggetto della Storia rivolto alla rinascita. Ecco dunque la chiave per
rileggere il Medio Evo: non una prigione per l'Uomo, ma un tempo di
riflessione e di sotterranea rinnovamento, sballottato da epidemie, guerre e
disastri climatici che producono carestie e fughe dalle terre di origine. Circostanze
che però spingono l'Uomo ad avventure ritenute impossibili. I Vichinghi,
Colombo e Marco Polo rompono la stasi culturale dell'epoca. La Ragione come la
goccia, corrode le montagne: l'Uomo dopo la peste del '300 produce, Dante,
Lutero, Galileo, cioè l'Umanesimo, il Rinascimento, la Riforma. Questo è il
filo logico progressista che il razionalismo storico di Vico vede nell'azione
della filosofia che ha riportato l'uomo al centro della Storia. Vico col suo fare
cosciente, dopo secoli di vita incosciente, ha ritrovato il sapere dei
Greci e dei Romani; onde la sua Scienza nuova, che i Romantici
applicheranno nel diritto neogiurisdizionalista di Niebuhr, Müller, Savigny e
Ranke dopo la bufera napoleonica. Processo lineare verso l'alto che Villari
giudica prodromico, pur con qualche momento di crisi di ritorno al Dispotismo
assolutista, ma rimessosi nel binario del progresso proprio con la Rivoluzione
francese. Del resto, ai primordi del Romanticismo, il singolarismo letterario
che lo caratterizzò nell'età napoleonica ed oltre, aveva avuto un poeta legato
alla realtà dei popoli qual'era stato l'Herder, che più volte aveva ammonito l'amico
Goethe a considerare la Storia come un mosaico fra Natura, Linguaggio e Poesia,
saperi rivolti alla riscoperta dell'Uomo. Un netto rifiuto al meccanicismo
illuminista di Kant e di Fichte, dove prevalgono lo spirito causalistico e
soggettivista, ristretto dall'incombere dello spazio e del tempo che soffocano
la libertà dell'uomo. Il rischio dello Scetticismo e del rigetto di Dio -
Fichte dichiara: domani, o Signori; faremo Noi Dio! - preludono per
Villari all'Assoluto di Hegel, un insieme di Dio e di Uomo acquisito da
quest'ultimo nella dimensione dello Spirito che è coscienza di sé pensante in
divenire. In parole di Storico, il divenire della Storia a posteriori; il suo
esistere che consentirebbe quella ricostruzione degli eventi umani in assenza
di documentazione scritta o fisicamente comprovabile. Insomma, la teoria
dell'Uomo sempre unico per tutte le stagioni, vacilla nella realtà progressiva
e quindi la necessità di tenere le scienze morali e fisiche in costante
controllo per lo scopo di dare risposte alle domande della Storia. Villari
appare affascinato dal nuovo metodo storico, ma ne diffida perché la Ragione ne
risulterebbe addomesticata dall'Uomo stesso. Dove sta invece il mondo che
necessariamente lo condiziona, come già Marx aveva opposto allo stesso Hegel?
Il materialismo razionalista non può essere svalutato in quella necessaria
ricostruzione. Ecco perché Villari osa risalire alla sociologia di Comte ed
all'idea di Progresso che lo stesso Vico aveva mantenuto nell'idea di ricorsi
storici. Materialismo che scade nel machiavellismo nella sua
ricerca delle leggi positive che regolerebbero la conoscenza storica. Fino a
diventare utilitarismo economico, senza contare l'impressionismo
nelle arti figurative dove il Bello cede al Brutto ed al
difforme. Il dualismo fra fatti e valori, di Durkheim e Spencer, di Simmel e
Weber, ripropone le questioni iniziali sulla carenza di Spirito nel rinnovato
materialismo machiavellico, come la storiografia tedesca del Sombart e del
Meinecke già percorrevano, nel coro di coloro che caldeggiavano le politiche
espansioniste germaniche e russofile nel duello pericolosissimo fra le
ideologie pangermaniste, colonialiste e panslaviste, rappresentati in Italia
dal Crispi con le sue manovre politiche coloniaste in Africa Orientale ed in economia
protezionista, favoriva soltanto l'entrata di capitali tedeschi nel nostro
Paese. Solo che la questione meridionale, patrocinata da non pochi scritti
dello stesso Villari, con gli effetti di profonde migrazioni e la ripresa
economica del Paese, richiamata al fine di ricostruire la politica industriale
da parte del Capitale tedesco di cui si è accennato. Villari piuttosto
rimodellava la questione sociale e riapriva la terza questione critica,
quella del presente che occorreva spiegare col passato d'Italia.
Proprio dalla Germania veniva una voce di revisione della storia che
abbisognava di un grado ineluttabile di creatività artistica che l'Italia di
Vico aveva conquistato agli inizi del '700. Il genio critico vichiano non a
caso era riscoperto dal lato letterario da un sodale di Villari,
Francesco de Sanctis, che ripeteva nella storia della letteratura Italiana
lo stesso dilemma: critica estetica soggettiva od oggettiva? Limitarsi al testo
letterario o inquadrare l'autore nel contesto? Dante ed il suo secolo, o Dante
come spirito creativo assoluto? Come consentire un ponte fra passato e
presente? Nietzsche ha già ridotto il problema della nascita della
tragedia al di là della filologia razionalistica. Ed aveva una chiave
utilitaristica alla lettura del presente: chi vive delle glorie passate sarebbe
stato un infelice perché odiava il presente che lo ignora e ne ripete gli
errori. Chi invece faceva una storia elogiativa ed antiquaria era un vecchio
inutile perché melanconico. Chi poi si limitava all'oggi era un fanciullo
disadattato e materialista da illusioni perdute. Piuttosto, l'Uomo che vuole
trarre dalla storia un valore, deve avere certi i fatti per fare quello che il
Destino (o Dio) riserva all'uomo fin dall'ora presente. Ecco perché Villari
plaude al pensiero nicciano che vede una chiara prosecuzione del Vico. L'Italia
è una enciclopedia-storica vivente. L'ansia della storia ci assilla e perciò
per studiare il presente dobbiamo fare tesoro del passato. La politica per conto
suo deve progettare il futuro. Non vale nulla richiamare i fasti del passato,
come faceva il Nazionalismo dannunziano, mentre la crisi economica di fine
secolo produceva la reazione popolare e degenerava nella cannonate sui morti di
fame a Milano nelle tristi giornate del maggio del 1898. Forte fu perciò la sua
reazione alla pubblicazione di un saggio di metodologia della ricerca storica
di evidente favore sociologico e utilitarista, da parte dello storico Henry
Sidgwick, docente di psicologia morale al Cambridge nel 1886. Aderendo al
pensiero del positivista Spencer, lo storico predetto propose un metodo storico
utilitarista estendendo la nuova scienza utilitarista alla Storia. Come per le
leggi fisiche, anche l'etica soggiacerebbe a leggi scientifiche deterministe,
anche il Destino sarebbe ineluttabile, salvo ricorrere a scelte tattiche
machiavelliche a danno della collettività. In altre parole, il Colonialismo
sarebbe una scelta per evitare le crisi di produzione elevate non coperte dal
mercato interno e dunque la Gran Bretagna doveva necessariamente sfruttare le
risorse dei paesi colonizzati. Nondimeno, Sidgwick escludeva ogni rispetto
morale nella stessa politica di Governo e criticava la Storia etica quando il
Governo si soffermava dubbioso sulle questioni di tutela delle popolazioni
assoggettate. Il rigetto della Storia e dei suoi insegnamenti morali di
rispetto dei diritti umani e nessun riguardo per la coscienza a favore di una
Ragione più bieca, era l'unico mezzo per garantire la ricerca dalla pace e del
bene della maggioranza perbene, anche a danno di minoranze improduttive. Il
bene Comune sociale, che perfino la Chiesa Cattolica di Leone
tredicesimo aveva posto a fondamento della Pastorale con l'enciclica Rerum
Novarum, venne considerato un'utopia come quella di Tommaso Moro, difensore
della Chiesa cattolica. La ricchezza individuale era l'unico valore per quella
Società, dove ancora la servitù domestica era da proteggere, come ci
raccontavano Dickens, James, Conrad e perfino il giovane economista Keynes nei
suoi diari anteriori alla Prima Guerra Mondiale. La reazione di Villari al
meccanicismo amorale anglosassone ci appare nel saggio in esame di notevole
originalità. Anticipando la storiografia attuale - per esempio Calamandrei
(1939) e Carlo Ginzburg (2006) - il Nostro estende alla conoscenza storica la
teoria della casualità adeguata del fatto all'evento, corretta dal necessario
supporto morale. Richiamando Kant e la sua critica della Ragione Pura,
Villari ricordava come punto fermo che la Metafisica è sempre il regno
dell'irrazionale. Che a discutere di Storia spesso la Ragione non basta. Un
esempio per tutti: i grandi uomini di Carlyle spesso si perdono in
imprese razionalmente già assai difficili, come nel caso della spedizione in
Russia di Napoleone. Dunque il principio di causalità è assoluto nella
realtà naturale, ma nell'etica pubblica? Come ammettere uno Spirito privo
di causalità? Come accettare il fatto che la volontà umana è schiava pura della
Natura... Dalla Ragione Pura alla Ragione pratica, con una causalità
adeguata nella Ragione Pratica, moderata dalla morale nell'agire del mondo
sociale, dove l'agire umano deve tenere conto dell'Altro. Il cui rispetto - sia
che questo sia l'altro Uomo, che le Cose inanimate, diremo oggi per la materia
ambientale - la restringe e le pone il problema del minimo danno che la
creatività soggettiva deve comunque salvaguardare. Da notare che proprio Kant,
comprendendo il disagio di mantenere nella morale un minimo di relazione
causale contenuta dall'interesse esterno all'uomo, dirotta l'azione della
fantasia creativa alla terza opzione dell'Uomo, il giudizio critico
dell'arte. Il filosofo di Königsberg, forse influenzato da Leibnitz -
citato con chiarezza dal Villari - cita la musica come massima area dall'agire
inconsapevole dell'animo. Infatti il linguaggio che essa adotta - come del
resto quello della Fede - risulta ostico agli scienziati fisici e li predispone
a forme di ateismo spiccato. Ed infatti Villari è consapevole che la conoscenza
filosofica è cosa ben diversa dalla conoscenza storica e molto distante dalla
conoscenza scientifica, molto ben distinte dalle premesse Kantiane. Nel finale
dello studio - che creerà un solco a Destra con Croce ed un pari rifiuto a
Sinistra col Labriola - Villari ben distingue la Filosofia dalla Storia, la
prima delle quali per mezzo della Metafisica, fungerebbe da legame fra scibile
e mondo. Non è un caso che Coscienza e Volontà siano state legate nella ricerca
nel moto degli atomi, un Soggettivismo che fa dire al Fichte ditemi chi
siete e che vi dirò qual'é la vostra filosofia. E' vero che le scienze
naturali godono di una regolarità cui basta risalire per comprenderle ed
addomesticarle. Ma Kant - e Dilthey suo raffinato discepolo che Villari non
poteva non conoscere - ha operato quelle distinzioni che dettano al matematico,
al teologo, al musicista, il campo del loro agire, affinché non vengano a
confliggere nella vita quotidiana. Purtroppo, Vico aveva messo il dito nella
piaga: la chiarezza della loro separazione concettuale ed oggi distinta dalla
conoscenza iconica, dove l'oggetto è visibile nei limiti kantiani, mentre la
conoscenza proposizionale, dalla prima si distingue quando una proposizione è
vera in modo indiretto. Purtroppo, il limite fra Ragione e Sentimento, è nella
Storia come si è visto alquanto difficile. Bentham e Schopenhauer - sulla cui
scia il nostro Barbero ha osato proporre la scissione didattica fra Storia e
Filosofia accorpate da Gentile nelle Scuole Superiori fin dal 1923 - hanno
inteso sempre la storia come frutto di un che di irrazionale e sentimentale, quasi
una creazione intellettuale e letteraria, dandole un'anima poco razionale,
riducendo tutto a un duello fra Ragione ed appunto Destino immutabile. E se i
due protagonisti del pensiero in esame hanno tentato di dimostrare che la conversione
fra fatto e verità è un unicum tipico della storia, lo è perché la
narrazione non potrà che confermare come l'evento sia avvenuto, giudicandolo
nel significato e specificando i nessi ed il disegno generale di cui fa parte.
Tale procedimento rimane nella storiografia un'interpretazione più che
singolare cui la scuola francese da Bloch a Braudel dovrebbe essere grata.
Giuseppe Moscatt
Bibliografia
- Su Pasquale Villari, vd. GIOACCHINO VOLPE; Pasquale Villari, Milano,1940; GIOVANNI SPADOLINI, La Firenze di Pasquale Villari, ed. Le Monnier, 1989.
- Su Gaetano Salvemini, discepolo di P. Villari, cfr. i Suoi Scritti sul fascismo, in www.bibliotecaginobianco.it
- Sul rapporto con G.B. Vico, vd. PASQUALE VILLARI, Teoria e filosofia della storia, editori Riuniti, a cura di M. Martirano, 1999, pagg. 76 e ss.
- Ci permettiamo altresì di segnalare un Nostro intervento sul giornale Libertà Sicilia del 25 luglio 2019, Lieber Professor, egregio collega: Theodor Mommsen e Pasquale Villari, Un dialogo italo tedesco, dove le due personalità a cavallo dei due secoli scorsi ebbero un fecondo carteggio che aprì la strada alla più volte citata scuola storica francese degli Annales.
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