"E' noto come Pompeo, il cui stesso nome (Magno) evocava il conquistatore macedone, cercasse fin da ragazzo di modellare la propria persona su quella di Al., adottandone anche i modi, e immaginando di essere colui che avrebbe ripetuto le sue conquiste in Oriente" [1].
Del resto anche Giulio Cesare guardava ad Al con ammirazione e invidia: in Spagna (61a. C.), in un momento di riposo (scolh'" ou[sh"), leggendo un libro sulle imprese di Al. pianse, e ne spiegò la ragione agli amici: era addolorato poiché giunto all'età alla quale Al. regnava su tante persone, egli non aveva ancora fatto nulla di splendido: "lampro;n oujdevn" (Plutarco, Vita di Cesare, 11, 6).
"Lo stesso può dirsi per Traiano, che a Babilonia celebrò riti sacrificali in onore di Al. e che, in aperta emulazione delle sue imprese, volle ridiscendere l'Eufrate fino all'Oceano, affermando nei suoi dispacci di essere andato oltre il punto raggiunto dal re macedone.
Con Caracalla (211-217, del 212 è la Contitutio Antoniniana) l'imitazione divenne una mania, fino al punto che l'imperatore romano ricreò la falange alessandrina, interamente macedone quanto a componenti ed equipaggiata con armamento autentico d'epoca" (Bosworth, p. 199).
Proemio di Arriano con i suoi criteri di scelta.
Arriano dice ajnagravfw, trascrivo come assolutamente vero quanto scrissero concordi (taujta; a[mfw) Tolomeo figlio di Lago e l'architetto Aristobulo. Quando invece non sono scritte allo stesso modo (ouj taujtav), farò una scelta prendendo quello che a me sembra più credibile (pistovtera) e degno di racconto ( ajxiafhghtovtera- a[xio"- ajfhgevomai, racconto ).
Sono entrambi piuttosto credibili perché parteciparono alla spedizione, inoltre Tolomeo divenne re, e per lui sarebbe più vergognoso (aijscrovteron) che per un altro mentire; poi scrissero dopo la morte di A. , quando erano lontane ajnavgkh kai; oJ misqov~ , costrizione e ricompensa.
1, 1 Filippo morì quando ad Atene era arconte Pitodèlo (336).
La datazione è un omaggio ad Atene. A. scese nel Peloponneso e si fece confermare comandante contro i Persiani. Solo gli Spartani dissero no. In primavera fece una spedizione contro la Tracia. in pochi giorni giunse al monte Emo, nel nord della Tracia .
Al. Sconfisse i Traci e superò l'Emo “O venuti dall’Haemo e dal Carmelo” (Pascoli, Alexandros, v. 8) e avanzò contro i Triballi che stavano al di qua del Danubio. Li sconfisse e giunse all'Istro (Danubio) che è il fiume più grande d'Europa e separa popoli macimwvtata, ta; me;n polla; Keltikav (3, 1), bellicosissimi, per lo più Celti. Poi varcò l'Istro contro i Geti, situati al di là del Danubio. Questi non resistettero: fobera; de; kai; th`~ favlaggo~ hJ xuvgkleisi~ (sugkleivw, chiudo-1, 4, 3), terribile era la compattezza della falange e violento l’assalto dei cavalieri biaiva de; hJ tw`n iJppevwn ejmbolhv.
“Bisogna ricordare che Greci e Macedoni non conoscevano staffe, né ferri da cavallo. Altrettanto doveva essere per i popoli dell’Asia, altrimenti questi non avrebbero tardato a mostrare la loro superiorità…Il fatto di montare un cavallo senza sella né staffe, ma con una semplice coperta fissata con una cinghia, rappresentava per i cavalieri una fatica supplementare”[2]. Anche nelle gare panelleniche sul cavallo montato non c’era sella né staffe.
La falange era uno schieramento rettangolare di origine tebana. A. lo componeva di 9000 fanti. I falangiti sono i pezeteri, compagni a piedi. pezevtairoi-peza caviglia, collo del piede- eJtai'ro"- Fanti erano anche gli ipaspisti-uJpaspisthv"-uJpaspivzw, sono scudiero, uJpov e ajspiv", scudo- il cui nucleo era l’ a[ghma, la guardia del corpo di Al.
La principale arma offensisa era la sarissa-savrisa- un’enorme lancia lunga quasi sei metri con una punta a forma di foglia e un’impugnatura, lunghe entrambe circa 50 centimetri. Il peso era di sette chili (Bosworth, p. 279). Lo scudo invece era piccolo. Armi sussidiarie erano una lancia più corta e una spada da fendenti.
Dopo queste vittorie, Al. sacrificò a Zeus Salvatore, a Eracle e all’Istro. Arrivarono ambasciatori anche dai Celti insediati sul golfo Ionio ( ejpi; tw'/ j jIonivw/ kovlpw/,1, 4, 6.) I Celti sono grandi di corpo, kai; mevga ejpi; sfivsi fronou`nte~ e hanno un gran concetto di sé. Al. chiese che cosa li spaventasse di più sperando di essere lui lo spauracchio. Essi invece “e[fasan dedievnai mhvpote oJ oujrano;~ aujtoi`~ ejmpevsoi” (1, 4, 8) risposero che il cielo una volta cadesse loro addosso. A. li congedò con le buone poi disse che erano ajlazovne~, dei fanfaroni. Tema archilochèo .
Quindi A. combatte contro Glaucia re dei Talaunti, popolo dell’Illiria.
Rivolta e distruzione di Tebe.
Poi c’è la rivolta di Tebe (335) che venne distrutta.
Arriano paragona pavqo~ tou`to JEllenikovn (1, 9, 1) ad altre sciagure elleniche. Questa colpì tutti i Greci per la grandezza della città, la violenza dell’azione e perché non era prevista tw'/ paralovgw/ (1, 9, 1).
La spedizione in Sicilia (415-413) non distrusse Atene; nemmeno Egospotami (405), Leuttra e Mantinea (371-362) ebbero tanti morti. Anche la sconfitta di Mantinea del resto colpì tw'/ paralovgw/ (1, 9, 4). Platea (427) era piccola. Melo e Scione più che sorpresa tra i Greci gettò vergogna su chi aveva compiuto l’azione (toi`~ dravsasin aijscuvnhn, I, 9, 5).
“Pur essendo cittadino ateniese, ed anzi arconte (145-146), Arriano non esita a dichiarare, nella stessa Anabasi, che la conquista di Melo fu una vergogna per gli Ateniesi. Questo “nuovo Senofonte” era un lettore ed imitatore di Tucidide; ma la sua “imparzialità” di storico lo induceva, in un caso come questo di Melo 416 a. C., a pronunciare un giudizio che Senofonte dedusse da Tucidide, ma che non è, sic et simpliciter, il giudizio tucididèo. Come in Senofonte, la devozione per gli dèi è elemento principe del suo pensiero stoico” (Mazzarino, Il pensiero storico classico, II 2, p. 188).
Isocrate e l'eccidio di Melo.
Nel Panegirico (del 380) Isocrate ricorda come moderata la punizione subita dai Meli, al pari di quella degli abitanti di Scione, nella Calcidica, avvenuta qualche anno prima. Infatti altri popoli dominatori non si sono comportati più mitemente ("pra/ovteron", 102) di loro, degli Ateniesi, che dunque devono essere giustamente lodati ("divkaiovn ejstin hJma'" ejpainei'n") poiché hanno tenuto a lungo il potere trattando con durezza solo pochissimi ribelli("ejlacivstoi" calephvsante""). Secondo il retore del quarto secolo Melo "alleata ribelle" è stata "doverosamente, anche se dolorosamente, punita"[3].
Le stragi perpetrate a Gaza oggi vengono commentate in modo analogo.
La posizione di Isocrate però cambia nel tempo. Più avanti infatti, "venticinque anni dopo, nel discorso Sulla Pace (356 a. C.) essa è profondamente mutata. Nel contesto della crisi della Seconda Lega e della "guerra sociale", Isocrate condanna retrospettivamente anche la prima esperienza imperiale; fa sue, in una serrata e sferzante invettiva, proprio quelle accuse all'impero che aveva respinto nel Panegirico (...) questa volta Isocrate non nomina i Melii né le altre "vittime" della consueta lista, ma il cenno è inequivocabile nella preterizione con cui si apre il lungo atto d'accusa:"gli episodi che vi ferirebbero di più e che più vi farebbero soffrire li tralascerò"(81); e si tratta certamente delle indifendibili e spietate punizioni inflitte alle città ribelli. Addirittura qui Isocrate giunge a dire (69) che, solo quando caddero sotto il dominio spartano, gli Ateniesi "finalmente capirono che non è giusto che i più forti dominino sui più deboli...La prospettiva è, insomma, quella tucididea, la diagnosi è quella dell'impero-tirannide...In questa prospettiva la repressione di Melo rientra tra gli episodi che solo per non infierire sull'uditorio si preferisce non ricordare, a tal punto suonano "amari"(pikrav) e " dolorosi"(lupou'nta). Pure e semplici repressioni di città incolpevoli. Né sarà male ricordare, a proposito di lupou'nta, che proprio Senofonte-a suo tempo uno dei bersagli di Panegirico 100-14-aveva parlato del "dolore" degli Ateniesi (penqou'nte" eJautou;"), all'indomani di Egospotami, al ricordo "di quello che avevano fatto ai Melii"(Hell ., II, 2, 3).
L'ultimo Isocrate, infine, che nell'estrema vecchiezza scrive il Panatenaico (339,) concede ormai che la repressione di Melo, Scione, Torone...furono "errori" da parte di Atene (63, 70)"[4].
La tragedia di Tebe fu fatta risalire all’ira divina non inverosimilmente “oujk e[xw tou` eijkovto~ ej~ mh`nin th;n ajpo; tou` qeivou ajnhnevcqh” ( Arriano I, 9, 7) per il tradimento dei Tebani durante le guerre persiane, e per i fatti di Platea del 427.
La strage dei Plateesi voluta dai Tebani non era cosa da Greci.
Giustificazionismo o storicismo non laico di Arriano.
"Se "storicismo" significa un'accettazione della storia con le sue implicazioni autoritarie...forse questa parola, meglio che a Platone, potrà adattarsi (sia pure con infinite riserve) a Isocrate e Senofonte” afferma Mazzarino (Il pensiero storico classico, I, p. 368). E più avanti (p. 369):
“ In questa razionalità del reale, è dunque, se si vuole, quel tanto di "storicismo che troviamo in Isocrate e Senofonte ".
E pure nel senofonteo arriano.
Il processo ai vinti e la loro condanna a morte. Platea etc.
Ricordiamo cosa dissero i Plateesi di Tucidide in loro difesa prima di subire l’eccidio ( non meno di duecento persone) voluto dai Tebani alleati degli Spartani. I cittadini di Platea devono illustrare le proprie benemerenze per cavarsela: ricordano innanzitutto la loro partecipazione alle guerre persiane, soli tra i Beoti ("movnoi Boiwtw'n", Tucidide, III, 54, 3). Sostengono che nella guerra dl Peloponneso in corso , minacciati dai Tebani e respinti dagli Spartani, non hanno tradito gli Ateniesi i quali li hanno soccorsi, e con tale fedeltà non hanno commesso alcuna ingiustizia. I Tebani che li odiano, all'epoca parteggiarono per i barbari. I Plateesi dunque si appellano, nobilmente, all'onore degli Spartani che rimarebbe macchiato da un eccidio tanto ingiusto: "bracu; ga;r to; ta; hJmevtera swvmata diafqei'rai, ejpivponon de; th; duvskleian aujtou' ajfanivsai", III, 58, 2), è un attimo distruggere i nostri corpi, ma sarà faticoso cancellarne il disonore. Viene ancora impiegato il linguaggio aristocratico dell'onore e quello religioso della pietas tradizionale che ingiungeva di non ammazzare i supplici:" oj de; novmo" toi'" {Ellhsi mh; kteivnein touvtou" ( III, 58, 3)
Quindi parlarono i Tebani perorando lo sterminio dei Plateesi con l'argomento che essi sono sempre stati complici degli Ateniesi oppressori dei Greci. La sentenza fu di morte per non meno di duecento Plateesi ("dievfqeiran de; Plataiw'n me;n aujtw'n oujk ejlavssou" diakosivwn", III, 68, 2) e per i venticinque Ateniesi che erano rimasti con loro nell'assedio.
"Nelle orazioni dei Plateesi e dei Tebani- commenta Jaeger- dopo la presa dell'infelice Platea, dinanzi alla commissione esecutiva spartana, la quale per salvare le apparenze, dà al mondo lo spettacolo d'un dibattimento giudiziario, in cui i confederati degli accusatori sono ad un tempo giudici, è mostrata l'incompatibilità tra guerra e giustizia. L'opera di Tucidide è ricca di contributi alla questione delle parole d'ordine politiche e della relazione tra ideologia e realtà nella politica. Gli Spartani, quali rappresentanti della libertà e del diritto, stando al loro assunto sono costretti a volte all'ipocrisia morale, mentre in genere fanno coincidere le belle parole d'ordine col proprio interesse"[5].
Solo la casa di Pindaro fu risparmiata aijdoi` th`/ Pindavrou (Arriano, 1, 9, 10). Arcadi, Elei, Etoli chiesero comprensione, gli Ateniesi su proposta di Demade si congratularono. Alessandro richiedeva i politici antimacedoni: Demostene, Licurgo, Iperide, Efialte, Caridèmo. Gli Ateniesi non li consegnarono. Caridèmo passò in Asia al servizio di Dario (10, 6).
Polibio afferma che Al. distrusse Tebe per incutere paura a tutti i Greci e distoglierli dall’idea della ribellione e che pavnte~ hjlevoun me;n tou;~ Qhbaivou~, wJ~ a[dika kai; deina; peponqovta~, diedikaivou-diadikaiovw- approvo- de; th;n pra'xin tauvthn oujdei;~ jAlexavndrou (38, 2, 14), tutti compiangevano i Tebani poiché avevano subito ingiustizie e atrocità mentre nessuno giustificò questa azione di Al.
I Tebani poco dopo ricostruirono la loro città: “oJ ga;r para; tw'n ejkto;~ e[leo~ ouj mikro;n ejpivceiro;n ejsti toi'~ ajdivkw~ ajklhrou'sin-ajklhrevw- (38, 3, 1), infatti la compassione degli altri è una ricompensa non piccola per i diseredati.
La punizione di Tebe viene ricordata come esemplare (paravdeigma, 4, 23, 8) dai membri del consiglio regio di Filippo V di Macedonia che volevano tenere in rispetto gli Spartani (220 a. C.).
Plutarco racconta che quando Al. seppe che i Tebani intendevano ribellarsi e che erano d’accordo con gli Spartani, condusse l’esercito attraverso le Termopili dicendo che voleva fosse chiaro a Demostene che era un uomo (Dhmosqevnei…ajnhvr fanh'nai) arrivando sotto le mura di Atene. L’oratore ateniese infatti lo aveva chiamato pai'da , bambino quando era tra gli Illiri e meiravkion, ragazzo, quando era sceso in Tessaglia (Vita, 11, 7).
Dell’eccidio di Tebe Plutarco ricorda l’episodio di Timoclea, l’Antigone tebana che rivendica di essere sorella di Teagene, comandante della falange tebana che aveva combattuto a Cheronea contro Filippo (338). Al. non si comportò come Creonte, anzi ammirò la sua risposta. Quindi perdonò gli Ateniesi forse poiché era già sazio nella sua ira, come i leoni (mesto;~ …ton; qumovn w{sper oiJ levonte~ (13, 2). In seguito fu generoso con i Tebani sopravvissuti.
Pesaro 29 luglio 2024 ore 8, 32 giovanni ghiselli
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[1] A. B. Bosworth, Alessandro Magno, Cambridge University Press, 1988, trad. it. RCS Quotidiani Spa, Milano, p. 198.
[2] J. G. Droysen, Alessandro Il Grande, p. 90.
[3]Canfora-Corcella, Lo Spazio Letterario Della Grecia Antica , vol. I, tomo, I, p. 468.
[4]Canfora-Corcella, op. cit., p. 469.
[5]Op. cit., p. 669.
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