Tito Livio[1] IX, 17-19.
Alessandro morì giovane senza avere mai provato l’avversa fortuna: “nondum alteram fortunam expertus decessit ”. Ciro e Pompeo le furono esposti da una lunga vita. Nei consoli romani che lo avrebbero combattuto se si fossero inconrtati (Tito Manlio Torquato p. e.) c’era indoles eadem quae in Alexandro animi ingeniique (9, 17, 9) la medesima qualità naturale di coraggio e di ingegno che in Alessandro, e in più la disciplina militaris, la quale “iam inde ab initiis urbis tradita per manus, in artis perpetuis praeceptis ordinatae modum venerat ” (9, 17, 10), già fin dagli inizi della città tramandata di mano in mano, era giunta a una forma d’arte regolata da norme immutabili.
Tito Manlio Torquato durante la guerra contro i Latini (340-338 a. C.) condannò a morte il figlio che aveva osato combattere contro il suo ordine, di capo e di padre, dopo averlo accusato in questo modo:"tu, T. Manli, neque imperium consulare neque maiestatem patriam verĭtus, adversus edictum nostrum extra ordinem in hostem pugnasti, et, quantum in te fuit, disciplinam militarem, qua stetit ad hanc diem Romana res solvisti " (Livio, 8, 7, 15) tu, Tito Manlio, senza riguardo per il comando dei consoli e per l'autorità paterna, hai combattuto il nemico contro le nostre disposizioni, fuori dallo schieramento, e, per quanto è dipeso da te, hai dissolto la disciplina militare, sulla quale sino ad ora si è fondata la potenza romana.
G. De Sanctis commenta questa guerra notando che la forza vincente dei Romani era "la consuetudine di sfruttare nella lotta per l'esistenza tutte le forze fino al limite estremo senza alcuna compassione di sé"[2].
Insomma la disciplina per i Romani del tempo di Al. era fas, legge divina, legge di natura, non mos, costume soggetto a mutamenti.
Non avrebbero ceduto ad Alessandro Manlio Torquato e Valerio Corvo insignes ante milites quam duces (Livio, 9, 17, 13) distinti come soldati prima che comandanti, né i Deci , devotis corporibus in hostem ruentes, che si erano precipitati contro il nemico con i corpi consacrati alla morte come quelli dei nemici, né Papirio Cursore illo corporis robore, illo animi! (9, 17, 14) .
Decio Mure fu collega di Tito Manlio Torquato nel consolato del 340. Fece atto di devotio nella battaglia del Vesuvio (340 contro i Latini) immolandosi agli dèi mani. Il figlio ripetè il gesto nel 295 al Sentino.
Nemmeno quel Senato di cui Cinea, ambasciatore di Pirro a Roma ex regibus constare dixit,[3] disse che era formato da re, vinctus esset consiliis iuvenis unius (9, 17, 14), sarebbe stato vinto dagli accorgimenti di un giovane.
Se Alessandro si fosse incontrato con uomini grandi quanto i consoli romani Manlio Torquato, Valerio Corvo (console più volte nel IV secolo) , i Deci, Papirio Cursore (console nel 326), o con i senatori avrebbe detto che non aveva a che fare con Dario, praedam verĭus quam hostem, che egli aveva sbaragliato incruentus[4], senza spargimento di sangue, mulierum ac spadonum agmen trahentem, quando il “grande re” si tirava dietro uno stuolo di donne e di castrati, oneratum fortunae apparatibus suae, appesantito dallo sfarzo della sua fortuna. Alessandro non osò altro che disprezzare opportunamente quella vanità: nihil aliud quam bene ausus vana contemnere (9, 17, 16).
Inoltre: era altra cosa l’Italia dall’India per quam temulento agmine comisabundus incessit (9, 17, 17) attraverso la quale passò gozzovigliando con uno stuolo di ubriachi.
Alessandro non ebbe nemmeno la forza di sopportare i successi che lo corruppero. Referre in tanto rege piget superbam mutationem vestis et desideratas humi iacentium adulationes (9, 18, 4), rincresce ricordare in un re tanto grande lo sfarzoso cambiamento del modo di vestire e le desiderate adulazioni di quelli prosternati a terra, insopportabili ai Macedoni, et foeda supplicia et inter vinum et epulas, caedes amicorum et vanitatem ementiendae stirpis” (5), e gli orrendi supplizi e le uccisioni degli amici tra il vino e i banchetti e la vanità di mentire la stirpe.
Alessandro per giunta fu un uomo dal breve destino, mentre il popolo romano guerreggia con poche sconfitte da otto secoli.
Certo nei tredici anni di Alessandro (336-323) la fortuna è stata meno varia che negli otto secoli dei Romani. I consoli avevano meno tempo per conseguire vittorie, erano osteggiati dai tribuni della plebe, potevano essere ostacolati dalla temerarietà o dall’incapacità del collega ed ebbero anche altre difficoltà.
Come armi: clupeus sarīsaeque illis (9, 19, 7), scudo e lunga asta per quelli; i Romani lo scutum , maius corporis tegumentum, et pilum, il giavellotto, arma che si lancia e colpisce con maggior forza dell’asta. Statarius uterque miles, sapevano combattere a piè fermo, ma la phalanx era immobile e unius generis, uniforme, mentre la romana acies era formata da diverse parti: hastati, i giovani, principes, triarii , e i velĭtes armati alla leggera, facili a dividersi e a riunirsi. Il soldato romano era ottimo nei lavori di fortificazione e quis ad tolerandum melior? Quale più bravo a sopportare la fatica?
Ad Alessandro sarebbe bastato perdere una sola battaglia per perdere la guerra; i Romani non furono piegati dalla sconfitta di Caudio 321 nel Sannio né da quella di Canne 216.
Se Al. avesse incontrato Sanniti e Cartaginesi avrebbe rimpianto i Persiani et cum feminis sibi bellum fuisse dixisset, avrebbe detto di avere combattuto con delle donne. I Romani continueranno a vincere “modo sit perpetuus huius qua vivimus pacis amor et civilis cura concordiae”.
Valerio Massimo gli rimprovera tre cose: di avere rinnegato suo padre, di avere preso abitudini persiane e di pretendere onori divini: “ nec fuit ei pudori filium, civem, hominem dissimulare” (Factorum et dictorum memorabilium libri[5], 9, 5, ext. 1), non si vergognò di nascondere il figlio, il cittadino, l’uomo.
Un’accusa di snobismo e di creazione di un falso mito.
Lucano[6]presenta Alessandro come un re pazzo e un bandito che ha avuto successo: proles vesāna Philippi,/ felix praedo " (Pharsalia, X, 20-21). Generato quale esempio non utile al mondo di come tante terre si trovino sotto il dominio di uno solo: "non utile mundo-editus exemplum, terras tot posse sub uno-esse viro"[7] (26- 27). Venuto dalle spelonche della Macedonia, disprezzò Atene vinta dal padre, e si precipitò tra i popoli d'Asia humana cum strage (31), mescolò fiumi sconosciuti con il sangue[8]: insanguinò con quello dei Persiani l'Eufrate, con quello degli Indiani il Gange, lui terrarum fatale malum (34), sidus iniquum- gentibus (35-36), stella infausta per i popoli. Infine fu la natura a imporre il termine della morte al re pazzo: vaesano …regi (v. 42).
Seneca nel De ira (40 d. C.) ricorda che Al. "Clitum carissimum sibi et unā educatum inter epulas transfōdit manu quidem suā , parum adulantem et pigre ex Macedone ac libero in Persicam servitutem transeuntem" (III, 17, 1). Non solo: Nam Lysimachum, aeque familiarem sibi leoni obiecit (2). Lisimaco se la cavò, ma poi commise a sua volta efferatezze enormi[9]. In una delle Epistole, Alessandro è presentato come esempio di quella voluntaria insania che è l'ubriachezza: ammazzò Clito "et intellecto facinore mori voluit, certe debuit " (82, 19). Più avanti (82, 23) dice che fu l'intemperantia bibendi a mandarlo alla tomba.
Nel De beneficiis [10] Seneca presenta Al. come un vesanus adulescens il quale seguiva le orme di Ercole e di Libero (Herculi Liberique vestigia sequens) ma con Ercole non aveva nulla in comune. Ercole infatti non vinceva per sé (Hercules nihil sibi vicit) : lui era malorum hostis, bonorum vindex, terrarum marisque pacator.
E’ il lato buono di Ercole che ha pure un dark side.
Alessandro invece fu "a pueritia latro gentiumque vastator, tam hostium pernicies quam amicorum, qui summum bonum duceret terrori esse cunctis mortalibus, oblitus non ferocissima tantum, sed ignavissima quoque animalia timeri ob malum virus" (I, 13, 3), dimentico che non solo gli animali più feroci ma anche i più vili sono temuti per il loro veleno
Alessandro era meno ricco di Diogene al quale poteva offrire meno di quanto egli poteva rifiutare. Diogene multo potentior, multo locupletior fuit omnia tunc possidente Alexandro; plus enim erat, quod hic nollet accipere , quam quod ille posset dare (V, 4, 4).
Alessandro era povero poiché non si accontentava mai: “tantum illi deest quantum cupit” (VII, 2, 6), tanto gli manca quanto ancora desidera. Quando si fu spinto sul mar Rosso plus deerat quam quā venerat (VII, 2, 5) gli mancava più terra di quella per dove era giunto.
Il saggio dopo avere contemplato il cosmo può dire parole che si addicono a Dio: “Haec omnia mea sunt!” perché non c’è nulla al di là del tutto quia nihil est extra omnia. (VIII, 3, 3)
Al era infelice: poiché aveva un soprannome discrepante con la piccolezza della terra.
Seneca in Ep. 91, 17 afferma che Al. fu infelice poiché apprese dalla geometria quam pusilla terra esset ; capì o avrebbe dovuto capire che non poteva essere grande: quis enim esse magnus in pusillo potest?
Vediamo Alexandros: anche secondo Pascoli non basterà l'immensa conquista compiuta a soddisfare gli illimitati desideri, o meglio il desiderio di infinito del re Alessandro Magno che, pentito della conquista, piange dicendo:"Montagne che varcai! dopo varcate,/sì grande spazio di su voi non pare,/che maggior prima non lo invidïate./Azzurri, come il cielo, come il mare,/o monti! o fiumi! era miglior pensiero/ristare, non guardare oltre, sognare: il sogno è l'infinita ombra del vero" (vv. 14-20).
Quindi piange: “E così, piange, poi che giunse anelo:/piange dall’occhio nero come morte;/piange dall’occhio azzurro come cielo” (Pascoli, Alexandros,vv. 41-43).
Dopo avere vinto Dario e occupato l’India, pauper est Alexander (Ep. 119, 7), si sente povero: scrutatur maria ignota, in oceanum classes novas mittit et ipsa, ut ita dicam, mundi claustra perrumpit, spezza le barriere del mondo.
Al. fu infelice anche per il fatto che lo spingeva la smania di devastare le terre altrui: “Agebat infelicem Alexandrum furor aliena vastandi” (Ep. 94, 62). Seneca prosegue dicendo che era simile alle bestie feroci quae plus quam exigit fames mordent. Mise il giogo a nazioni che Dario aveva lasciato libere. Cerca di seguire le orme di Ercole e Libero e ipsi naturae vim parat (94, 63), alla stessa natura prepara violenza.
Inoltre fu infelice perché aveva ammazzato Clito, perduto Efestione e si macerava ora per il rimorso ora per il rimpianto: id enim egerat ut omnia potius haberet in potestate quam adfectus (Ep. 113, 29), era riuscito a dominare tutto tranne le proprie passioni.
Seneca è coerente con le posizioni degli Stoici e pure dei Peripatetici che vedevano in Al. un tiranno e attribuivano i suoi successi alla fortuna.
Una tradizione confutata da Plutarco[11] nello scritto giovanile De Alexandri Magni fortuna aut virtute.
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Nelle Naturales quaestiones Seneca manifesta avversione contro gli storici di Alessandro : è meglio spengere i propri vizi piuttosto che raccontare ai posteri quelli degli altri: "quanto satius est sua mala extinguere quam aliena posteris tradere! "
Quanto potius deorum opera celebrare quam Philippi aut Alexandri latrocinia ceterorumque, qui, exitio gentium clari, non minores fuere pestes mortalium quam inundatio…" (III. Prefazione, 5).
Cfr. il capo come mivasma e pestis: l'Edipo re di Sofocle nei comfronti di Tebe. Il parricida incestuoso ppco prima di morire si purifica a Colono.
Suvgkrisi~ Germanico-Alessandro in Tacito.
Per gli uomini romani unum matrimonium è motivo di lode: Tacito fa l'elogio funebre di Germanico, morto, probabilmente, avvelenato in Siria da Pisone nel 19 d. C. , riportando l'opinione di chi lo anteponeva ad Alessandro Magno: avevano in comune il bell'aspetto, la stirpe nobile, la morte precoce tra genti straniere dovuta a insidie familiari, "sed hunc mitem erga amicos, modicum voluptatum, uno matrimonio, certis liberis egisse " (Annales , II, 73), ma questo era stato gentile con gli amici, temperante nei piaceri, sposato con una sola donna, con figli legittimi.
Al. Magno potrebbe entrare nella categoria degli uomini biasimati dall’antieroe Oblomov di Gončarov, personaggi e autori di romanzi i quali si danno tanto da fare ma nei quali manca “la simpatia per la vita, manca quel che voi chiamate umanità. Non c’è altro che amor di sé…. Voi credete che il pensiero possa fare a meno del cuore. No, il pensiero è reso fecondo dall'amore. Tendete la mano all'uomo caduto per sollevarlo, o piangete lacrime amare su di lui, se egli è finito, ma non lo schernite. Amatelo, riconoscete voi stesso in lui e trattatelo nel modo in cui trattereste voi stessi. Allora io vi leggerò e chinerò dinanzi a voi"[12].
Pesaro 28 luglio 2024 ore 11, 29 giovanni ghiselli.
p. s.
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[1] Patavium, 59 a. C. -17 d. C.
[2]Storia Dei Romani , vol II, p. 261.
[3] dopo la vittoria del re epirota, ottenuta nella battaglia di Eraclea (280 a.C.), Pirro lo inviò a Roma per dettare le condizioni di pace e restituire i prigionieri catturati al termine della battaglia.
[4] Vedremo quanto questa affermazione sia falsa e contraria all’obiettività “epica” (cfr. S. Mazzarino) della storiografia antica.
[5] Nove libri pubblicati nel 31 d. C.
[6] 39-65 d. C.
[7] "I versi di Lucano esprimono un giudizio forse esasperato e unilaterale, che però, riferito alla reputazione postuma di Al., è fin troppo vero" (Bosworth, Alessandro Magno, p. 199).
[8] Altro che incruentus!
[9] Nel 301 a Ipso in Frigia sconfisse e uccise Antigono Ciclope. Ebbe la Tracia e l'Asia minore occidentale, Seleuco quella orientale. Nel 285 divenne re di Macedonia dopo averne cacciato Pirro e Antigono Gonata. Nel 281 venne sconfitto e ucciso da Seleuco a Curupedio presso Magnesia al Sipilo. Seleuco poi fu assassinato da Tolomeo Cerauno che divenne re di Macedonia. Nel 279 il Cerauno fu ucciso dai Celti e Antigono Gonata, figlio di Demetrio Poliorcete e nipote di Antigono Ciclope divenne re di Macedonia.
[10] In sette libri completati nel 64 d. C.
[11] "Che profitto trarrà dalla lettura delle Vite del nostro Plutarco? La mia guida si ricordi a che cosa mira il suo compito; e imprima nella mente del suo discepolo non tanto la data della distruzione di Cartagine, quanto piuttosto i costumi di Annibale e di Scipione" Montaigne , Saggi, (del 1588), p. 206
[12] I. Gončarov, Oblomov (del 1859), p. 53.
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