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venerdì 14 luglio 2023

Rusticitas e Cultus. Fas e Mos.

Percorso sulla poesia amorosa V. Rusticitas e Cultus. Fas e Mos.

 

"E' in Ovidio che troviamo l'irrisione aperta della rusticitas , è Ovidio che della negazione della rusticitas  fa un aspetto essenziale del suo mondo galante. In alcuni casi egli ci presenta la negazione in modo ambiguo", attribuendola a personaggi poco attendibili. "Per esempio, una contrapposizione fra le formosae audaci di oggi e le sporche sabine delle origini di Roma è elaborata da una lena[1] nel suo discorso esortativo (Am. I 8. 39 sgg.):"Forsitan inmundae Tatio regnante Sabinae/noluerint habiles pluribus esse viris;/nunc Mars externis animos exercet in armis,/at Venus Aeneae regnat in urbe sui./Ludunt formosae: casta est quam nemo rogavit;/aut si rusticitas non vetat, ipsa rogat "[2], forse le sporche Sabine sotto il regno di Tazio non avranno voluto essere disponibili per più uomini; ora Marte tiene occupati gli animi in guerre straniere, ma è Venere che regna nella città del suo Enea. Le belle si divertono: è casta quella cui nessuno ha fatto proposte; oppure se non lo impedisce la selvatichezza, è lei che fa le proposte.

E ovviamente non sono sempre proposte decenti.  

Seneca, notando la diffusione dell'adulterio nel De Beneficiis [3] , ripropone l'idea contenuta in casta est quam nemo rogavit con altre parole sarcastiche e sdegnate:"Argumentum est deformitatis pudicitia" (III, 16, 3), la pudicizia è indizio di bruttezza. La pudicizia rende manifesta (arguit) la deformità.

"Altrove-continua La Penna-negli Amores  è la stessa impostazione di giuoco sofistico che toglie aggressività all'irrisione della rusticitas: cito, per esempio, un passo di III 4 (37 sgg.), l'elegia dove si vuole dimostrare che è meglio lasciare le puellae  senza sorveglianza: Rusticus est nimium quem laedit adultera coniunx ,/et notos mores non satis Urbis habet,/in qua Martigenae non sunt sine crimine nati,/Romulus Iliades Iliadesque Remus " (p. 186).

Aggiungo la traduzione e un poco di commento mio.

 E' davvero rozzo quello che una moglie adultera offende, e non conosce bene i costumi di Roma nella quale i figli di Marte non sono nati senza colpa, Romolo figlio di Ilia e il figlio di Ilia Remo.

 Insomma il marito che, tradito, si adonta, è un ignorante integrale.

"Per Ovidio Roma non è la regina delle città che detta legge al genere umano: è invece principalmente la città dell'amore. Tutto invita ad amare: strade, piazze, portici offrono mille bellezze giunte dai quattro punti cardinali per conquistare i loro vincitori…Persino l'antico Foro diventa luogo di appuntamenti e tende trappole ai giureconsulti:"et fora conveniunt-quis credere possit-amori"[4] (Ars amatoria, I, 79. Anche i fori si confanno all'amore, chi potrebbe crederlo? ".

Che cosa vuol dire "giuoco sofistico? ". Significa non riconoscere alcun valore oltre il successo e utilizzare ogni mezzo, a partire dalla parola, per conseguirlo in ogni modo: in questo caso chiamare in causa gli dèi per avallare  licenza e trasgressione sessuale. E' quello che fa il Discorso Ingiusto nelle Nuvole[5] di Aristofane quando consiglia a Fidippide: se ti sorprendono in adulterio, rispondi al marito che non hai fatto niente di male,  poi fai ricadere  l'accusa su Zeus, di' che anche lui è più debole di amore e delle donne ( "kajkei'no" wJ"  h{ttwn e[rwtov" ejsti kai; gunaikw'n", v.1081). Il riferimento è ai tanti adultèri di Zeus che possono coonestare quelli del giovane allievo istruito dall' a[diko" lovgo".

"La sofistica ne approfitta, raccogliendo dal mito gli esempi sfruttabili nel senso della dissoluzione e relativizzazione naturalistica ch'essa fa di tutte le norme vigenti. Se la difesa in giudizio tendeva in passato a provare che il caso era conforme alle leggi, ora si attacca la legge e il costume stesso, cercando di dimostrarli manchevoli"[6].

Nella poesia erotica greca e latina chi ama si appella topicamente agli amori di Zeus. Per esempio nell'VIII idillio di Teocrito il bovaro Dafni canta:"w\ pavter w\ Zeu', ouj movno" hjravsqhn: kai; tu; gunaikofivla"" (vv. 59-60), o padre Zeus, non mi sono innamorato solo io: anche tu sei amante delle donne.

 

Il Discorso ingiusto delle Nuvole dunque si volge al ragazzo e "lo invita a riflettere come il risolversi per la sophrosyne -castità- implichi la rinuncia a tutti i piaceri dell'esistenza. E per giunta sarà indifeso quando, per le "necessità di natura", faccia un passo falso e non sia in grado di difendersi. "Se sei in buoni termini con me, lascia pur libero corso alla natura, salta e ridi, non ritenere nulla biasimevole. Se sei accusato d'adulterio, nega ogni colpa e appellati a  Zeus, che non sapeva tener testa neanche lui ad Eros e alle donne. E tu, uomo mortale, come dovresti esser più forte d'un dio?".

 E' la stessa argomentazione che Euripide attribuisce a  Elena nelle Troiane e alla nutrice di Fedra nell'Ippolito . Essa culmina in ciò che il Logos Ingiusto, con la lode della propria morale rilassata, suscita le risa del pubblico e dichiara poi che quanto è praticato dalla gran maggioranza del rispettabilissimo popolo è impossibile sia vizio"[7].

 

Il Discorso Giusto prova a sventolare come deterrente la pena grottesca inflitta agli adulteri del ravanello  infilato nell'ano ( Nuvole, v. 1083) ma tutti gli argomenti razionali e reali vengono smontati dalla malizia sofistica del suo avversario.

Il gioco sofistico porta perfino a un capovolgimento del valore della parola che indica il peccato universale dei Greci: sempre nelle Nuvole  il Discorso ingiusto (Lovgo" a[diko" ) sostiene che Tetide lasciò Peleo perché non era impetuoso (uJbristhv" , v. 1067)  e non era piacevole passare la notte con lui, mentre la donna gode a essere sbattuta. L' u{bri" , la dismisura che soddisfa libidine della donna, diviene un valore.

 

Un'idea non tanto peregrina e paradossale: la ritroviamo in Machiavelli:"Io iudico bene questo, che sia meglio essere impetuoso che respettivo, perché la fortuna è donna; et è necessario, volendola tenere sotto, batterla e urtarla. E si vede che la si lascia più vincere da questi, che da quelli che freddamente procedano. E però, sempre, come donna, è amica de' giovani, perché sono meno respettivi, più feroci, e con più audacia la comandano"[8].

 

Nelle Troiane di Euripide, Elena si difende sfidando Menelao a punire Afrodite che l'ha trascinata, se ne è capace:" punisci la dea e diventa più forte di Zeus il quale ha potere sugli altri dèi, ma di quella è schiavo (keivnh" de; dou'lov" ejsti: suggnwvmh d j ejmoiv): per me dunque ci sia il perdono" (vv. 948-950).

Ecuba però, l'accusatrice, ribatte dicendo che le stoltezze (ta; mw'ra) sono tutte Afrodite per i mortali, e correttamente il nome della dea ha le prime lettere in comune come quello della follia (ajfrosuvnh" , vv. 989-990).  vv. 791-800.

 

Nel prologo dell'Ippolito di Euripide la dea Afrodite entra in scena e si presenta come dea potente e non oscura sia tra i mortali sia dentro il cielo (vv. 1-2). Nel primo episodio la Nutrice cerca di spingere Fedra all'adulterio presentando Cipride come irresistibile (ouj forhtov" ) se irrompe in tutta la sua potenza (v. 443).

 

 Nel terzo stasimo dell’Antigone di Sofocle la dea viene qualificata dal Coro come a[maco" (v. 799), ineluttabile

 Anche Virgilio usa il topos dell’invincibilità dell’amora nell' ecloga X che racconta le insuperabili pene amorose di Cornelio Gallo:"omnia vincit Amor, et nos cedamus amori " (v. 69) tutto vince Amore e noi all'Amore cediamo. 

  Catullo ricorda i plurima furta Iovis (68 A, v. 140) per combattere la propria gelosia e accettare le scappatelle di Clodia:"Quae tamen etsi uno non est contenta Catullo,/rara verecundae furta feremus erae,/ne nimium simus stultorum more molesti./Saepe etiam Iuno, maxima caelicolum,/coniugis in culpa flagrantem cohibuit iram,/noscens omnivoli plurima furta Iovis " (vv. 135-140),  se Clodia però non si accontenta del solo Catullo, sopporterò i tradimenti rari della riservata signora, per non essere troppo fastidioso, come sono gli stolti. Spesso anche Giunone, la più grande tra le dèe del cielo, frenò l'ira che bruciava davanti alla colpa del marito, ammettendo i moltissimi adultèri del marito prenditutto.

Dunque il mos di sdegnarsi per il tradimento sessuale contraddistingue gruppo degli stulti, probabilmente maggioritario ma non per questo pregevole.

 

 

Torniamo a La Penna e al tema della rusticitas :" Non solo le goffe e rozze sabine, ma anche eroine greche fanno le spese della satira contro la rusticitas . Per esempio, sarebbe interessante vedere come vengono trattate nelle opere erotiche di Ovidio Penelope, Andromaca, Tecmessa. Mi limito a un solo esempio: è Penelope stessa a dirci che cosa pensa di lei il suo raffinato ed esperto marito (Her.  I. 77 sg.) : Forsitan et narres quam sit tibi rustica coniunx,/quae tantum lanas non sinat esse rudes " (Fra teatro, poesia e politica romana p. 186), forse [9] racconti quanto sia rozza tua moglie, la quale soltanto alla lana non permette di essere ruvida. La virtù tradizionale di filare la lana viene ridicolizzata.     

"Ma nel mito greco si possono trovare ben altre figure femminili adatte a simboleggiare e a proclamare il libero e raffinato gusto moderno. In un'eroina del genere è trasformata la tragica Fedra, che interpreta a suo modo il passaggio dal regno di Saturno al regno di Giove: quello fu il regno della pietas  e della rusticitas , questo il regno della libertà e del piacere (Her. 4. 131 sgg.): Ista vetus pietas, aevo moritura futuro,/rustica Saturno regna tenente fuit;/Iuppiter esse pium statuit quodcumque iuvaret/et fas omne facit fratre marita soror " (p. 187), questa vecchia bontà destinata a morire in futuro, c'era quando Saturno governava rozzi regni; Giove stabilì che fosse buono tutto quanto piaceva, e rende del tutto naturale che la sorella sia sposata al fratello.

Giove stesso autorizza il piacere sessuale, comunque e con chiunque uno se lo procuri.

Eppure nemmeno Giove però può fare tutto quello che vuole:"me quoque fata regunt " dice il re degli dèi nelle Metamorfosi (IX, 434), anche io devo seguire il volere del fato.

 

Nella nostra religione Cristo  perdonò l'adultera e valutò positivamente la peccatrice.

La libertà sessuale non è solo mos, una consuetudine inveterata, ma addirittura fas.

Maurizio Bettini chiarisce bene la differenza di significato tra fas e mos. " Dunque, il mos collettivo si configura come una decisione presa da un "gruppo", il quale raggiunge un consensus su un certo comportamento: dopo di che, il medesimo gruppo ha la capacità di affermare nel tempo questo tipo di comportamento, trasformandolo così in mos o mores [10]". Il mos allora nasce dal consensus. "Questo significa che il mos o i mores non sono percepiti come qualcosa di assoluto, che si impone per sua natura: al contrario, sono il frutto di un accordo collettivo su qualcosa che inizialmente dipende da un iudicium animi, e questo accordo deve superare la prova del tempo.

In questo senso il mos si presenta profondamente diverso da ciò che i Romani definivano fas: la parola divina[11], simile a quella che si esprime nel fatum o "destino"; quella "parola" impersonale che solo esistendo manifesta la volontà degli dèi e si realizza nella forma di un "diritto divino" che è appunto nefas violare[12]. Nella rappresentazione culturale romana, il fas è qualche cosa che si impone da solo, indipendentemente dal iudicium individuale della persona.

 Il fas sta scritto direttamente nella natura. Esso costituisce la regola che prescrive di non commettere certe azioni di particolare gravità, la cui mostruosità è fuori discussione. Perché il fas agisca come norma di comportamento, non c'è dunque bisogno di un gruppo che su di esso ha raggiunto un consensus, né di una consuetudo che si afferma nel tempo. La differenza fra mos e fas risulta evidenta da espressioni tipo questa, di Tibullo:"nullus erat custos, nulla exclusura dolentes/ianua: si fas est, mos, precor, ille redi!"[13] (allora non c'erano custodi, non c'erano porte che chiudessero fuori l'amante triste. O se quel mos, a patto che sia fas, potesse tornare!) Il poeta si augura che torni a rivivere un mos che rendeva più facile la vita degli innamorati- a patto, naturalmente, che il ritorno di tale mos non violi le regole imperscrutabili del fas. Mos e fas sono due cose diverse, e possono non coincidere. Interessante anche il modo in cui , negli Annali di Tacito, viene riportata la domanda che il legato Bleso avrebbe rivolto ai soldati che minacciavano una rivolta:"Cur contra morem obsequii, contra fas disciplinae vim meditentur?"[14] (perché volgere l'animo alla violenza, contro il mos dell'ossequio e contro il fas della disciplina?). Il testo distingue nettamente fra i due diversi tipi di trasgressione. Il rifiuto dell'obsequium è un atto "contra morem": ma non rispettare la disciplina militare, ossia un modello che a Roma ha un valore culturale fortissimo[15], è addirittura inaccettabile, assurdo, contra fas"[16].

 

 Fedra, la cretese innamorata ovviamente scrive a Ippolito per indurlo a soddisfare i suoi desideri proibiti, come fece sua madre Pasife con il toro:" Flecte, ferox animos: potuit corrumpere taurum/mater: eris tauro saevior ipse truci? " (Her. 4, 165-166), piega superbo i tuoi sentimenti: mia madre poté sedurre un toro: sarai tu più feroce di un toro tremendo?

 E' questo il mito, irriso da Ovidio, delle Cretesi sporcaccione, nato, probabilmente, quando i guerrieri micenei, poco dopo la metà del secondo millennio avanti Cristo, invasero Creta e videro le raffigurazioni, e forse pure le presenze vive, di donne troppo libere e discinte rispetto ai loro canoni. 

 "Paride, per riguardo di Elena, non tratta Sparta come la lena  trattava le sabine di Tazio, ma la ritiene indegna della bellezza di Elena (Her. 16. 191 sgg.): Parca sed est Sparte, tu cultu divite digna;/ad talem formam non facit iste locus;/hanc faciem largis sine fine paratibus uti/deliciisque decet luxuriare novis./Cum videas cultus nostra de gente virorum, qualem Dardanias credis habere nurus?  "[17]  , ma Sparta è scarsa, tu sei degna di ricca raffinatezza; a tale bellezza non si addice questo luogo; a quest'aspetto si confà l'uso di vesti infinitamente copiose e abbondare di delizie mai viste. Vedendo l'eleganza degli uomini della nostra gente, quale credi che abbiano le ragazze troiane?

 Questo fu uno degli argomenti, o dei pensieri, che spinsero Elena all'adulterio secondo Ecuba la quale, nelle Troiane[18]  di Euripide, accusa la maliarda di avidità non solo sessuale: la moglie di Menelao fu attirata dallo splendore di Paride: tanto da quello della bellezza quanto da quello delle ricchezze che il principe troiano portava con sé e che possedeva a Troia dove l'oro scorreva a fiumi,.

 A Sparta, infatti, le rinfaccia la vecchia regina, vivevi con poco ("mivkr j e[cousa", v. 993) e, abbandonata la famiglia, sperasti di sommergere nel tuo fasto ("h[lpisa" katakluvsein-dapavnaisin", vv. 995-996) la città dei Frigi dove l'oro scorreva. Infatti non ti bastavano le dimore di Menelao per trasmodare nei tuoi lussi: "tai'" sai'" ejgkaqubrivzein[19] trufai'"", v. 997.  Questa è la requisitoria della regina dolente che conclude con una richiesta di condanna a morte che però non verrà inflitta all’adultera, anzi perdonata e onorata (cfr. Odissea, IV).

Torniamo ai suggerimenti di Ovidio. 'L'ambiguità giocosa investe, naturalmente, anche l'Ars amatoria...Il pudor  è bandito come rusticus , almeno da una certa fase in poi della strategia di conquista della donna"[20].

Del resto è pur vero che "la strategia amorosa si sa adoperare soltanto quando non si è innamorati"[21].

 

Pesaro 14 luglio 2023 ore 10, 26 giovanni ghiselli

p. s.

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[1] Una mezzana, illa monebat/ talia (Amores, I, 8, 21-22), lei dava tali consigli.

[2] A. La Penna, Fra teatro, poesia e politica romana, p. 186.

[3] Del 64 d. C.

[4] P. Grimal, L'amore a Roma, trad. it. Aldo Martello, Milano, 1964, p. 140.

[5] Del 423 a. C.

[6]W. Jaeger, Paideia  1, trad. it. La Nuova Italia, Firenze, 1978,  p. 630.

[7]W. Jaeger, op. cit., p. 631.

[8] Il Principe, 24.

[9] Ossia alla straniera che ti tiene peregrino amore , v. 76, lo stesso tipo relazione, si ricorderà, che Deianira rinfaccia a Eracle in Heroides  IX, 49.

[10] M. Bettini, Le orecchie di Hermes, p. 257.

[11] Cfr. P. Cipriano, Fas e nefas, Università degli Studi di Roma, Istituto di Glottologia, Roma 1978.

[12] E. Benveniste, Il vocabolario delle istituzioni indoeuropee, Einaudi, Torino, 1976, II, pp. 348-349. Per la differenza tra fas e ius cfr. Servio in Georgica, I, 269:" (…) ad religionem fas, ad homines iura pertinent".

[13] Corpus Tibullianum, 2, 3, 4. In realtà si tratta dei vv. 76-77. Io tradurrei il secondo verso: o costume di quella volta, ritorna se è consentito.

[14] Tacito, Annales, I, 19, 3. Si tratta della rivolta delle legioni della Pannonia alla notizia della morte di Augusto

[15] Si veda, ad esempio, Livio, 5, 6, 17, dove la mancanza di rispetto (espresso dal verbo vereor) per la disciplina compare alla fine di un elenco di comportamenti rovinosi per la città di Roma:"non senatum, non magistratus, non leges, non mores maiorum, non instituta patrum, non disciplinam vereri".

[16] M. Bettini, Le orecchie di Hermes, p. 258.

[17]La Penna, op. cit., p. 187.

[18] Del 415 a. C.

[19] Questo verbo accusa Elena di u{bri" , il peccato dei Greci.

 

[20]La Penna, op. cit., p. 187.

[21] C. Pavese, Il mestiere di vivere, 24 ottobre 1940.

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