Sempre nel 64 l’incendio Sequitur clades, forte an dolo principis incertum (Tacito, Annales, XV, 38) segue un disastro non si sae per caso o per dolo del principe.
Durò dal 19 al 27 luglio.
Alcuni notarono che l’incendio scoppiò nello stesso giorno quo Senones captam urbem inflammaverint (Annales, 15, 41) Nel 390 a. C. , il 18 luglio, i Romani erano stati sconfitti sul fiume Allia poco a nord di Roma. Livio (6, 1, 3 ss.) e Plutarco (Vita di Camillo, 32, 3) raccontano la ricostruzione caotica di Roma dopo l’incendio gallico.
La ricostruzione del 64 fu tutt’altra cosa
Cluvio Rufo scagiona Nerone, mentre lo colpevolizzano Fabio Rustico, Plinio il Vecchio (N. H., 18, 1) e l’autore dell’Octavia (831-833; 857). Così anche Svetonio (Nero, 38) e Cassio Dione (62, 16-18) che lo accusano di aver avuto il movente della ricostruzione di Roma secondo i propri desideri.
Tacito dà entrambe le interpretazioni, quella innocentista di Cluvio Rufo, e quella colpevolista di Fabio Rustico
Tacito afferma che è incertum se l’incendio sia avvenuto forte, per caso, an dolo principis, o per un calcolo malvagio dell’imperatore (XV, 38).
Nam utrumque auctores prodidēre, infatti gli storici hanno tramandato entrambe le versioni.
Questa esitazione dello storico più grande, e non certo benevolo, è un indizio di innocenza.
La città era esposta (obnoxia) a tale flagello, artis itineribus hucque et illuc flexis atque enormibus vicis, qualis vetus Roma fuit, essendo i suoi percorsi stretti da una parte, e dall’altra tortuosi e con agglomerati di case irregolari. Inoltre ostacolavano i soccorsi lamenta paventium feminarum, i vecchi e i bambini. Poi gli sciacalli che attizzavano l’incendio (faces iaciebant) dicendo di averne ricevuto l’ordine, mentre volevano rubare.
Il fuoco divorò anche il Palatium e Nerone, che si trovava ad Anzio, tornò a Roma (15, 39). Per soccorrere il popolo hortos etiam suos patefecit, aprì persino i suoi giardini.
Ma si era sparsa la voce che egli fosse entrato nel teatro della sua residenza et cecinisse Troianum excidium (XV, 39).
Insomma Nerone strimpellava mentre Roma bruciava.
L’incendio dopo una pausa, riprese, scoppiando da una proprietà di Tigellino e sembrava che Nerone aspirasse alla gloria condendae urbis novae et cognomento suo appellandae (15, 40).
Nerone si fece costruire la domus aurea dagli architetti Severo e Celere quibus ingenium et audacia erat etiam quae natura denegavisset per artem temptare (15, 42), i quali avevano concezioni così audaci da tentare con l’arte anche quello che la natura aveva negato.
La nuova dimora di Nerone stava inghiottendo la città.
L’audacia degli artisti.
Cfr. Satyricon:" pictura quoque non alium exitum fecit, postquam Aegyptiorum audacia tam magnae artis compendiariam invenit " (2, 9), anche la pittura non ha avuto risultato diverso dopoché la sfrontatezza degli Egiziani ha trovato la scorciatoia di un'arte tanto grande. Intanto notiamo il biasimo dell'audacia che nei tradizionalisti non manca mai. La tecnica compendiaria viene di solito attribuita al cosidetto terzo stile pompeiano. Si può vedere un esempio di tale tecnica nella casa dei Vettii[1].
La domus aurea si estendeva sulla città
Tacito dice che Nerone usus est patriae ruinis, utilizzò la rovina della patria per la sua domus aurea, e che non tanto stupiva per la profusione di gemme e oro, solita pridem et luxu vulgata, ornamenti già comuni e diventati di moda con il lusso, quanto arva et stagna, campi coltivati e laghetti, e alla maniera dei luoghi non abitati, in modum solitudinum, hinc silvae inde aperta spatia, da una parte selve, dall’altra spazi aperti e panorami.
La natura è il paradiso perduto dei moderni uomini civilizzati. Nelle città si cercava l'avvicinamento alla natura con mezzi artificiali: i Tolomei fecero piantare giardini e boschetti ad Alessandria; ad Antiochia i Seleucidi fecero costruire passeggiate con giochi d'acqua. Nel II d. C. Adriano farà ricostruire a Tivoli la valle di Tempe. Ad Alessandria fu costruita una collina artificiale e i templi si costruivano a contatto con la natura in boschi o su promontori marini; del resto gli antichi templi di Dodona, di Delfi, di capo Sunio erano già tali. Anche i privati si fanno costruire case con giardini e fontane, e si fanno affrescare con paesaggi le pareti delle case. L'arredamento è più curato rispetto all'età classica quando interessava meno poiché si passava la vita fuori di casa. Allora la plastica si occupava essenzialmente del corpo umano; in epoca ellenistica troviamo accenni paesaggistici anche nelle sculture, come il Fauno Barberini (III sec. a. C.) steso su una roccia.
Un’altra fonte letteraria è un epigramma di Marziale che celebra l’anfiteatro Flavio costruito nel luogo della Domus Aurea (De spectaculis, 2)
“Nerone fu un grande costruttore. Tutto lo spingeva a costruire, e a costruire sontuosamente: la sua megalomania, il suo gusto per la prodigalità, un assolutismo fondato sulla virtù regale ed ellenistica-quella di quei grandi costruttori che erano stati i successori di Alessandro e dei re Parti-, e infine la nuova scala dei valori, che esigeva un nuovo ambiente… Portò a termine la costruzione del porto di Ostia, cominciata sotto Claudio… Verso il 62 Nerone progettò anche di unire Ostia a Roma e di incorporare il porto nella capitale, facendo costruire una cinta muraria simile alle Lunghe Mura da Atene al Pireo” (Cizek, p. 274).
Un progetto però mai realizzato.
“Questo ardimento, la parola latina audacia rende solo imperfettamente ciò che contiene di sfrenato, di fuori misura, di smodato. L’audacia neroniana è in un certo modo il frutto di un incontro fra la pulsione di un uomo e un modo di guardare il mondo e di agirvi, una Weltaschauung, nel caso specifico la cultura greca, ellenistica e orientale…Il codice socio-culturale che Nerone volle imporre poggiava su due parole base, una greca, l’altra latina: ajgwvn e luxus …i metavalori che, nello spirito dell’imperatore e dei suoi partigiani, dovevano prendere il posto della pietas e della fides…L’ajgwvn in greco, è il gioco, il concorso; è anche il luogo dove questi giochi si svolgono e ove gli spettatori si radunano per assistervi…La soddisfazione che si ricava dall’ajgwvn è disinteressata…Siamo lontani dal certamen romano in cui l’emulazione non ha senso se non perché è al servizio della cittadinanza. Tacito considerò i giochi neroniani come un vero e proprio snaturamento del certamen tradizionale. Così, descrivendo i giochi Juvenali del 59, si indigna dinanzi al “pullulare di scandali e di infamie” e a “quella gara di vizi”-certamina vitiorum- di cui i giochi, “cloaca impura”, furono occasione (Ann. 14, 15, 5). Facciamo presente che Tacito non usa il termine ajgwvn. Come è sua abitudine, evita le parole greche, preferendo-preferenza dello scrittore, ma anche del moralista-ricorrere alle risorse lessicali del latino; per esempio a un sinonimo quando evoca le ludicrae artes neroniane- le arti della scena, là dove intende menzionare in realtà qualcosa di più del semplice palcoscenico teatrale (ibid., 14, 16, 1). Svetonio non ha la stessa cura. Impiega perfino la parola ajgwvn, ma sempre, l’abbiamo detto, per riferirsi a Nerone o alla Grecia” (Cizek, p. 146-148).
Su questo argomento sentiamo Leopardi il quale (Zibaldone , 328-329) nota la differenza "tra i giuochi greci e i romani" per mettere in rilievo"la naturalezza dei primi che combattevano nella lotta nel corso ec. appresso a poco coi soli istrumenti datici dalla natura, laddove i romani colle spade e altri istrumenti artifiziali. E quindi la diversa destinazione di quei giochi, diretti presso gli uni ad ingrandir quasi la natura ed eccitare le grandi immagini, sentimenti ec.; presso gli altri o al semplice sollazzo, o all'addestramento militare…E questa differenza è anche più notevole in ciò che gli spettacoli greci erano eseguiti da uomini liberi per amor di gloria. Quindi l’effetto favorevole all’entusiasmo, l’eccitamento, l’emulazione, gli esercizi preparatorii ec. Gli spettacoli romani erano eseguiti da servi".
Torniamo a Cizek: “Luxus…è una parola latina. E’ sinonimo di fasto e di splendore, di eccesso e anche di dissolutezza, tutti significati che il neronismo interpretò a suo modo, facendosene anche titolo di gloria” (p. 147).
La ricostruzione comunque dispose i caseggiati in modo regolare, con vie più larghe e portici a protezione delle facciate. Alcuni tuttavia rimpiangevano le vie strette che non facevano entrare la vampa del sole. Si compirono riti espiatori e si consultarono i libri sibillini: ma nonostante i riti espiatori e la generosità di Nerone non spariva la voce infamante che che l’incendio fosse stato ordinato da Nerone sed non decedebat infamia quin iussum incendium crederetur (15, 44).
Infine si diede la colpa ai cristiani.
Svetonio racconta che già Claudio li aveva cacciati confondendoli con i Giudei: “Iudaeos, impulsore chiesto, assidue tumultuantes Romā expŭlit (Vita di Claudio, 25).
Allora Nerone de la colpa a loro e sottopose a tormenti quos, per flagitia invisos, vulgus Christianos appellabat. Auctor nominis eius, il fondatore di questa setta, Christus, Tiberio imperitante, per procuratorem Pontium Pilatum supplicio adfectus erat; repressaque in praesens exitiabilis superstitio rursum erumpebat, non modo per Iudaeam, originem eius mali, sed per urbem etiam quo cuncta undĭque atrocia aut pudenda confluunt celebranturque, (Annales, XV, 44 ) confluiscono e si divulgano.
Vennero processati quelli che confessavano, poi, in seguito alle loro denunce, una grande moltitudine: haud proinde in crimine incendii quam odio humani generis convicti sunt , si dimostrò che erano colpevoli non tanto del delitto di incendio, quanto di odio del genere umano.
Inoltre addita ludibria: fu aggiunto lo scherno: i cristiani venivano dilaniati dai cani o crocifissi e incendiati. Nerone aveva offerto i suoi giardini e si mescolava alla folla vestito da auriga.
“I cristiani” argomenta Renan[2]…”non incendiarono Roma ma certamente ne gioirono. Essi agognavano la fine della società. Nell’Apocalisse le preghiere segrete dei santi bruciano la terra e la fanno tremare. Potremmo insomma definire i cristiani incendiari col desiderio”[3].
Svetonio afferma che Nerone incendit urbem palam (38), fu il palese incendiario. Un tale, durante una conversazione, disse: “ejmou' qanovnto~ gai'a micqhvtw puriv, la terra si unisca con il fuoco. Ed egli: “immo, inquit ejmou' zw'nto~. Quindi contemplava l’incendio dalla torre di Mecenate, ed era laetus flammae pulchritudine, quindi Halōsin Ilĭi in illo suo scaenico habitu decantavit. a{lwsi~, presa.
“Si addebita a Nerone, come prova della sua colpa, quello che fu invece un suo merito: l’aver ricostruito Roma molto più bella, secondo criteri urbanistici più razionali, più funzionali, adottando, oltretutto, una serie di intelligenti misure antincendio per metterla al riparo”[4] da altre catastrofi simili.
Nerone si appoggiava al favore del popolo e non poteva volere il suo odio. Fini ricorda che Tacito racconta che il tribuno Subrio Flavo pensava di uccidere Neronem in scaena canentem, oppure mentre per noctem huc illuc cursaret incustoditus (15, 50). Tacito però non dice che si trattava della notte dell’incendio.
Bologna 3 novembre 2024 ore 19, 04 giovanni ghiselli
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