Mi cimenterò con la mia narrativa, non senza ottime speranze. So che non devo cedere come mi ha insegnato l’eroe - cedere nescius - il fatato Pelìde.
Ora scrivo un poco di diario di questa impresa della quale sono comunque fiero, dato che in novembre compirò 79 anni.
Gli dèi mi proteggono ancora.
I giorno
Il primo giorno abbiamo fatto i 63 km che separano Pesaro da Ancona per prendere il traghetto. Già durante questo percorso mi sono stancato perché Alessandro durante i suoi turni di apri-vento alternati con i miei “tirava” con grande forza. A Bologna, poi qui a Pesaro, avevo fatto l’errore di allenarmi solo in salita pedalando con scarso impegno in pianura. Errore da non ripetere. L’ho pagato caro. Il fatto è che soltanto le salite, impervie per giunta, mi stimolano.
Mentre pedalavo contro vento mi venne il mente lo stesso tragitto verso il traghetto diretto a Patrasso percorso nell’agosto del 1981 con la giovane bella collega Ifigenia. Ne ricordavo i particolari.
Partimmo da Pesaro il 19 agosto alle sei di mattina, poiché dovevamo arrivare al porto di Ancona e iniziare le operazioni di imbarco per Patrasso non dopo le nove. Avevamo con noi, due piccoli zaini oltre le biciclette. Anche Ifigenia la bella si era adattata a girare come una zingara. Fisicamente eravamo entrambi in ottima forma, però le condizioni emotive non erano sane né equilibrate tra loro. Pedalavamo sulla strada statale n. 16 tra Pesaro e Fano, io avanti lei dietro. A sinistra osservavo la costa adriatica, a destra il colle Ardizio, poi la terra del Montefeltro: la dolce e serena campagna raffigurata alle spalle di femmine umane, serene e armoniose anche loro, da quel grande amante del classico e delle donne che fu Raffaello urbinate. Dopo qualche chilometro, a fosso Sejore, mentre guardavo il sole che cercava di uscire dal mare, mi sembrò non ne avesse la forza: anzi, quando il suo svilupparsi dalla fredda pianura salata fu giunto a metà, sembrò dovesse fermarsi così dimezzato: al posto dell’emisfero inferiore imprigionato nella distesa marina si vedeva riflessa nell’acqua l’immagine rossa della metà superiore. Mi fece l’impressione sinistra di un paralitico che passa il tempo seduto in una poltrona tenendo sulle gambe coperte e insensibili un grande specchio per vedervi riflessa la faccia ancora bella e la testa fulvida di ricci lucenti, ultima testimonianza di tempi migliori, quando le gambe snelle e veloci al pari di ali, lo portavano dove voleva. Erano quasi le sette, quantunque legali. L’estate declinava pur troppo. Il sole finalmente riuscì a liberarsi dal mare fremente, colore del vino, ma la morte cupa e dolente della bella stagione era vicina. Non avevamo ancora parlato: era tempo di avviare almeno uno scambio di qualche battuta; lei procedeva alquanto immusonita: poteva essere solo assonnata, ma forse era anche scontenta di pedalare verso l’Ellade antica con uno che non le rivolgeva parole né sguardi. “Ifigenia - dissi con tono amichevole e volontà di farla partecipare alle mie osservazioni - guarda il sole che si riflette nel mare raddoppiando il suo fuoco; non sembra un’atomica appena scoppiata, l’inizio forse della grande conflagrazione ignea che tutto distrugge e tutto rinnova?”. Volevo significarle che speravo in una salutare rigenerazione tra noi. Ma quella, sgradevolmente colpita dall’idea apocalittica, mi guardò con rancore, fece un gesto di scongiuro triviale e disse: “Le tue fantasie catastrofiche copiate da Seneca, filosofo da strapazzo, d’ora in avanti tielle per te!”.
Zittito in malo modo, meditavo sul nostro fallimento attraversando Fano ancora un po’ addormentata. Superato l’arco di Augusto, pensavo alla sua bellezza ancora fulgida e trionfante.
Pensavo un poco da pedante rimuginando i maestri della Stoà: “la magnificenza corporea scompagnata dal logos e dalla virtù sfiorisce presto e lascia solo vani rimpianti a chi, mentre la possedeva, sperava contro ragione di conquistare il mondo brandendola quale invincibile arma: Ifigenia, da quando, cambiati i modelli, rinnega con odio i miei insegnamenti, e ripiega sui tangheri, commette l’errore di attribuire alla sua venustà superba un valore eterno, assoluto e capace di farle raggiungere qualsiasi meta. Ma la bellezza da sola è un bene fragile e assai per tempo caduco. E’ come un ramo di mandorlo che il vento di aprile disfiora; è come il fiammeggiante papavero che il caldo di giugno scolora; è come il grano nitido che brilla nell’aria odorosa di un’umida sera di prima estate, finché la falce spietata lo miete e l’avido agricoltore lo chiude nel buio di un sacco. E’ come la foglia che il primo temporale di luglio strapazza, stacca dal ramo e trascina in una fangosa pozzanghera. L’eterna devastazione del tempo risparmia soltanto i frutti dell’anima: il Bene che fai, l’Amore che dai, la Giustizia che rendi, il Bello che crei, il Vero che cerchi. Questa coscienza preziosa dei beni spirituali l’ho trovata attraverso la gioia e il dolore dei quasi tre anni vissuti con lei. Per me è stata la conquista più grande, eppure non riesco a comunicargliela. La prenderebbe come un giudizio teso a oscurare il suo splendore corporeo che invece io venero perché mi ha dato la prima spinta verso il ricordo della bellezza eterna”.
La feci passare davanti. Volevo esaminare il suo corpo in movimento per coglierne l’essenziale, l’universale, l’esemplarmente umano, e sottrarlo alla rovina del tempo irremeabile, all’annientamento dell’inesorabile morte, alle offese degli uomini ottusi, delle malattie voraci, dei dispiaceri crudeli.
Osservavo i movimenti che distendevano e riaccostavano le membra nel pedalare la bicicletta. Consideravo una per una le parti del corpo dove nel primo anno del nostro amore avevo visto qualcosa di sovrumano: un somatizzarsi dell’adorata luce solare. Poi quello splendore celeste si era offuscato, anche per colpa mia, e le belle membra erano diventate meno vibranti di gioia spirituale e divina; tuttavia umanamente erano ancora perfette. La piccola testa, incorniciata dai capelli ondulati, sorretta dal collo lungo e sottile, oscillava soavemente sulle spalle forti e rotonde; gli occhi a mandorla, violacei, grandi e profondi nel volto dagli zigomi in luminoso rilievo, ogni tanto si volgevano indietro per controllare la mia tenuta al ritmo frequente delle sue gambe che spingevano i pedali con forza; quegli occhi interrogativi, circondati dai folti capelli neri, sembravano laghi montani cinti da foreste ombrose, densi di misteri inquietanti. I seni sodi e cospicui sotto la maglietta leggera fendevano l’aria seguendo i movimenti dell’agile busto senza perdere nulla della loro compattezza rotonda; avrei voluto succhiargleli per trarne la forza di parlare alla creatura già mia con il suo stesso linguaggio che non comprendevo più, da quando nuovi crucci e dolori antichi le avevano torto la mente con la favella. La vita sottile connettendo con la sua cavità le superbe sporgenze superiori e inferiori, le metteva in risalto; le natiche belle appoggiate sullo stretto sellino di cuoio, non si schiacciavano né subivano deformazione alcuna, tanto erano sode e compatte: quando la giovane donna si alzava sui pedali per superare qualche breve salita o per contrastare le folate del vento contrario, la carne dei glutei, divinamente compatta dal vincolo dell’armonia, parzialmente visibile sotto i calzoncini azzurri e succinti, non faceva una piega. Quando tornava a pedalare seduta, usava soprattutto le cosce per imprimere energiche spinte al veicolo; allora la carne fiorente, in splendida copia sopra le ossa sottili, si tendeva con sano vigore abbronzandosi al sole alzatosi intanto nel cielo; il piccolo disco delle ginocchia armonizzava la tensione della coscia carnosa con il turgore del sodo polpaccio in deciso rilievo sopra la caviglia snella. Questa trasmetteva la spinta di tutta la muscolatura complessa e concorde ai piccoli piedi calzati di rosse scarpette. La osservavo e con il pensiero le rivolgevo mute ma accorate parole: “Bella sei bella, sei l’idea stessa della Bellezza incarnata che voglio raffigurare prima che la tua carne si perda per sempre inghiottita dal tempo edace che tutto divora. Eppure tu non sei davvero Ifigenia, la fanciulla eroica che crea con forza valori morali e sociali. Piuttosto sei Elena di Troia che spinge i poeti a cantare la Bellezza della forma femminile perfetta. Non è nemesi soffrire tanti dolori per una donna del genere. Ma tu vuoi drammatizzarti da sola. Ora non parli con me perché temi che io disapprovi le parti non buone che vuoi comunque provare sul tuo palcoscenico. Forse hai ragione: in ogni caso faresti bene a indagare te stessa profondamente. Nei baratri cupi e limacciosi del tuo carattere però non dimenticare la luce, non affogare; dopo averli osservati, cerca di risalire. Facilis descensus Averno (…) sed revocare gradum superasque evadere ad auras,/hoc opus, hic labor est
Voglio vederti riemergere trionfalmente quando avrai decifrato il codice arcano del tuo destino non comune. Ti voglio vedere felice”. Così arrivammo ad Ancona. Mangiammo un frutto dell’ultima estate, e, sempre senza parlare, salimmo sul traghetto greco.
Pesaro 31 luglio 2023 ore 11, 47
giovanni ghiselli
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