Nel traghetto non abbiamo trovato una cabina libera
e ci siamo adattati a dormire stesi per terra dentro un sacco a pelo per
difenderci dal freddo mefitico dell’aria condizionata. Dopo la notte passata con tanta pietà, la
mattina del 18 luglio le membra erano
dolenti e il cervello mal riposato.
Seguito la contaminatio con il viaggio del 1978
Il sogno sul traghetto
La notte tra il 19 e il 20 agosto del 1978, mentre dormivamo nell’angusta cabina che solcava le onde dell’abisso salato, feci un sogno angoscioso.
Io e Ifigenia ci amavamo con
passione impetuosa. A un tratto, dalla mia bocca
uscirono schizzi di calce viva che in breve tempo corrosero gli occhi della
ragazza lasciandole due buchi profondi fin dentro la testa. Ifigenia mi
rimproverava con un singhiozzo; poi, senza ascoltare le mie invocazioni,
indossato un mantello, si allontanava incamminandosi per una via deserta,
sorvolata da uccelli strani, mai visti, che schiamazzavano con fragore cattivo,
si agitavano rabbiosamente e sembravano volere qualche cosa con furibonda
violenza: infatti, a un tratto, si lanciarono addosso alla fanciulla già orbata
e presero a beccarla sulla testa, nel volto, sulle piccole mani protese in un
tentativo di vana difesa; altri si diedero a duellare squarciandosi i petti a
vicenda, altri si laceravano il corpo da soli con il becco aguzzo, oppure
scagliandosi contro pezzi acuminati di ferro. Dopo qualche minuto Ifigenia, non
potendo difendersi dai colpi di quei rostri furenti, si mise a scappare con
tutte le forze che le rimanevano; allora il mantello le cadde di dosso, e il
suo splendidissimo corpo apparve più luminoso che mai sotto la testa sconciata
da quelle bestie pazze e crudeli. La vedevo correre nuda, veloce, lontana dagli
uccelli assassini e speravo che, perduta la testa, potesse salvare almeno il
corpo splendente; ma ecco che, invece, la carne delle braccia tornite, del
collo liscio, del florido seno, delle cosce morbide, profumate e lucenti,
cominciò a liquefarsi, a gocciolare, non come un sudore acquoso, bensì come un
grasso opaco, denso, biancastro che scivolava copiosamente nel suolo
impregnandolo e fertilizzandolo. In poco tempo la polpa del corpo si ridusse a
una povera buccia grinzosa, quindi venne annientata da quello struggimento
crudele: dalle gocce cadute a terra però spuntarono piccole rose rosse,
socchiuse da foglie lucenti, sorrette da gambi diritti e sottili, umide di
fresca rugiada, illuminate da un sole mattutino e primaverile: nitide di
verginale bellezza. Cercai di coglierne una per tenderla a Ifigenia e dirle:
“Tu per me sei ancora simile a questa”. Ma il gambo era di ferro e non riuscivo
a spezzarlo. Intanto la mia amante,
ridotta allo scheletro solo, si era fermata in mezzo al giardino nato dalla sua
carne versatasi completamente nel suolo. Finalmente rivolse la testa dalla mia
parte e mi fissò con le occhiaie, manifestando immenso rimpianto delle sue
membra liquefatte e del nostro amore sconciato. Io volevo avvicinarmi alla
miseranda figura per consolarla: con la mano destra cercavo di accarezzare il
povero teschio, con la sinistra indicavo il variopinto giardino nato dal suo
struggimento; ma Ifigenia, prima che potessi toccarla, disse con un filo di
voce: “Lascia perdere, amore. Non vedi che sono già morta?”
Mi svegliai con stanchezza e dolore. Il Signore di Delfi, che, devoti, andavamo a pregare, mi aveva mandato una visione notturna dal contenuto latente facile da svelare: volevo la morte della mia compagna o per lo meno un suo rinnovamento. Così com’era non potevo più tollerarla. Mi posi gli occhiali sul volto e cominciai a scrivere il sogno mentre l’odiata-amata compagna dormiva ancora. Una volta non avrei aspettato il suo risveglio senza mettermi le lenti a contatto: a lei con gli occhiali non piacevo punto, e a me non piacerle sembrava il peccato più deprecabile: peggiore della stupidità, della volgarità e del crimine stesso. Infatti quando si svegliò e mi vide con gli occhi invetriati, intuì che non stavo annotando pensieri propizi. Mi guardò un momento, poi disse a bruciapelo che non avrebbe più fatto l’amore con me poiché le confondeva la mente.
Mi svegliai con stanchezza e dolore. Il Signore di Delfi, che, devoti, andavamo a pregare, mi aveva mandato una visione notturna dal contenuto latente facile da svelare: volevo la morte della mia compagna o per lo meno un suo rinnovamento. Così com’era non potevo più tollerarla. Mi posi gli occhiali sul volto e cominciai a scrivere il sogno mentre l’odiata-amata compagna dormiva ancora. Una volta non avrei aspettato il suo risveglio senza mettermi le lenti a contatto: a lei con gli occhiali non piacevo punto, e a me non piacerle sembrava il peccato più deprecabile: peggiore della stupidità, della volgarità e del crimine stesso. Infatti quando si svegliò e mi vide con gli occhi invetriati, intuì che non stavo annotando pensieri propizi. Mi guardò un momento, poi disse a bruciapelo che non avrebbe più fatto l’amore con me poiché le confondeva la mente.
Pesaro 31 luglio 2023 ore 17, 09
giovanni ghiselli
p. s.
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