Entro nel museo dell’Acropoli di Atene. Vedo animali feroci duellanti a scannarsi. Mi fanno pensare a persone dalla natura e dalla misura lontane da quella umana. Le ho vista in casa, a scuola, sulla spiaggia, in pianura e sui monti. Pseudo uomini e pseudo donne. Ineducabili: ce l’ho messa tutta ma le mie fatiche umanamente spese per tali Calibani sono andate tutte perdute.
Procedo e noto alcune fanciulle dai sorrisi sbarrati. Mi sembrano senza pensiero queste Kovrai, quindi carenti di vita interiore. La sembianza umana nelle figure del sesto secolo hanno forme statiche e rigide.
Tali le mie prime amanti che non stimolavo, non aiutavo a pensare siccome non ne ero davvero capace nemmeno io.
Helena me lo ha insegnato dicendomi: “io non sono materia”. Non era giovane come Ifigenia, né studiosa come Päivi, né colta come Kaisa, ed era incinta di un altro, eppure è stata la migliore di tutte. Una donna libera come Parthenope.
Il suo nome rimane legato alla sfera del sacro.
Poi vedo un’Atena che tiene un serpente in mano e minaccia un nemico pazzo e smisurato. Questa donna bella e scomposta mi fa venire in mente certe mie consanguinee, talora furenti e incapaci di contenere l’ira in forme ordinate. Ho cercato di educare anche loro. Ci sono in parte riuscito.
E ne sono stato educato osservandole e imparando quanto mi era davvero congeniale della mia stirpe, e, altresì, quanto non dovevo siccome non si addiceva a me. Da bambini osserviamo gli adulti in casa e criticamente scegliamo di imitarli in quello che ci piace di ciascuno di loro poiché ci è connaturato. Dalle zie Rina e Giulia, maestre all’estero, ho preso l’amore per la scuola anche straniera , dalla mamma l’autonomia consentita dalla capacità e volontà di stare soli, dal nonno lo sport e l’adorazione del sole, dalla nonna Margherita ho ricevuto il soccorso della grande benevolenza con la quale mi incoraggiava. Le piacevo perché assomigliavo a suo marito Carlino e pure a suo padre. Voleva lasciarmi tutti i suoi poderi ma non potè farlo perché aveva sei figli. Della terra che è mi è arrivata grazie alla mamma e alle zie non ho venduto una zolla per gratitudine a loro.
Magari la regalerò ai poveri.
Procedo. L’immagine più ordinata e altamente umana di questo museo è un’Atena pensosa del quinto secolo. Ha un volto spirituale, un corpo coperto da un peplo che lo lascia immaginare ben fatto. Tiene la faccia china sulla mano sinistra che stringe una lunga lancia appoggiata a un angolo formato dal suolo e da un corto pilastro. La destra è posata sul fianco. In testa ha un elmo sormontato da un cimiero. Mi appare forte, riflessiva e sicura di sé.
Come Päivi appena la vidi il 19 luglio del 1974. Gli artisti raffigurano sempre le nostre vite, quelle di tutti. Ho iniziato da bambino riconoscendo le mie pene negli affanni di Leopardi e ho continuato così, con ogni autore che scrivendo di sé scrive anche di me.
Nella Parthenope di Sorrentino ho riconosciuto le mie compagne migliori e me stesso.
Questa Atena è bella senza esibizione, è forte ma non grossolana, è pensante ma tutt’altro che indebolita dal pensiero inutile e inefficace.
“Amiamo il bello con semplicità e la cultura senza mollezza”, ricordai
Päivi, sì Päivi. Quando le dissi, per attirarla con una lusinga: “ti trovo, interessante, speciale”, mi rispose da gran signora: “Proprio me?”.
La amai. Eravamo nel luglio del 1974 il giorno del suo ventiquattresimo compleanno. Io mi avvicinavo ai trenta, età della svolta.
Cominciavo a sapere quello che volevo: diventare il professore di liceo più bravo di Bologna 11 anni dopo avere concluso il liceo Terenzio Mamiani di Pesaro dove ero stato lo studente più bravo. La studiosa Kaisa, poi Päivi mi avevano ripetuto questa lezione che avevo ricevuto fin da bambino dalle zie maestre. Ma circondata da un alone sacro è rimasta Helena.
Esco dal Museo dell’Acropoli
Bologna 4 novembre 2024 ore 16, 13 giovanni ghiselli
p. s.
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