Parmenione si impadronisce del tesoro a Damasco con l’aiuto del prefetto traditore del suo re Dai. Poi sarà punito.
infatti gli dèi sono semper ultores ( Curzio, III, 13, 17).
Lo afferma anche Plutarco in De sera numinis vindicta.
Ci fu un saccheggio di grandi ricchezze: “non sufficiebant praedantium manus praedae” III, 13, 11, le mani dei saccheggiatori non bastavano per il saccheggio
Arriano. Intanto il re spartano Agide chiedeva denaro ai satrapi e riceveva trenta talenti e dieci triremi da Autofradate. (Come Licurgo da Ciro il Giovane alla fine della Guerra del Peloponneso)
Al. mosse verso la Fenicia. Dario mandò un messaggio chiedendo amicizia e la restituzione dei suoi familiari. Al. rispose che vendicava i Greci, suo padre e il re sasanide Arsete, e che adesso il signore di tutta l’Asia era lui. Dario non poteva scrivergli da pari a pari ejx i[sou (2, 14, 9).
E’ il diritto del più forte. Si fece portare innanzi gli ambasciatori dei Greci mercenari di Dario e li trattò bene: un tebano, Dionisodoro, per la sua vittoria ai giochi olimpici (2, 15, 4), l’ateniese Ificrate, figlio dello stratego Ificrate, per amicizia verso la città di Atene, mentre tenne sotto sorveglianza lo spartano Euticle, cittadino di una città nemica.
Biblo e Sidone gli si consegnarono 2, 16, 7.
Curzio Rufo Libro IV. Dopo Isso.
Dario intanto che era entrato in battaglia torreggiante sul carro curru sublimis inierat proelium, più con l’atteggiamento del trionfatore che del combattente, triumphantis magis quam dimicantis more, fuggiva per loca, quae prope immensis agminibus impleverat, inania et ingenti solitudine vasta (4, 1, 1) per luoghi, che aveva riempito di schiere quasi innumerevoli, oramai vuoti e desolati in un deserto smisurato.
Luoghi prefigurati dall’albero secco del mosaico trovato nella casa del Fauno di Pompei..
Dario mandò una lettera con proposte di pace.
Alessandro rispose ricordando le impia bella 4, 1, 12, di Maratona e Salamina e attribuì alle trame persiane anche l’assassinio di Filippo. Il giovane eroe si identifica con gli dèi ultores.
Più avanti, accingendosi a conquistare Persepoli (331 a. C.) Alessandro ricorda alle truppe che nessuna città era più ostile ai Greci della sede regia degli antichi monarchi persiani “ hinc Dareum prius, dein Xerxen Europae impium intulisse bellum” (5, 6, 1) Dario e Serse erano partiti di lì portando guerra all’Europa.
“La guerra di Dario-e del suo antenato Serse- è definita “empia”…quindi appare come l’opposto del bellum iustum dei Romani, della guerra fatta sotto la protezione degli dèi, per contrastare le indebite pretese dei nemici”[1].
Ma vedi il discorso di Calgaco
Splendida condanna dell'imperialismo dei Romani e delle loro guerre di rapina e sterminio pronuncia Calgaco, il capo dei Caledoni ribelli nell'Agricola[2] di Tacito:" Raptores orbis, postquam cuncta vastantibus defuere terrae, mare scrutantur: si locuples hostis est, avari, si pauper, ambitiosi, quos non Oriens, non Occidens satiaverit: soli omnium opes atque inopiam pari adfectu concupiscunt. Auferre trucidare rapere falsis nominibus imperium, atque ubi solitudinem faciunt, pacem appellant " (30), ladroni del mondo, dopo che alle loro devastazioni totali vennero meno le terre, frugano il mare: se il nemico è ricco, avidi, se povero, tracotanti, essi che né l'Oriente né l'Occidente potrebbe saziare: soli tra tutti bramano i mezzi e la loro mancanza con pari passione. Rubare, massacrare, rapire con nome falso chiamano impero e dove fanno il deserto lo chiamano pace.
Un topos che continua nelle Ultime lettere di Iacopo Ortis di Ugo Foscolo:"vi furono de' popoli che per non obbedire a' Romani ladroni del mondo, diedero all'incendio le loro case, le loro mogli, i loro figli e sé medesimi, sotterrando fra le gloriose ruine e le ceneri della loro patria la loro sacra indipendenza"[3]. E più avanti:" quando i Romani rapinavano il mondo, cercavano oltre i mari e i deserti nuovi imperi da devastare, manomettevano gl' Iddii de' vinti, incatenavano principi e popoli liberissimi, finché non trovando più dove insanguinare i loro ferri li ritorceano contro le proprie viscere"[4].
Repello igitur bellum, non infero et di quoque pro meliore stant causa (IV, 1, 13), faccio dunque una guerra di difesa e gli dèi sostengono la causa giusta. E’ una “guerra preventiva”, ed è un “Dio è con noi”. Ti restituirò le donne se verrai come supplice: “et vincere et consulere victis scio”, so vincere e prendermi cura dei vinti. Ricordati che scrivi al tuo re.
Alessandro poi scese in Fenicia: a Biblon e a Sidone.
Efestione doveva scegliere un re di Sidone. Gli indicarono uno della famiglia reale ma povero, Abdalonimo: “Causa ei paupertatis, sicut plerisque, probitas erat” 4, 1, 20.
Alessandro gli domandò qua patientia avesse sopportato la povertà. Ed egli rispose che sperava di sopportare il regno con lo stesso animo: “ utinam inquit eodem animo regnum pati possim! Hae manus suffecēre desiderio meo: nihil habenti nihil defuit”, 4,1, 25 a chi non possiede niente non manca niente.
Cfr Platone, Apologia, 31 dove Socrate dice: “ testimone della verità di quanto dico è la mia povertà”.
Secondo Diodoro questo episodio avvenne a Tiro e fu un esempio dei mutamenti inaspettati prodotti dalla fortuna (17, 47).
Questo topos è presente nella letteratura italiana. Nell'episodio di Erminia tra i pastori della Gerusalemme liberata un vecchio, pentito delle "inique corti" e fattosi rusticus, spiega a Erminia, giunta in fuga la notte precedente dall'accampamento cristiano sulle rive del Giordano, in quale luogo sereno e lontano dalla guerra si trovi:"O sia grazia del Ciel che l'umiltade/d'innocente pastor salvi e sublime,/o che, sì come folgore non cade/in basso pian ma su l'eccelse cime,/così il furor di peregrine spade/sol de' gran re l'altere teste opprime,/né gli avidi soldati a preda alletta/la nostra povertà vile e negletta.// Altrui vile e negletta, a me sì cara/che non bramo tesor né regal verga,/né cura o voglia ambiziosa o avara/mai nel tranquillo del mio petto alberga./Spengo la sete mia ne l'acqua chiara,/che non tem'io che di venen s'asperga,/e questa greggia e l'orticel dispensa/cibi non compri a la mia parca mensa"[5].
Aminta che comandava i mercenari greci di Dario si reca in Egitto. Era nemico di entrambi i re e sempre fluttuante. Aveva 4000 Greci. Arrivò fino a Pelusio, sulla foce orientale del Nilo, poi marciò verso Menfi, l'antica capitale dell'Egitto. Gli Egiziani sono vana gens et novandis quam gerendis aptior rebus (IV, 1, 30), gente fatua e più adatta alle innovazioni che alle realizzazioni.
Alla fine fu sconfitto e ucciso da Mazace, satrapo dell'Egitto.
Intanto Agide (re di Sparta dal 338 al 331) preparava la guerra contro Antipatro, prefetto della Macedonia. I Cretesi ondeggiavano. Ma queste erano scaramucce: "unum certamen ex quo cetera pendebant, intuente fortuna", 4, 1, 40, la fortuna guardava quella sola lotta da cui dipendeva tutto il resto. Tale è adesso la guerra in Ucraina.
Arriano. Eracle (sono tre) e Dioniso (due).
A Tiro venerano un Eracle più antico di quello argivo figlio di Alcmena, fin da molte generazioni prima di Cadmo (Anabasi di Alessandro, 2, 16, 1).
L’Eracle argivo invece è dell’età di Edipo figlio di Laio, di Labdaco, di Polidoro, di Cadmo, di Agenore[6]. L’Eracle di Tiro è quello venerato a Tartesso sulle colonne d’Eracle perché Tartesso è una colonia fenicia (Arriano, 2, 16, 4).
Quanto a Gerione custode delle vacche, era un re dell’Epiro come afferma Ecateo ( Arriano, 2, 16, 6).
C’è pure un terzo Eracle egiziano (2, 16, 2). Arriano menziona Erodoto il quale sostiene che gli Egiziani venerano Eracle tra i dodici dèi (2, 16, 3). In II, 43 Erodoto considera Anfitrione e Alcmena originari dell’Egitto, ed Eracle una divinità antica cui giustamente i Greci dedicano culti diversi (II, 44).
In effetti le funzioni di Eracle differiscono in diverse letture del mito.
Il mito infatti può avere sottolineature diverse ed essere usato con significati vari, come una parola del vocabolario.
Eracle, per esempio, si presta a essere utilizzato nella poesia con funzioni differenti a volta addirittura opposte. E' un'idea che viene precisata da un saggio in inglese di G. B. Conte. Egli nota che ogni mito (con le sue varianti) possiede una pluralità di significati che si aggregano intorno a una funzione tematica fondamentale. Ma quando un poeta utilizza un mito o un carattere mitico, egli opera attraverso una selezione, riorientando la storia nella direzione del suo testo. Eracle è stato impiegato dai poeti come eroe civilizzatore, come maschio esuberante nelle faccende sessuali (fino al punto di diventare lo schiavo di Onfale) ma è anche un insaziabile mangiatore e un intemperante bevitore di vino[7]; una figura tragica che impazzisce poi ammazza i figli e la moglie[8]; il mitico progenitore dei re spartani e così via. Lo studioso procede in quella che chiama enumeratio chaotica , poi chiede: vi sareste aspettato che il sofista Prodico (come Senofonte riferisce nei suoi Memorabili II. 1. 21-34) avrebbe un giorno inventato una favola[9] il cui protagonista era Eracle, ma questa volta come esempio di saggezza e autocontrollo, come paradigma di virtù morale? Prodico evidentemente ha fatto una scelta tra i vari aspetti di Eracle. In fondo Al. si identifica con tutti questi aspetti dell’eroe.
Sentiamo alcune parole del testo di Conte:"For poets, myth is like a word contained in a dictionary: when it leaves the dictionary and enters their text, it retains only one of its possible meanings "[10], per i poeti il mito è come una parola contenuta in un dizionario: quando essa lascia il dizionario ed entra nel testo, mantiene soltanto uno dei suoi possibili significati.
Allo stesso modo gli Ateniesi venerano un altro Dioniso, figlio di Zeus e di Core, e il canto Iacco dei misteri viene intonato a questo Dioniso, non a quello tebano figlio di Zeus e Semele (Arriano, 2, 16, 3).
Così forse si spiega la differenza tra il Dioniso feroce delle Baccanti e quello di Omero, un dio impaurito (Iliade, VI, 135 Diwvnuso" de; fobhqeiv" ) e infantile, che, minacciato da Licurgo, si getta in mare dove Tetide lo accolse in seno spaventato e tremante per le grida dell’uomo. Poi c’è quello ridicolo delle Rane di Aristofane. Aristofane nelle Rane rappresenta Dioniso che fugge terrorizzato da Empusa tra le braccia del suo sacerdote (v. 297) e che viene apostrofato dal servo Xantia con:" oh tu, davvero il più vigliacco degli dèi e degli uomini!"(v. 486). Il dio se l'era voluta, cacandosi addosso dalla paura (v. 479). Anche Dioniso è un modello per Al. che talora manifesta crudeltà e ferocia, talora delicatezza d’animo, talora anche volgarità.
I Tiri non vollero accogliere Al. in città 332. Al. disse che era necessario conquistarla. Di notte gli parve di dare l’assalto alle mura di Tiro e che Eracle gli desse il benvenuto e lo introducesse in città (to; de; JHrakleva dexiou'sqai te aujto;n janavgein ej" th;n povlin, Arriano, 2, 18, 1). Cfr. Plutarco, Durante l’assedio vide in sogno Eracle che gli dava il benvenuto e lo chiamava dalle mura (Vita, 24, 5.).
Il contrario fa Ercole con Marco Antonio. Si sente una musica in aria, o sotto terra, davanti al palazzo di Cleopatra; un soldato chiede: “It signs well, does it not?” E un altro “No”. Allora “What should this mean?” E il pessimista: “’Tis the god Hercules, whom Antony loved, Now leaves him” (Shakespeare, Antonio e Cleopatra, 4, 3).
T. S. Eliot: “the God Hercules/Had left him, that had loved him well” (Burbank with a Baedeker, Bleistein with a cigar (1920).
Antonio, al pari di Alessandro, si vantava di discendere da Eracle e di essere parente di Dioniso poiché ne imitava il modo di vita (Plutarco, Vita di Antonio, 60, 4-5). Ci furono segni brutti mentre Antonio soggiornava a Patrasso: il tempio di Eracle andò in fiamme colpito dal fulmine e ad Atene il Dioniso della Gigantomachia fu fatto cadere dal vento dall’acropoli nel teatro.
Giustino afferma che i Tiri accolsero Al. con la guerra incitati dall’esempio di Didone che aveva cercato di conquistare l’Africa: si vergognavano di essere meno coraggiosi di una donna (XI, 10, 13).
Il vate Aristandro interpretò il sogno di Alessandro con Eracle dicendo che l’impresa sarebbe stata condotta xu;n povnw/…o{ti kai; ta; tou` JHraklevou~ e[rga xu;n povnw/ ejgevnetw (2, 18, 1).
L’assedio di Tiro infatti fu mevga e[rgon, durò dal febbraio all’agosto del 332. I Tiri sembravano essere in vantaggio in quanto tw`n te Persw`n e[ti qalassokratouvntwn (2, 18, 2). I Persiani ancora dominavano il mare.
Alessandro dirigeva ogni cosa personalmente, lovgw/ ejpaivronto~, incitando a parole, e alleviando con premi chi si affaticava distinguendosi con virtù kat j ajreth;n ponoumevnou~ (2, 18, 4).
Lovgo" povno" e ajrethv sono gli ingredienti del successo.
Anche durante questo assedio Al. contribuì a creare il proprio mito drammatizzandosi: attraverso un ponte di legno sospeso tra una torre di legno e le mura della città salì da solo sul muro, senza guardarsi dall’invidia della fortuna né temere i nemici ma avendo come spettatrice del suo valore l’armata che aveva già vinto i Persiani (Diodoro, 17, 46).
Altre 80 navi fenicie si aggiunsero all’armata di Al. (2, 20, 1) e i regnanti di Cipro, saputo di Isso, mandarono 120 navi al vincitore (2, 20, 3). I Tiri non accettarono la battaglia navale (2, 20, 9).
In luglio-agosto Tiro cadde. Al. rese onore a Eracle e organizzò una gara ginnica nel santuario e una corsa con fiaccole (ajgw'na gumniko;n ejn tw'/ iJerw'/ kai; lampavda, Arriano, 2, 24, 6).
Al. non smette di pensare agli agoni nemmeno dopo avere vinto una battaglia.
Come Odisseo in questo caso che, giunto a Itaca, neppure là era sfuggito alle prove (eij" jIqavkhn, oujd j e[nqa pefugmevno" h\en ajevqlwn , Odissea, 1, 18). A Odisseo però vennero imposte.
Dario offrì proposte di pace regali (cedeva l’impero fino all’Eufrate) e Parmenione disse che lui se fosse stato Alessandro avrebbe accettato.
Al. rispose che anche lui, se fosse stato Parmenione, avrebbe fatto così.. “kai; aujto;~ a]n, ei[per Parmenivwn h\n, ou{tw~ e[praxen (2, 25, 2), ma era Al.
Battuta da teatro che sottolinea l’unicità dell’eroe.
Alessandro aggiunse che era già tutto suo comunque.
Curzio Rufo
Tiro incoraggiata da Cartagine non apre le porte ad Al.: "quippe Carthaginem Tyrii condiderunt" (IV, 2, 10).
Tiro era la madre patria di Cartagine:"Urbs antiqua fuit (Tyrii tenuere coloni) /Karthago", Eneide, I, 12-13, c'era una città antica, la fondarono coloni di Tiro, Cartagine.
Da Tiro proveniva anche Cadmo, il fondatore di Tebe.
Cfr. Euripide, Fenicie, 638-639: “Kavdmo" e[[mole tavnde ga'n-Tuvrio"”, Cadmo di Tiro giunse in questa terra.
Avere tradizioni antiche significa nobiltà e minore acquiescenza. Al. del resto aveva già distrutto Tebe. Al. manda araldi che vengono assassinati contra ius gentium, 4, 2, 15.
In Livio al contrario sono gli ambasciatori a commettere un sopruso: mandati da Roma a Chiusi assediata dai Galli Senoni nel 390 a. C. legati contra ius gentium arma capiunt” (5, 36, 6).
Al. ne fece motivo di incitamento alla guerra , inoltre disse che aveva sognato Ercole il quale gli porgeva la destra. Egli era haudquaquam rudis tractandi militares animos, 4, 2, 17, per niente incapace.
Dapprincipio le cose andavano male per i Macedoni: allora "quod in adversis rebus solet fieri alius in alium culpam referebant" (IV, 3, 7), mentre avrebbero dovuto lamentarsi de saevitia maris. In un momento di grave difficoltà per la flotta macedone periti ignaris parebant, 4, 3, 18 gli esperti obbedivano agli inesperti, e i comandanti, per paura di morire obbedivano agli ordini. C’è confusione.
I Cartaginesi incoraggiavano i Tirii ma non portavano aiuto poiché avevano i Siracusani (Agatocle) sbarcati in Africa, vicini a Cartagine.
Agatocle è stato tiranno di Siracusa dal 317/316 a.C. e basileus di Sicilia dal 307 a.C. o dal 304 a.C. fino alla morte (289) La campagna africana di Agatocle si colloca nel 310. Qui siamo nel 332 e dunque c’è un erroe cronologico di Curzio.
Pesaro 31 luglio 2024 ore 12 giovanni ghiselli
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[1] G. Cipriani, op. cit., p. 183.
[2] Del 98 d. C.
[3] 28 ottobre 1797 .
[4] Ventimiglia, 19 e 20 febbraro.
[5] Gerusalemme liberata, VII, ottave 9-10.
[6] Cfr. Edipo re vv. 266-268:"cercando di prendere l'autore manuale della strage/per il figlio di Labdaco, di Polidoro e anche/ di Cadmo che li precedeva e dell'antico Agenore".
[7]Funzione assunta nell'Alcesti di Euripide.
[8]Nell'Eracle di Euripide.
[9]Quella di Eracle al bivio.
[10] Gian Biagio Conte, Aristaeus, Orpheus, and the Georgics: Once Again , in Poets And Critics Read Vergil, , p. 52.
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