Introduzione alla metodologia dell’insegnamento delle lingue e letterature greca e latina con taglio europeo e topologico.
L'uomo che non conosce il latino somiglia a colui che si trova in un bel posto, mentre il tempo è nebbioso: il suo orizzonte è assai limitato; egli vede con chiarezza solamente quello che gli sta vicino, alcuni passi più in là tutto diventa indistinto. Invece l'orizzonte del latinista si stende assai lontano, attraverso i secoli più recenti, il Medioevo e l'antichità.-Il greco o addirittura il sanscrito allargano certamente ancor più l'orizzonte.-Chi non conosce affatto il latino, appartiene al volgo, anche se fosse un grande virtuoso nel campo dell'elettricità e avesse nel crogiuolo il radicale dell'acido di spato di fluoro"[1].
Si veda un ancora più esplicito svuotamento della sofiva tecnologica nel discorso di Diotima del Simposio platonico:"kai; oJ me;n peri; ta; toiau'ta sofo;" daimovnio" ajnhvr, oJ dev, a[llo ti sofo;" w[n, h] peri; tevcna" h] ceirourgiva" tinav", bavnauso"" (203a), chi è sapiente in tali rapporti[2] è un uomo demonico, quello invece che si intende di qualcos'altro, o di tecniche o di certi mestieri, è un facchino.
Avvicino, forse non arbitrariamente, quanto scrive Hegel nella Fenomenologia dello spirito: “il signore si rapporta alla cosa in guisa mediata, attraverso il servo”; il servo invece “col suo lavoro non fa che trasformarla”[3].
Perché studiare il greco e il latino, potrebbe chiederci un giovane, a che cosa servono? Alcuni rispondono:" a niente; non sono servi di nessuno; per questo sono belli"[4].
Non è questa la nostra risposta. Se è vero che le culture classiche non si asserviscono alla volgarità delle mode, infatti non passano mai di moda, è pure certo che la loro forza è impiegabile in qualsiasi campo. La conoscenza del classico potenzia la natura peculiare dell'uomo che è animale linguistico. Il greco e il latino servono all'umanità: accrescono le capacità comunicative che sono la base di ogni studio e di ogni lavoro non esclusivamente meccanico.
Chi conosce il greco e il latino sa parlare la lingua italiana più e meglio di chi non li conosce[5]. Sa anche pensare più e meglio di chi non li conosce.
Parlare male non solo è una stonatura in sé, ma mette anche del male nelle anime.
Lo afferma Socrate nel Fedone :" euj ga;r i[sqi…a[riste Krivtwn, to; mh; kalw'" levgein ouj movnon eij" aujto; tou'to plhmmelev", ajlla; kai; kakovn ti ejmpoiei' tai'" yucai'"" (115 e), sappi bene…ottimo Critone che il non parlare bene non è solo una stonatura in sé, ma mette anche del male nelle anime.
Don Milani insegnava che "bisogna sfiorare tutte le materie un po' alla meglio per arricchire la parola. Essere dilettanti in tutto e specialisti nell'arte della parola"[6].
Per essere specialisti in quest’arte bisogna saper parlare in modo preciso e conciso, e per raggiungere questo scopo ci vuole ricchezza, vastità e proprietà di lingua.
“Quanto una lingua è più ricca e più vasta, tanto ha bisogno di meno parole per esprimersi, e viceversa quanto è più ristretta, tanto più le conviene largheggiare in parole per comporre un’espressione perfetta. Non si dà proprietà di parole e modi senza ricchezza e vastità di lingua, e non si dà brevità di espressione senza proprietà” (Zibaldone, 1822).
Alfieri cercava di trovare per i suoi drammi “un fraseggiare di brevità e di forza”, traducendo “i giambi di Seneca” (Vita, 4, 2).
Chi non possiede la parola e non è in grado di persuadere ricorre alla violenza.
Se i bruti che maltrattano le donne sapessero parlare le corteggerebbero con delicatezza e non arriverebbero a forzarle in nessun modo.
Il sicuro possesso della parola è utile in tutti i campi, da quello liturgico a quello erotico : "Non formosus erat, sed erat facundus Ulixes/et tamen aequoreas torsit amore deas ", bello non era, ma era bravo a parlare Ulisse, e pure fece struggere d'amore le dee del mare, scrive Ovidio nell'Ars amatoria [7].
Kierkegaard cita questi due versi nel Diario del seduttore [8].
Nei versi precedenti Ovidio consiglia di imparare bene il latino e il greco, per potenziare lo spirito e controbilanciare l'inevitabile decadimento fisico della vecchiaia:"Iam molire animum qui duret, et adstrue formae:/solus ad extremos permanet ille rogos./Nec levis ingenuas pectus coluisse per artes/cura sit et linguas edidicisse duas" (Ars amatoria II, vv. 119-122), oramai prepara il tuo spirito a durare, e aggiungilo all'aspetto: solo quello rimane sino al rogo finale. E non sia leggero l'impegno di coltivare la mente attraverso le arti liberali, e di imparare bene le due lingue.
Il latino e il greco ovviamente. Senza con questo disprezzare altre lingue.
Le lingue studiate, tutte le lingue, ma in particolare il greco e il latino che non si parlano, vanno coltivate con uno studio privo di interruzioni.
Orazio nell’Ars poetica prescrive: “vos exemplaria Graeca/nocturna versate manu, versate diurna” (vv. 268-269), voi leggete e rileggete i modelli greci, di notte e di giorno.
II pericolo della dealfabetizzazione, il vocabolo stesso lo dice, è soprattutto incombente sul greco. Ma riguarda ogni studio che venga interrotto e trascurato. Cito a questo proposito alcune righe di una pregevolissima ricerca di Tullio De Mauro. L’illustre linguista ricava da “due grandi indagini internazionali, fatte nel 2001 e nel 2006, promosse da Statistics Canada e dal Federal Bureau of Statistics degli Stati Uniti” che “29% è l’accertata percentuale di italiane e di italiani con piena padronanza alfabetica e numerica”. E continua: “Il nostro paese non è l’unico a conoscere la dealfabetizzazione di adulti anche scolarizzati a livelli alti. Essa in parte è fisiologica: sappiamo che se non si esercitano le competenze acquisite da giovani a scuola, in età adulta regrediamo mediamente di cinque anni rispetto ai livelli massimi raggiunti. E’ la regola detta del “meno cinque”. Ogni adulto può comodamente verificarla su se stesso…dopo cinque anni di greco, quanto ce ne resta se non facciamo i professori della materia e i classicisti?”.
De Mauro nota che “in tutti i paesi sviluppati esistono strutture e centri per l’educazione permanente degli adulti, che consentono a percentuali consistenti di popolazione di rientrare in formazione. L’esperienza dice che un ciclo anche breve è prezioso per riattivare buona parte delle competenze smarrite. Ottenere che come altri paesi europei anche l’Italia si doti di un sistema nazionale di lifelong learning, di apprendimento per tutta la vita, è per ora un miraggio”[9].
Il consiglio che posso riproporre è quello già dato da Ovidio che la cura di queste due lingue, come di tutte le altre competenze acquisite a scuola, non sia levis.
Non si può essere veramente bravi a usare la parola, utilizzabile sempre e per molti fini, tutti sperabilmente buoni, se non si conoscono le lingue e le civiltà classiche, ossia quelle dei primi della classe.
Il termine classicus designava il cittadino che apparteneva alla classis più elevata dei contribuenti fiscali; "solo per traslato uno scrittore del II secolo d. C., Aulo Gellio, definisce "classicus scriptor, non proletarius" uno scrittore "di prim' ordine", non della massa" (Noctes Atticae 19. 8. 15; cfr. 6. 13. 1 e 16. 10. 2-15), o (forse meglio) "buono da essere letto dai classici (i contribuenti più ricchi), e non dal popolo"; classicus è ulteriormente definito come adsiduus (altra designazione di censo, "contribuente solido e frequente") e antiquior ; l'anteriorità al presente è dunque requisito della "classicità"[10].
Noi vorremmo che tutti potessero conoscere i classici attraverso una scuola che fosse nello stesso tempo popolare e di alta qualità.
Il greco e il latino infatti, tanto come lingue quanto come culture, sono utili non solo a scuola, e il loro impiego non è confinato nei licei e nella Accademie.
Si può pensare a una conferenza, a una sceneggiatura cinematografica, alla redazione di un articolo di giornale, a una recensione, a una diagnosi, a una prognosi medica, a qualunque attività insomma che richieda un impiego non banale, non volgare della parola: la civiltà classica dota chi la conosce di una miniera di topoi, frasi, metafore, immagini, idèe preziose che valorizzano il tessuto verbale e allargano la visione d’insieme fino a renderla panoramica.
I topoi o loci sono argomenti utilizzabili in molte occorrenze e necessità Nel De inventione[11] il giovane Cicerone aveva definito i loci communes: "argumenta quae transferri in multas causas possunt" (2, 48), argomenti che si possono utilizzare per molte cause. Sono strumenti del parlare e dello scrivere.
Sul vocabolo argumentum aggiungo una riflessione di Bettini:"Argumentum è qualcosa che realizza il processo dell'arguere, produce quella rivelazione che il verbo implica…Una buona via per scendere più in profondità nel significato di queste parole è costituita dagli usi dell'aggettivo argutus che ad arguo è ugualmente correlato. In molti casi infatti l'aggettivo argutus indica ciò che va a colpire i sensi con particolare forza[12] (…) Parole come arguo, argumentum, argutus, non possono che ricollegarsi a una forma *argus che significa "chiarità" o "chiarezza". Si tratta infatti della stessa radice *arg- che ritroviamo nel greco ajrgov" "chiaro, brillante" e nell'ittita hargi " chiaro, bianco". In latino, da questa stessa radice derivano anche argentum (metallo brillante) argilla "("terra bianca")"[13]. Quindi argumentari latino e argomentare italiano, discutere portando argomenti a sostegno.
Possiamo anche ricordare il verbo inglese to argue, “discutere” e “provare”.
I tovpoi costituiscono i serbatoi non solo della retorica ma anche della letteratura e dell'arte in genere.
I tovpoi sono argumenta che, ricorrendo nella cultura europea, ne rivelano l'unità.
Io intendo e impiego i topoi come idee, frasi, versi belli e pieni di forza, tanto estetica quanto etica, comunque una forza rivelatrice.
I ragazzi provano interesse e gioia nel sentire parole belle e vere, insomma parole che sono tasselli di opere d’arte:" l'arte è il fatto più reale, la più austera scuola di vita, e il vero Giudizio finale"[14].
Perfino i criminali provano gioia per le parole belle, finanche gli animali.
Erodoto racconta di un grandissimo prodigio (qw`ma mevgiston[15]) capitato ad Arione, il primo fra gli uomini che compose un ditirambo, gli diede il nome e lo fece rappresentare a Corinto, al tempo del tiranno Periandro ( inizio VI secolo).
Questo poeta dunque viaggiava su una nave corinzia per tornare da Taranto a Corinto. Ma i marinai in alto mare complottarono per gettarlo in acqua e prendersi le sue ricchezze. Arione li pregò di non ammazzarlo almeno, ma quei farabutti gli concessero solo di uccidersi da solo, saltando in mare se voleva. Allora Arione chiese di poter cantare stando in piedi tra i banchi della nave jen th`/ skeuh`/ pavsh/ , con tutta la sua acconciatura, promettendo che dopo il canto si sarebbe ucciso.
Allora quelli si sentirono invadere da senso di gioia (kai; toi'si ejselqei'n hJdonhvn[16]) al pensiero che stavano per udire il migliore di tutti i cantori, e si ritirarono, dalla prua, verso il centro della nave. Arione, indossato tutto il suo abbigliamento, ritto tra i banchi, eseguì il canto nel tono elevato (novmon to;n o[[rqion), quindi si gettò in mare, vestito com’era. A questo punto intervenne un delfino che, evidentemente affascinato anch’esso dal canto del poeta, lo prese sopra di sé e lo portò fino a capo Tenaro (to;n delfi``na levgousi uJpolabovnta ejxenei`kai ejpi; Taivnaron) .
Orfeo con il suo canto riusciva a commuovere addiritture le tenui ombre dei morti e le loro dimore, le Eumenidi, e Cerbero, e a fermare la ruota di Issione[17]. Tale è l’incanto delle parole, in questi casi accompagnate dalla musica, ma non dimentichiamo che la civiltà dei Greci e dei Latini è logocentrica e, nel rapporto tra parola e musica, questa è ancilla verbi.
Quindi, tornando a noi, credo che ricordare le sentenze belle degli auctores, e citarne brani delle opere mostrandone la carne viva, significhi imparare a esprimersi non senza bellezza e, quindi, trovare e riconoscere qualche cosa di bello in noi stessi.
Questo per quanto riguarda il campo dell’efficacia e della bellezza.
Ma c’è pure, e forse anche prima, la categoria dell’etica. Si pensi alla crasi kalokajgaqiva.
Quello dei Greci era : “un popolo che, eziandio nella lingua, faceva pochissima differenza dal buono al bello” (Leopardi, Detti memorabili di Filippo Ottonieri ).
Non si può essere nemmeno morali se non si conoscono a fondo i princìpi e i valori dell’etica classica.
Questa non penalizza la felicità, che anzi deve essere associata alla moralità. Fare bene e stare bene, avere successo, come si sa, coincidono.
Essere felici secondo Strabone, geografo dell'età di Augusto, è un atto di pietas :"gli uomini imitano benissimo gli dèi quando fanno del bene, ma si potrebbe dire ancor meglio quando sono felici (o{tan eujdaimonw'si)"[18].
C’è una interdipendenza tra etica e felicità: " sostengo che non vi è profonda felicità senza morale profonda"[19].
Felicità è anche coscienza di sé, realizzazione e compimento della propria natura, identità di potenza e atto. Per ottenere tali risultati è necessario comprendere a fondo che cosa essenzialmente siamo.
Per autorizzare questa mia convinzione, utilizzo Eraclito che scrive: “ho indagato me stesso”[20], e mi faccio aiutare da Sofocle i cui personaggi affrontano ogni difficoltà e qualunque rischio per sapere chi sono, quindi per non smentire la propria identità. Il “conosci te stesso”[21] scritto sul tempio di Delfi e il “diventa quello che sei” di Pindaro[22] esprimono il medesimo pensiero.
Oggi, in questo guazzabuglio di idiomi mal conosciuti e parlati male, si rischia di perdere l’dentità, linguistica e umana, di non sapere più parlare bene nemmeno una sola lingua, e, quello che è peggio, di non sapere più chi siamo.
Le due lingue classiche con le loro letterature, ci danno un ancoraggio sicuro, al riparo dal fluttuare nella indeterminatezza amorfa o deforme del parlare di uso comune, una chiacchiera, spesso uno sproloquio, che riflette una scarsa aderenza persino alle realtà più evidenti e naturali.
E’ necessario salire di qualche gradino per uscire dal pantano della parola incolore, o addirittura insensata, del luogo comune trito che molti usano per nascondere la propria ignoranza, mentre invece la rivela, e denuncia la pochezza mentale di chi rumina il sentito dire senza sottoporlo a giudizio critico.
Autorizzo questa mia conclusione attraverso Seneca:"nulla res nos maioribus malis implicat quam quod ad rumorem componimur " (De vita beata , 1, 3), nessuna cosa ci avviluppa in mali maggiori del fatto di regolarci secondo il "si dice".
Riporto una espressione di O. Wilde nella cui filigrana si può leggere Seneca: “La morale moderna consiste nell’accettare i luoghi comuni della nostra epoca, ed io credo che per un uomo colto l’accettare i luoghi comuni della propria epoca sia la più rozza forma di immoralità”[23].
La conoscenza della paideia classica è anche una difesa dal veleno della pubblicità che cerca di colonizzare e intossicare i nostri cervelli.
Un altro antidoto a tanto veleno può essere la natura: osservare il cielo splendente, guardare le sorgenti dei fiumi, notare l’innumerevole sorriso delle onde marine e amare la terra madre di tutti noi[24].
Bologna 13 novembre 2024 ore 19, 13 giovanni ghiselli
p. s.
questa sera dalle 21 Matteo Zuppi e Ivano Dionigi parleranno nel salone Bolognini di San Domenico sul tema : “Parole non armi”. Vorrei andarci e intervenire sul tema che mi sta a cuore ma fa molto freddo, non ho l’automobile e anche la bicicletta è in pessimo stato. Non so se riuscirò a giungere fin là. Metto comunque a disposizione dei miei lettori la forma estesa dell’intervento che presenterò in forma sintetica se mi sentirò di affrontare il buio e il gelo di questa notte
Bologna 13 novembre 2024 ore 19, 31 giovanni ghiselli
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[1] A. Schopenhauer, Parerga e paralipomena, Tomo II, p. 772.
[2] Quelli tra gli uomini e gli dèi.
[3] Fenomenologia dello spirito (del 1807) . Capitolo 4 (A)
[4] Il greco e il latino, la religione e la matematica “Erano-e l’insegnante lo faceva notare spesso-del tutto inutili apparentemente ai fini degli studi futuri e della vita, ma solo apparentemente. In realtà erano importantissimi, più importanti addirittura di certe materie principali, perché sviluppano la facoltà di ragionare e costituiscono la base di ogni pensiero chiaro, sobrio ed efficace” (H. Hesse, Sotto la ruota (del 1906), p. 24.
[5] Vittorio Alfieri nella sua Vita (composta tra il 1790 e il 1803) racconta di avere impiegato non poco tempo dell’inverno 1776-1777 traducendo dopo Orazio, Sallustio, un lavoro “più volte rifatto mutato e limato…certamente con molto mio lucro sì nell’intelligenza della lingua latina, che nella padronanza di maneggiar l’italiana” (IV, 3).
[6]Lettera a una professoressa , p. 95.
[7] II, 123-124. Bello non era ma era bravo a parlare Ulisse e pure fece struggere d'amore le dee del mare.
[8] 3 giugno (p. 75).
[9] Tullio De Mauro, La scuola italiana in sette punti in Italia, Italie. Lezioni sulla storia dell’Italia unita, p. 125. Edizioni Polistampa, Regione Toscana, 2013
[10] S. Settis, Futuro del "classico", p. 66.
[11] Trattato in due libri, dell'84 a. C.
[12] Cfr. Thesaurus linguae latinae, II, 557, 48 sgg,
[13] M. Bettini, Le orecchie di Hermes, p. 297 e p. 299.
[14] M. Proust, Il tempo ritrovato (uscito postumo nel 1927), p. 211.
[15] Erodoto, Storie I, 23.
[16] I, 24, 5.
[17] Cfr. Virgilio, Georgica IV, vv. 472-484
[18] Strabone (64 ca a. C.-24 ca d. C.), Geografia, X, 3, 9.
[19]R. Musil, L'uomo senza qualità , p. 846.
[20] ejdizhsavmhn ejmewutovn", fr126 Diano
[21] Gnw`qi seautovn.
[22] gevnoio oi|o~ ejssiv" Pitica II v. 72.
[23] Il ritratto di Dorian Gray, p. 88.
[24] Cfr. Eschilo, Prometeo incatenato, vv-88-90
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