La reputazione. Civiltà di vergogna e civiltà di colpa. Il potere insindacabile del tiranno. Il successo. Imprevedibilità della vita umana.
Il cedimento alla pressione del conformismo sociale è caratteristico della cultura della vergogna dove per l'uomo è insopportabile "perdere la faccia".
Esiodo (VIII-VII sec. a. C.) consiglia di evitare la cattiva fama (fhvmh kakhv) che è leggera a sollevarsi ("kouvfh me;n ajei'rai", Opere , v. 761), ma è pesante da portare ed è difficile togliersela di dosso ("ajrgalevh de; fevrein, caleph; d& ajpoqevsqai", v. 762).
La Fama in Virgilio è la dea foeda (Eneide IV, 95) la dea oscena che infama Didone per l'amore con Enea, argomento sul quale torneremo:"malum qua non aliud velocius ullum:/mobilitate viget virisque adquirit eundo;/parva metu primo, mox sese attollit in auras/ingrediturque solo et caput inter nubila condit " (Eneide , IV, 174-177), la Fama di cui nessun altro male è più veloce: ha la sua forza nella mobilità e acquista potenza con l'andare; piccola per paura dapprima, presto si alza nell'aria e avanza sulla terra e nasconde il capo tra le nubi.
In questa descrizione Virgilio ricorda quella che Omero fa di [Eri" a[moton memaui'a, la Discordia violentemente infuriata (maivnw) che dapprima si leva piccola ma poi cammina sulla terra arrivando al cielo con il capo (Iliade , IV, 440 sgg.).
Qualche cosa di questa culture of shame dunque arriva a Virgilio, mentre dal Critone di Platone (44C e sgg.) vediamo che a Socrate non importa niente dell'opinione dei più. Siamo nella "civiltà della colpa": quello che conta è essere in pace con la propria coscienza. Critone sostiene che bisogna tenere conto della reputazione poiché la maggioranza è capace di compiere i più grandi mali, se uno viene calunniato da loro. Al che Socrate risponde: magari fossero capaci i più ("oiJ polloiv", 44d) di compiere grandi mali, purché sapessero fare grandi beni. Ma non sanno fare né l'una né l'altra cosa e operano a casaccio ("poiou'si de; tou'to o{ti a]n tuvcwsi").
Alla civiltà di vergogna attenta soprattutto alla reputazione, torna Isocrate quando consiglia A Demonico di guardarsi dalle calunnie:"oiJ ga;r polloi; th;n me;n ajlhvqeian ajgnoou'sin, pro;" de; th;n dovxan ajpoblevpousin" (17), infatti i più ignorano la verità e guardano alla reputazione. Anche Tacito dà importanza alla fama, la reputazione, "quae in novis coeptis validissima est " (Annales , XIII, 8) che all'inizio delle imprese ha grandissima importanza. Lo stesso autore è un critico della maggioranza che approvava un imperatore come Nerone, auriga e citaredo:"mox ultro vocari populus Romanus laudibusque extollere, ut est vulgus cupiens voluptatum et, si eodem princeps trahat, laetum " (Annales , XIV, 14), poco dopo fu invitato il popolo romano e lo esaltava con le lodi, dato com'è il volgo cupido di piaceri e, se il principe tira dalla stessa parte, felice.
Tra i moderni la dichiarazione di noncuranza dell'opinione dei più, in quanto la massa è costituita da imbecilli, si trova in Un nemico del popolo (1882) di Henrik Ibsen il quale fa dire al dottor Stockmann :" Il più pericoloso nemico della verità e della libertà, fra noi, è, se proprio volete saperlo, sì, è la maggioranza, la solida e compatta maggioranza, la maledetta maggioranza democratica...chi è che forma in un paese la maggioranza, gli intelligenti o gli imbecilli?..di imbecilli se ne trova una maggioranza schiacciante...La maggioranza ha la forza, sì, per nostra sciagura, ma non la ragione. No! La ragione l'abbiamo io e pochi altri. E' la minoranza, sono i pochi che hanno ragione!... Queste verità di maggioranza sono come la carne affumicata dell'altr'anno, sì, altrettanto rancide e putrefatte. Ed ecco dove nasce tutto questo scorbuto spirituale che dilaga e si diffonde in tutte le classi sociali!" Chi adotta le opinioni dei superiori è un plebeo dell'intelligenza e un immorale. "l'unica moralità piaccia o no, consiste nell'indipendenza di giudizio, nel libero pensiero"[1].
Ma la moralità è il valore più importante solo per chi è andato oltre la civiltà di vergogna poiché soltanto una persona siffatta sa che "non vi è profonda felicità senza morale profonda"[2].
Ebbene, Medea è del tutto immersa nella civiltà di vergogna.
Anche quella di Apollonio nel terzo monologo (Le Argonautiche , III, vv. 770-801) che poi è "il primo monologo interiore della storia letteraria" è angosciata, tra l'altro, per il giudizio del mondo esterno:"le donne di Colchide portandomi di bocca in bocca mi biasimeranno sconciandomi" (vv. 794-795).
La barbara dunque soffre la derisione del prossimo, eppure possiede quel terribile e tipico carattere dispotico (deinovn turavnnwn lh'ma, v. 119) che non accetta controlli.
Concediamoci una breve digressione sulla tipologia del tiranno.
"Proprio questo caratterizza il monarca, poter fare ciò che vuole senza essere soggetto ad alcun controllo"[3]. La trofov" (nutrice) di Medea biasima la sfrenatezza derivata dalla prepotenza cui ella contrappone l'uguaglianza:"Deina; turavnnwn lhvmata kai; pw"-ojlig j ajrcovmenoi, polla; kratou'nte",-calepw'" ojrga;" metabavllousin-To; ga;r eijqivsqai zh'n ejp& i[soisin-krei'sson" (vv. 119-123), terribile è l'animo dei tiranni e poiché di rado come che sia sono subordinati, e il più delle volte comandano, difficilmente elaborano le ire. Infatti essere abituati a vivere in condizioni di uguaglianza, è meglio.
Il 10 giugno ho visto la Medea rappresentata nel teatro greco di Siracusa. Ebbene la parola orgav~ “ire” termine chiave del testo non è stata tradotta e la frase suonava così: “non cambiano mai opinione”. Suonava male con tradimento del testo di Euripide
E' una caratteristica della tirannide quella di non subire alcun controllo. Lo leggiamo anche nei vv. 506- 507 dell'Antigone :" Ma la tirannide in molte altre cose ha successo/e per giunta le è possibile sia dire sia fare ciò che vuole".
Qui si tratta di un tiranno maschio, despota della povli".
Nelle Storie di Erodoto la teoria antitirannica è attribuita al nobile persiano Otane il quale, nel dibattito costituzionale, contrappone la monarchia, in pratica una tirannide, al potere del popolo che prima di tutto ha il nome più bello: " ijsonomivhn", poi non fa nulla di quanto perpetra l'autocrate: infatti questa uguaglianza di fronte alla legge prevede che il potere sia soggetto a controllo:" uJpeuvqunon de; ajrch;n e[cei" (III, 80, 6). Tiranno per Otane è anche il mouvnarco" raffigurato nel dibattito sulla migliore costituzione (III, 79-84) come colui che "novmaiav te kinevei pavtria kai; bia'tai gunai'ka" kteivnei te ajkrivtou"" (III, 80, 5) sovverte le patrie usanze, violenta le donne e manda a morte senza giudizio.
"Così il persiano Otane riassume ciò che è in sostanza il motivo comune fra i Greci per l'opposizione alla tirannide"[4].
Nelle tragedie il tiranno è il paradigma mitico di questo principio. Così è Edipo, così Creonte di Sofocle, così Serse il quale nei Persiani di Eschilo, pur se sconfitto, è "oujc uJpeuvquno" povlei" (v. 213), non è tenuto a rendere conto alla città come un capo democratico. Tale è pure Zeus nel Prometeo incatenato :"tracu;" movnarco" oujd& uJpeuvquno" kratei'" (v. 324), sovrano rigido né impera obbligato a rendere conto. Ma Zeus è un dio.
Un altro personaggio tragico che afferma questa legge è Lady Macbeth nella scena del sonnambulismo:"What need we fear who knows it, when none can call our power to account it?" (V, 1), perché dovremmo temere chi lo sappia quando nessuno può chiamare la nostra potenza a renderne conto?
Non è possibile certificare la felicità di un uomo per l'imprevedibilità della vita umana.
Questo è uno dei grandi tovpoi della letteratura classica. Do alcune testimonianze.
Si tratta di un motivo sapienziale arcaico già presente in Archiloco (fr. 58D.):"toi'" qeoi'" tiqei'n a{panta: pollavki" me;n ejk kakw`n-a[ndra~ ojrqou`sin melaivnh/ keimevnou~ ejpi; cqoniv,- pollavki~ d j ajnatrevpousi kai; mavl j eu\ bebhkovta"/uJptivou" klivnous j ", si deve attribuire ogni cosa agli dei: spesso dai mali sollevano uomini prostrati sulla nera terra , spesso invece rovesciano e stendono supini anche quelli che procedono ben saldi .
Il successo
Pindaro afferma che Tantalo era l'uomo più amato dagli dèi che lo onoravano frequentando la sua mensa; egli però non seppe smaltire la grande felicità:" se mai i protettori dell'Olimpo onorarono un uomo/mortale, era Tantalo questo; però/ di fatto non seppe/digerire la grande felicità, e con la sazietà attirò/un acciecamento pieno di prepotenza, e su di lui/il padre sospese un macigno pesante,/che egli desidera sempre stornare dal capo/ed erra lontano dalla gioia. (Olimpica I, vv. 54-61).
Il successo va digerito mentalmente e demistificato
"Ecco che cos'è il successo: una vita mistificata dagli altri, che torna mistificata a te, e finisce col trasformarti veramente"[5].
Una volta meritato con metodo va mantenuto con un il metodo che gli si confà.
"Il successo e la fortuna sono in noi. Noi dobbiamo tenerli: saldi, profondamente. Appena qua dentro qualche cosa comincia a cedere, a stancarsi, a perder forza, tutti intorno a noi si sentono liberi, si ribellano, recalcitrano, si sottraggono al nostro influsso. Allora un guaio viene dopo l'altro, batoste su batoste, e si è liquidati"[6].
"E' il culmine della felicità quando gli dèi si assidono alla nostra tavola e portano i loro doni-ma da quel momento non è possibile che tramontare. "I venti che soffiano sulle cime incessantemente mutano. La felicità non dura a lungo ai mortali, quand'essa viene nella sua pienezza" (Pindaro, Pitiche, III, 104-106)"[7].
Anche Sofocle afferma più di una volta l’ insicurezza di ogni stato
L'immagine dell' altalena fatale si trova nell'esodo dell'Antigone là dove (vv.1157-1158) il messo sentenzia:"tuvch ga;r ojrqoi' kai; tuvch katarrevpei-to;n eujtucou'nta to;n te dustucou'nt& ajeiv, la sorte infatti raddrizza e la sorte butta giù/ il fortunato e il disgraziato via via.
Nell'Edipo re il coro chiede ad Apollo:"intorno a te ho sacro timore: che cosa, o di nuovo/o con il volgere delle stagioni ("peritellomevnai" wJvrai"") un'altra volta/effettuerai per me?"(vv. 155-157). In questo scorrere rapido dei giorni, in questo girare vorticoso delle stagioni, avvengono mutamenti continui e alcune cose si ripetono, ma altre accadono inopinatamente.
Gli ultimi versi di questo dramma (1528-1530) fanno : sicché, uno che sia nato mortale, non ritenga felice nessuno,/considerando quell'ultimo giorno a vedersi, prima che/abbia passato il termine della vita senza avere sofferto nulla di doloroso ("pri;n aj;n /tevrma tou' bivou peravsh/ mhde;n ajlgeino;n paqwvn").
L'imprevedibilità del futuro è denunciata anche da Deianira all'inizio delle Trachinie (vv. 1-3) :" esiste un antico detto ("Lovgo" me;n e[st& ajrcai'o"") diffuso tra gli uomini: che non puoi conoscere la vita di un uomo prima che uno sia defunto, né se per lui sia stata buona o cattiva".
Queste parole ribadiscono gli insegnamenti delfici del conoscere, anche attraverso se stessi, la natura umana, i suoi limiti e pure le sue connessioni con il cosmo, per rifuggire ogni eccesso, ogni rottura dell'equilibrio e dell'armonia.
Pure Euripide, che è critico verso l'oracolo di Delfi e la sua pretaglia, tuttavia afferrma tale impossibilità di prevedere.
Aristofane nelle Rane fa recitare al personaggio Euripide i primi due versi della sua Antigone che non ci è arrivata:" Edipo dapprima era un uomo felice" (v. 1182)..."ma poi divenne viceversa il più infelice dei mortali" (v. 1187). Ogni giorno infatti è assolutamente diverso dal precedente.
Il celebre e oramai banale "domani è un altro giorno" di Via col vento , insomma può essere autorizzato e nobilitato entrando in una serie di citazioni tratte dalla letteratura antica.
Si trovano concetti analoghi in diversi drammi del tragediografo più giovane.
Partiamo dalle Baccanti " to; de; katj h|mar o{tw/ bivoto"-eujdaivmwn, makarivzw" ( , vv. 910-911), considero beato l'uomo la cui vita è felice giorno per giorno.
Gli ultimi cinque versi fanno:" Molte sono le forme della divinità,/e molti eventi fuori dalle nostre speranze (ajevlptw", v. 1388) portano a compimento gli dèi;/e i fatti attesi non si avverarono,/mentre per quelli inaspettati un dio trovò la via./Così è andata a finire questa azione"(vv. 1388-1392). Identica è la conclusione dell'Alcesti, dell'Andromaca , dell'Elena; nella Medea sono uguali gli ultimi quattro versi (1416-1419).
Nell'Ippolito il coro sentenzia:" oujk oi\d& oJvpw" ei[poim j a]n eujtucei'n tina-qnhtw'n: ta; ga;r dh; prw't j ajnevstraptai pavlin"(vv. 981-982), non so come potrei dire che alcuno dei mortali è fortunato: infatti le posizioni più alte vengono rovesciate.
Nell'Ecuba la vecchia regina, dopo il sacrificio-assassinio della figlia Polissena constata la vanità della ricchezza e del potere, quindi conclude:"kei'no" ojlbiwvtato" ,- o{tw/ kat h\mar tugcavnei mhde;n kakovn"(vv. 627-628), il più fortunato è quello cui giorno per giorno nessun male tocca.
Nelle Troiane la vedova di Priamo dice:"nessuno dei fortunati considerate felice prima che sia fortunato, prima che sia morto"(vv. 509-510).
In un'altra cara tragedia di Euripide, l'Andromaca , leggiamo:"Crh; d j ou[pot j eijpei'n oujdevn j o[lbion brotw'n-pri;n aj;n qanovnto" th;n teleutaivan i[dh/"-o{pw" peravsa" hJmevran h{xei kavtw"(vv.100-102), non bisogna dire mai felice uno dei mortali/prima che tu abbia visto l'ultimo giorno/ del morto, come, avendolo passato, andrà laggiù.
Questa morale insomma si stende durante l'intero arco della produzione euripidea e siccome i drammi nominati sopra non finiscono tutti bene, né tutti male, non si può dire che essa sia ottimistica, e nemmeno pessimistica: è una constatazione della mutevolezza e imprevedibilità della tuvch, una forza soprannaturale che durante l'età ellenistica acquisterà altro credito e sostituirà tutti gli dèi dell'Olimpo e degli Inferi.
Dunque poiché la vita umana è imprevedibile, non si può chiamare felice chi non l'ha ancora compiuta tutta.
Questa non prevedibilità della vita fa parte non solo della sapienza tragica, ma anche di quella erodotea, il cui Solone dichiara a Creso che essendo la vita umana fatta mediamente di 26250 giorni nessuno di loro porta una situazione uguale all'altro, pertanto l'uomo è del tutto in balìa degli eventi ("pa'n ejsti a[nqrwpo" sumforhv" (I, 32, 4). Quindi, sebbene il saggio abbia visto che il re di Lidia è ricco e potente, non può dirgli se sia felicissimo prima di avere avuto la notizia che ha finito bene la vita.
Mazzarino mette in rilievo che nell'opera di Erodoto è ricorrente la domanda:"Son felici il ricco e il monarca?...A questa domanda rispondono i discorsi tra Creso e Solone...anche Anassagora si sforzava di rispondere alla stessa domanda...secondo Anassagora il dotto soprattutto era felice"[8]. Su questa linea troviamo Platone. Il filosofo nel Gorgia (470e) fa dire a Socrate che non può dire se il gran re dei Persiani sia felice poiché non sa come stia quanto a paideia e a giustizia:"ouj ga;r oi\da paideiva" o{pw" e[cei kai; dikaiosuvnh" ; quindi, a Polo che lo incalza chiedendogli se la felicità consista in questo, risponde che l'uomo e la donna sono felici quando sono belli e buoni, quando sono ingiusti e malvagi invece sono infelici.
Essere felici secondo Strabone, geografo dell'età di Augusto, è un atto di pietas :"gli uomini imitano benissimo gli dèi quando fanno del bene, ma si potrebbe dire ancor meglio quando sono felici (oJvtan eujdaimonw'si)"[9].
"Ognuno deve essere pienamente consapevole che la propria vita è un'avventura anche quando la crede chiusa in una sicurezza da burocrate: ogni destino umano comporta un'irriducibile incertezza anche nella certezza assoluta, che è quella della sua morte, poiché ne si ignora la data. Ognuno deve essere pienamente consapevole di partecipare all'avventura dell'umanità, che è, ormai con una velocità accelerata, proiettata verso l'ignoto"[10].
Bologna 4 luglio 2023 ore 17, 30 giovanni ghiselli
p. s
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[1] H. Ibsen, Un nemico del popolo , atto quarto. Trad. it. Garzanti, Milano, 1976.
[2]R. Musil, L'uomo senza qualità , p. 846.
[3]D. Lanza, op. cit., p. 43.
[4]C. M. Bowra, Mito E Modernità Della Letteratura Greca , p. 170.
[5] P. P. Pasolini, , dai “Dialoghi con Pasolini” su “Vie Nuove” (1960) in Pasolini saggi sulla politica e sulla società, p. 910.
[6] T. Mann, I Buddenbrook, p. 276.
[7] M. Cacciari, L'arcipelago, p. 53.
[8]S. Mazzarino, Il pensiero storico classico I, pp. 178 e 179.
[9] Strabone (64 ca a. C.-24 ca d. C.), Geografia, X, 3, 9.
[10] E. Morin, op. cit., p. 64.
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