giovedì 30 aprile 2020

La politica come caleidoscopio

La politica, come un caleidoscopio, dispone in maniera diversa i suoi attori, pezzetti di vetro colorati che ruotano assumendo forme diverse. A volte i personaggi mutano la maschera come i serpenti la pelle, talora il ruolo rimane lo stesso, però cambia l’interprete. Faccio una previsione. Il volgere delle stagioni dirà quello che vale.
Salvini verrà messo in soffitta “tra i materassi logori e le ceste”,  il busto di Orban e una foto della Le Pen. Mancherà solo “Loreto impagliato”.
Per il pensionamento della Meloni ci vorrà probabilmente più tempo. La Giorgina è più lucida: non ha fatto l’errore madornale di candidare alla presidenza di una regione importante, civile, amministrata bene, una persona che non aveva alcuna possibilità di vincere.
Anche Conte  dovrebbe durare. Sta recitando con apprezzabile energia la parte che il destino gli ha dato ultimamente. Si è rivalutato agli occhi di molti, quorum ego.
Sostiene umanamente che la salute, ossia la sopravvivenza di noi superstiti, deve contare più dell’economia. Lo stesso afferma con forza anche il ministro della sanità il ragazzo di Lucania, un italico schietto: appena un po’ grecizzato, per niente celtizzato tanto meno germanizzato.  Gli rendo onore e di ciò faccio bene.
Saluti
giannetto da Pesaro

Le scuole restano chiuse. E gli stadi?




I “signori” del calcio a partire dal presidente federale Gravina dicono che se il campionato di quest’anno saltasse del tutto per uno stop definitivo, ne conseguirebbe la morte del calcio.
Secondo me e per tanti altri  italiani e ancora di più per le donne italiane benedette da Dio,  la morte del calcio è meno dolorosa della morte seguita dalla collocazione nelle fosse comuni di una sola persona sparita per contagio. Spero che le menti incantate dalle sirene del business calcistico non si lascino stregare anche da questo nefando mormorio di protesta per la chiusura degli stadi. Se le stelle del calcio dovessere impoverirsi, cosa molto improbabile,  magari diventerebbero meno povere in vari altri sensi
giovanni ghiselli

La storia di Päivi. Capitolo 22. La Finlandia senza calore né colore

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La Finlandia senza calore né colore. L’olocausto della mosca

Nei due giorni seguenti, Päivi mi fece da guida indicandomi gli aspetti tipici della sua terra: i laghi, i boschi, le saune. Non c’era molto di più. Mancava la storia, difettavano lo spessore e la nobiltà dell’antico.
Alla luce del giorno distinguevo gli abeti dalle betulle e potevo vedere qualche uccello palmipede pedalare nell’acqua. Però i colori delle chiome vizze degli alberi non erano vivi, la bianca cintura delle betulle non era una pelle sugosa come favoleggia il Kalevala, e il movimento delle zampe palmate e fangose di quei pennuti acquatici era meccanico.
Il volto di Päivi era inerte e inespressivo. Il destino segnato invece si appressava con i chiari significati della la fine.
I fiori ombrosi e ingobbiti mi facevano rimpiangere i papaveri ardenti e le spighe itifalliche del nostro paese assolato.
Anche i colori del cielo rischiarato da un sole sfuocato[1] erano smorti: piccole nuvole bianche, spinte da un vento gelido, passavano velocemente tra quella terra improduttiva, senza ricordi, e l’etere, pallido come le facce e le teste scolorite delle poche persone che giravano per le strade semi - deserte di quel luogo desolato.
La Finlandia delle donne più amate da me, non era la mia terra promessa.
Ovunque mancava il colore, mancava il calore, mancava la forza della vita. Insomma passai due giorni penosi e tre notti tristi.
Cominciavo a temere che l’amore con Päivi fosse una sorte di mésalliance, l’unione provvisoria e precaria tra due persone di stato, carattere e costumi disuguali, se non addirittura di specie diversa.
La creatura concepita in luglio, se fosse nata sarebbe potuta riuscire come certe figure mitologiche bimembri, quali erano, per esempio, gli acri centauri nati da una nube e da Issione. Ecco perché. Con il tempo ho imparato che la felicità difficilmente si sposa con il desiderio che l’aveva invocata.
Finalmente, il 23 pomeriggio, quando quel sole obnubilato, si stava già spengendo del tutto tra le foglie moribonde degli alberi, Päivi e io ci salutammo con un triste brindisi a base di birra. Poi lei partì, diretta a nord, ancora più a nord, con la bianca Volkswagen, e non l’ho vista mai più. Se non in fotografia dove anzi l’ho contemplata più volte, a lungo.
Rimasi un altro giorno a Yväskylä, poiché l’aereo prenotato per il ritorno partiva solo il 26 pomeriggio.
Dopo la dipartita della donna pregnante, feci un giro per il paese scrutando i pochi passanti bianchi come le erme funerarie, mentre tutte le vie si abbuiavano nel crepuscolo freddo. Speravo di vedere e riconoscere la dolce e bella Helena, o almeno una che le somigliasse, magari con un bambino di due anni e mezzo, e senza quel Puntila padre. Ma non la incontrai.
Quindi tornai nel collegio studentesco. Andai a salutare un’amica di Päivi, conosciuta e frequentata nel lungo, sitibondo, felice mese di Debrecen. Si chiamava Anneli: era bionda, carina, gentile. Mi accolse con simpatia, quale benevola Eumenide, e, dopo i saluti, riprendemmo un discorso sulla storia romana che a lei interessava. Mi faceva domande, mi ascoltava con attenzione, e replicava con intelligenza.
Ne ricavai la sensazione angosciante di avere più cose da dire con lei che con la donna incinta di me rimasta spesso silente e quasi ostile come un’Erinni, da quando mi aveva visto arrivare, inopportuno, in Finlandia. 

Verso le dieci tornai nel monolocale e scrissi una lettera ad Antonella, l’amica romana dell’ultima Debrecen, descrivendole la mia situazione sentimentale e mentale penosa, e chiedendole cosa dovevo fare, una volta tornato in Italia. La mia confusione era totale. Mi consiglierà di studiare il finlandese e di sposare Päivi che era la donna giusta per me. Quattro anni più tardi l’amica, forse ricreduta, mi ospitò per una notte d’amore con la supplente - amante Ifigenia, mediterranea, mora, abbronzata, calda, vivace, durante una gita scolastica a Roma.
Avevamo affidato i nostri allievi a dei colleghi più seri di noi due, a vizio di lussuria tanto rotti da posporre ogni funzione alla libidine.
Quando ebbi concluso la lettera, affettai e mangiai del salame, non molto invero, ma bevvi un’altra birra non piccola, e bruciai sadicamente, completamente, una mosca che mi disturbava parecchio. Prima di andare a letto, feci gesti futili per impiegare il mio tempo inutile con qualche parvenza di attività. L’abito letterario mi fece venire in mente “ ho misurato la mia vita a cucchiaini di caffè”[2].
Veramente già in questa occasione tragica, come poi la notte del pozzo di Vernicino, tra il 12 e il 13 giugno del 1981, pensai che dovevo scrivere una storia d’amore, anzi la storia delle mie storie d’amore con le finlandesi.
 “Vennero donne con proteso il cuore/ognuna dileguò, senza vestigio”[3], poteva essere l’epigrafe. Con il passare del tempo infatti diverse donne e donne diverse mi avrebbero dato retta per un poco di tempo. Poi mi avrebbero lasciato solo tutte quante, tranne un paio lasciate da me.
Chissà se loro pensavano invece che a dileguarmi invece ero stato sempre io?
Tornato in Italia, cercai di iniziare il racconto di queste storie, ma non avevo i mezzi, cioè le grandi letture necessarie per esprimere sentimenti pur forti in maniera interessante per chi non li aveva vissuti. Il mio pathos senza cultura era soggettivo, noioso, o ridicolo. Gli mancava la dimensione e la categoria dell’Universale necessaria per farsi leggere.
Me ne resi conto e rinunciai a scrivere, per leggere e studiare dalla mattina alla sera. L’amore per Päivi non mi lasciava desiderare altre femmine umane. Tanto meno dei maschi umani o bestiali, lettore, non equivocare!
Dovevo studiare per diventare degno di lei. La mia testa funzionava così.



[1] Mi perdoni la blasfemia la santa fiamma che nutre la vita, il primo fra tutti gli dèi, ma in Grecia e anche in Italia, il suo nume è del tutto diverso
[2] Cfr. T. S. Eliot, The love song of J. Alfred Prufrock: “ I have measured out my life with coffee spoons”, v. 51
[3] Guido Gozzano, La signorina Felicita ovvero la Felicità, v. 259.

mercoledì 29 aprile 2020

Salvini e il suo modello ungherese




Salvini occupa le camere del nostro Parlamento seguendo le orme dell’Ursus Pannonius che ha sottomesso e annichilito quello magiaro facendosi designare quale dittatore a vita. Questo emulo italiano del pretenzioso cesare ungherese ha la velleità di  cesarizzarsi anche lui.
giovanni ghiselli

La storia di Päivi. Capitolo 21. Notturno finlandese. Il Kalevala

Notturno finlandese. Il Kalevala
Quando, verso le sette di sera, atterrai nell’aeroporto di Helsinki, Päivi, avvisata da un telegramma, mi stava aspettando avvolta in una pelliccia: lassù il 20 settembre faceva freddo come da noi per Natale.
I capelli non le erano caduti sotto il taglio del ferro, e le ondeggiavano lungo il dorso intabarrato.
La scorsi al di là di una parete vitrea: aveva un’aria triste e un poco sofferente, ma, a prima vista, mi parve più bella e più fine di quando ci frequentavamo nel caldo della puszta ungherese: segno che il clima artico, aspro e tagliente, le si addiceva più dell’afa polverosa esalata dalla grande pianura magiara durante l’estate troppo calda, quasi apocalittica per la sua natura di nordica chiara, tenue, e, nei momenti peggiori, quasi scolorita. A parte i capelli.
Ci abbracciammo e baciammo, ma subito dopo Päivi disse che le dispiaceva se non avevo ancora ricevuto la sua ultima lettera: lei, lunedì 23, doveva partire la mattina presto da Yväskylä per andare a ricoverarsi nell’ospedale di Oulu, dove Jussi le aveva prenotato un posto e tutte le visite necessarie.
Non disse a che cosa, poiché non ce n’era bisogno.
Per stare insieme dunque avevamo solo due giorni e tre notti.
Ma nella disposizione in cui ci mettemmo dopo tale accoglienza, due giorni interi erano pure troppi. Päivi quasi sicuramente andava ad abortire la nostra creatura: l’aveva deciso da sola, o con il suo “ex boy friend”, come chiamava Jussi, e con me taceva su questo argomento, preliminare ad ogni altra conversazione su ogni altro tema.
Perciò facemmo il viaggio da Helsinki a Yväskylä, in una bianca Volkswagen guidata da lei, senza dire niente di decisivo né di significativo.

Osservavo il paesaggio.
Lungo la strada ci sono boschi e laghi ; nel cielo c’era una luna grande, interamente tonda, tanto che consentiva di vedere la vegetazione, la terra e le acque fredde; anzi, quando la strada saliva su una collina, apparivano ampie zone rischiarate dalla sua luce bianchissima. Io aguzzavo entrambi gli occhi per trarre conforto dalla visione della terra promessa che aveva nutrito le donne più amate da me in trent’anni di vita vicini già al loro inquieto compimento[1]. Trenta anni di vita e tre mesi d’amore. Con molte macerie.
Ricordavo parti del Kalevala[2] letto in aereo, e dirigevo lo sguardo sui seni dei laghi per vedere se nel biancheggiare dell’acqua si bagnavano le anatre azzurre o i cigni selvatici; scrutavo le rive ricurve, orlate di piante, per riconoscere le folaghe che dovevano tuffarsi a gara nel cerchio della luna riflessa sollevando spruzzi di perle; adocchiavo i prati lungo la strada per verificare se gli steli dei fiori, piegandosi, accostavano le colonne anelanti a baciarsi. Niente di questo.
Pensai all’erba verdissima del sottobosco di Debrecen che rimaneva schiacciata dalla schiena delle mie finniche distese a fare l’amore e l’abito letterario evocò questo pentametro “De nostro curvum pondere gramen erat” [3] che Ovidio fa scrivere all’infelice Saffo in una lettera per Faone dove la donna abbandonata rimpiange il tempo felice dell’amore non più contraccambiato dal giovane.
Ancora non sapevo che sarei tornato a Debrecen più di una volta per bagnare di lacrime quell’erba dove vidi il principio delle mie gioie.
Nella luce lunare della fredda notte artica tutto era fermo e poco espressivo, come il viso di Päivi nei momenti peggiori, quando quella strana creatura si chiudeva in se stessa. Non aveva niente di importante da dirmi, e nemmeno io volevo parlare.
Non avevamo in comune più nulla: né progetti, né attese, né speranze.
Restavano solo i ricordi, e probabilmente nemmeno gli stessi per l’uno e per l’altra.
Arrivati, ci sistemammo nel monolocale del collegio dove lei abitava e facemmo l’amore per l’ultima volta, senza gioia, nonostante avessi provato a dirle, come Antonio a Cleopatra, vicini a uccidersi entrambi, “let’s have one other gaudy night[4].
 giovanni ghiselli



[1] Il 14 novembre.
[2] E’ l’epopea nazionale finlandese composta da Elias Lönrot nell’Ottocento sulla base di canti popolari raccolti viaggiando nella Finlandia orientale. Significa “Terra di Kaleva”, il progenitore della stirpe finnica.
[3] Ovidio, Heroides, XV, 148, l’erba era incurvata dal nostro peso
[4] Shakespeare, Antonio e Cleopatra, III, 13, 183.

martedì 28 aprile 2020

Un elogio del vero vicario di Cristo



Papa Francesco ha posto davanti all’economia la salvezza delle vite, a partire dalle meno protette. Ha ripreso in mano la santa ira di Cristo che cacciò dal tempio vendentes et ementes, coloro che sconsacravano il tempio, una domus  orationis, facendone una  speluncam latronum (N.T. Matteo, 21, 13)
Finalmente nel Vaticano vedo un vicario di Cristo, dopo diversi Anticristi che benedicevano la guerra l’odio e l’oppressione delle donne.
Un abbraccio a Bergoglio che mi ha riconciliato con il cattolicesino.

Gianni, il poverello di Pesaro.

Alcune parole di duro biasimo

Devo scrivere parole di biasimo  per non sentirmi colpevole di reticenza e, in questo modo, complice dei mascalzoni.
Sono tali quanti vociferano sostenendo che si deve riaprire tutto subito. Costoro sono dei potenziali stragisti siccome auspicano un’ecatombe di vecchi, di deboli, di poveracci. Ecatombe ovviamente è un eufemismo poiché non di cento vittime sacrificali si tratterebbe e non di bovini, ma di migliaia e migliaia di umani e non soltanto vecchi e poveri privi di ogni difesa.
Approvo la cautela dei politici che ascoltano il parere dei migliori scienziati.
Quanto ai vescovi devo dire loro che un cristiano, come ogni altro religioso o mistico, può pregare benissimo in solitudine dovunque si trovi. Che cosa è più divina la natura santificata da Dio o la chiesa ufficiata e amministrata da uomini? Vorrei che l’ottimo Papa Francesco dicesse quello che pensa su questo nella sua funzione di Pontefice.
Saluti
giovanni ghiselli

La storia di Päivi. Capitolo 20. La penultima lettera con tristi annunzi

Picasso, Donna allo specchio

La penultima  lettera con tristi annunzi

Il 18 settembre Päivi mi aveva spedito una nuova lettera, la penultima di tutta la storia, un’epistola che potei leggere soltanto quando fui tornato in Italia. Diceva con grande tristezza e una certa freddezza che presto si sarebbe fatta ricoverare per altre analisi nell’ospedale di Oulu, la cittadina prossima al circolo polare dove la giovane pregnante aveva la residenza anagrafica, l’assistenza medica e la famiglia. Nella casa dei genitori tuttavia non avrebbe potuto nemmeno posare i bagagli, perché loro non sapevano niente della sua situazione, e, quindi, si sarebbe appoggiata al sostegno dell’amico Jussi.
Inoltre aveva scritto che si sentiva dicotomizzata in due persone: una cui erano capitati tutti gli eventi dell’estate passata, mentre l’altra li guardava da fuori, come un’estranea,
“Io agisco e reagisco come due donne diverse. C’è qualche cosa di schizofrenico in me”.
Aveva bisogno di aiuto, ma i medici non potevano darglielo; anzi da loro temeva domande moralistiche che l’avrebbero resa aggressiva. Eppure era con tali persone che doveva trattare.
Io le mancavo e ancora mi amava, aggiungeva; però non chiedeva più la mia presenza.
Anche se non lo diceva esplicitamente, aveva già deciso di eliminarmi dalla sua vita. C’è come una marea nelle vicende amorose. Flussi e riflussi con donne diverse. La marea della vita. Come un uccello le penne o un serpente la pelle, Päivi stava mutando la mente di amante benevola e fedele verso di me, cadeva tutto l’amore che le avevo ispirato a Debrecen con il soccorso di Eros fanciullo e di sua madre, Afrodite celeste. 

Non vidi questa lettera prima di essere tornato da Yväskylä a Pesaro, altrimenti forse non sarei partito. Ma si vede che dovevo rubare del tempo al destino oramai già scosceso del nostro amore mensile. Fu una trasferta funzionale ad accettare quel fato.
Alle 14 del 20 settembre dunque salii sull’aereo. 
Mentre volavo, con l’aeroplano e con l’immaginazione, pensavo ancora che Päivi, figlio o non figlio, fosse la femmina umana ideale, perfetta per me, il simbolo che avrebbe completato lo spezzone di essere umano che ero io. In qualche modo comunque l’ha fatto. Se Päivi non c’è più, sopravvive l’ottima parte di me costruita con l’aiuto di lei.
Baci
gianni



lunedì 27 aprile 2020

"La fortuna di Raffaello fra '800 e '900", di Giuseppe Moscatt


Dante Gabriel Rossetti
1863 - Fotografia di Lewis Carroll
Giuseppe Moscatt
La fortuna di Raffaello fra '800 e '900

Il 15 giugno del 1520, con la bolla Ex urge Domine, papa Leone X condannava le tesi di Martin
Lutero. Si aprì così in modo definitivo la rottura fra il Papato ed il monaco riformatore, al punto che
il 10 di dicembre Lutero brucerà nella piazza di Wittemberg non solo la stessa bolla, ma anche i testi
della tradizione canonica. Tramonta così la prima parte dell'età moderna più spiccatamente umanista
e ci si avvia verso un periodo molto particolare, dove il moderno significò progressiva separazione
dell'uomo spirituale dall'uomo materiale, fino al trionfo delle scienze e della tecnica che avrà
nell'uomo capitalista il libero pensatore e l'unico protagonista della storia, il soggetto centrale delle arti visive. Fu il Rinascimento fondato, sulla persona umana e sulla sintesi fra arti e scienze, che Raffaello, nonché Michelangelo e Leonardo, ritroveranno nella chiesa universale proprio perché cristiana. Il '400 era stato il secolo delle riscoperte di Platone e Aristotele, dell'unitarismo intellettuale che andava da Cusano a Pico della Mirandola, fautori della necessità di trovare un intesa fra le differenti fedi religiose, insistendo l'allora classe intellettuale ed ecclesiale sulle affinità sostanziali non solo religiose (unico Dio, unico testo sacro), ma anche uniche realtà teoretiche e morali, nonché politiche e sociali. I concili di Basilea, Ferrara e Firenze (1431-1439) si erano espressi al riguardo nelle relazioni con la Chiesa ortodossa già da secoli scismatica; mentre la formazione degli stati nazionali - Spagna, Francia e Inghilterra – andava stabilizzandosi senza la successiva rottura fra le classi sociali. La “Scuola di Atena” di Raffaello, non a caso affrescava le pareti delle stanze vaticane della biblioteca e dello studio del Papa Giulio II e rappresentava il tentativo delle scuole di pensiero neoplatoniche di fornire un pensiero ecumenico frutto del dialogo non solo fra teologi e filosofi, ma anche fra matematici e fisici. La concezione dell'uomo Vitruviano di Leonardo, fra il 1509 e il 1511, trionfava nelle mani sapienti del maggiore pittore che stava in quell'epoca, Raffaello Sanzio. Il dialogo e la “democrazia” del sapere non durò a lungo: le scoperte geografiche quasi parallele, la tendenza della nuova classe imprenditoriale alla monopolizzazione; l'irriducibile sovranità dei singoli stati nazionali e lo spiccato temporalismo della Chiesa Romana di Papa Borgia, di Giulio della Rovere e di Leone Decimo dei Medici, fecero il resto. Quando la sera del venerdì santo dell'aprile del 1520, il trentasettenne Raffaello moriva di una sconosciuta malattia forse sessuale, l'illusione di un uomo più felice, portatore di una vita e di un'arte dorata perché naturale, venne meno.

Il resto del '500, del '600, fino alla Rivoluzione Francese del 1789, la versatilità artistica, sia che in pittura, o scultura, perse quello spirito umano che la rendeva soprannaturale. La specializzazione delle arti e la separazione delle scienze nasceva come è noto con il pensiero cartesiano. Manierismo, Rococò ed Arcadia si susseguiranno in contemporanea a guerre di religione e di successione dinastica che nascondevano lo sviluppo anarchico del capitalismo. Crebbero i muri fra cristiani e ideologie progressiste, con la pari frammentazione delle società italiane e tedesche, costrette a subire la prevalenza di potenze e classi dirigenti straniere, tanto che “Franza o Spagna purché se magna”, come diceva una massima popolare romana all'ombra del Papa Re. Di qui, nella storia dell'Arte la nascita di un termine che apparve idoneo nell'800 a dividere due epoche, il preraffaellismo e il postraffaellismo. Il primo storico che volle ribaltare lo stato di stallo che aveva bloccato l'anima spirituale delle Arti, accerchiata dal materialismo illuminista di Voltaire, fu un quasi sconosciuto monaco prussiano, Wachenroder che nel 1796 scrisse un libello che riaprì il discorso su Raffaello: “gli sfoghi del cuore di un monaco amante dell'arte”. Anima purissima di sognatore, si espresse per un'arte a lui negata non perché ne fosse privo e incapace, ma in quanto dono divino di grazia. L'arte era un sentimento misterioso perché derivata da Dio. La parola, figlia dell'osannata ragione, non era alcun prodotto di tale grazia, ma la pittura e la musica lo erano pienamente. E chi era l'artista mandato da Dio? Raffaello! Unico pittore della storia che dimenticava di essere solo un uomo e che invece esteticamente diventava uno strumento di Dio, che viveva in uno stato di beatitudine, che nella sua cella prega e dipinge, come pregava e lavorava il benedettino medievale, ma che però imitava la natura, riproducendo idee innate che vincolavano la mera esperienza dei sensi e che riproducevano la bellezza che Dio ha fissato nell'anima. Un Winckelmann in veste cristiana. Il viaggio a Norimberga nella casa di Dürer e le visite al Duomo gotico di Bamberga e alla chiesa cattolica di S. Martino, causarono il rilancio di Raffaello, delle sue Madonne anteriori al periodo romano sotto le vesti di Galatea. Unità di generi che lo rendono uno dei primi romantici. Ma siamo ormai alle soglie del '800 e qui ritroviamo una notevole traccia di Raffaello in un altro artista, oggi in esposizione alla Gemäldegalerie di Berlino, che sul modello di Dürer - incisore eccezionale contemporaneo proprio di Raffaello - riprodusse la breve vita del pittore urbinate. Si trattava di Johannes Riepenhausen, che insieme al fratello Franz, lavorò a Dresda e a Kassel nella bottega di un discepolo di Wackenroder, W. Tischbein. Poi nel 1807 scesero a Roma e si dedicarono a personaggi del medioevo e al Perugino, maestro di Raffaello. Anzi, Johannes, in linea con le regole del monaco di Jena, cominciarono ad incidere una serie di medaglioni sulla vita e le opere del Sanzio. Sopratutto, fecero da ufficiali di collegamento con la scuola dei Nazareni, un gruppo di artisti figurativi tedeschi romantici che si opposero al classicismo accademico, che dopo Winckelmann e Mengs, avevano respinto forme manieriste e scolastiche, mirando piuttosto ad una pittura fondata sul binomio patria e religione. Erano criteri che ritornavano ad un'età arcaica e al colore molto forte e altamente stilizzato. I loro modelli spaziavano sul '400 italiano, dal Beato Angelico a Luca Signorelli - che il von Platen qualche anno dopo narrò in una ballata ancora non tradotta in italiano - e il Perugino, per finire a Raffaello quando era ancora un seguace del pensiero filosofico di Marsilio Ficino. 
E di quel gruppo faceva parte Friedrich Overbeck, legato ai fratelli Riepenhausen, presso cui abitò a Roma e dove dipinse uno dei più famosi quadri dell'età moderna, “Italia e Germania”, (1828). Vissuto a Roma come ultimo esponente, Overbeck a sua volta diede impulso a una scuola analoga per la natura antiaccademica e alla rivalutazione della pittura del '400. Il loro maggiore autore, Antonio Bianchini, ribadì la riscoperta del primo Raffaello, prendendo spunto dalla ricerca di formule linguistiche autentiche che già a Firenze avevano avuto battesimo nel caffè letterario del Vieusseux. Nel 1842 - in coincidenza con lo sviluppo della Giovane Italia del Mazzini - venne pubblicato un altro libello, “il purismo nelle arti”, che da una parte si prodigò nel rivedere in positivo il Perugino e il suo alunno migliore Raffaello, ma che dall'alto gli rimproverarono l'adesione al classicismo, non concependo alcuna mediazione con le convenzioni neoclassiche che invece avevano portato alla mera imitazione e alla conseguenziale falsità del reale. Era un manifesto che precludeva in sostanza al realismo successivo di Ingres e Hayez. Apogeo di questo singolare movimento nazionalista fu una loro prima esposizione a Firenze nel 1861, dove il nascente stato italiano retto dalla borghesia liberale
appena giunta al governo, plaudeva a certe poetiche del Vero, che però favoriva il precedente
glorioso della nazione che era stata ad un passo dall'unificazione politica, ma dall'altro lato non
avevano avuto coraggio - o meglio avevano preferito una politica libero scambista - di avviare una
nuova società democratica. Come nella letteratura gli scapigliati avevano anticipato e non avevano
oltrepassato il limite della mera denunzia, così i puristi di Firenze si appiattirono nel mero
accademismo di regime. Ma un giovane artista italo - inglese Dante Gabriel Rossetti nel settembre
del 1848, in piena età vittoriana, costituì una confraternita di artisti sul modello della confraternita
tedesca a Roma. Il movimento inglese, altrettanto antiaccademico, alquanto riservato e legato
all'arte gotica, si dichiarò preraffaellita come quello dei puristi italiani e si legò ai valori borghesi
industriali e progressisti, benché fuori dal rigido teismo anglicano e piuttosto radicale e fautore del
decadentismo culturale, della parità dei sessi e alquanto liberale nei costumi, visto che fra i
fondatori vi fu anche Oscar Wilde. Scelsero quella etichetta per magnificare l'arte tardo medievale e
nel rivedere il Raffaello perugino e fiorentino, che fino al 1509 aveva idealizzato la natura e la
bellezza a danno della giustizia. Il loro bene era dato dall'unico valore ambito, la bellezza classica
ereditata dai tedeschi romantici. Amavano Dante Alighieri e i commenti del pittore gotico Füssli;
dipingevano a colori forti, come “The Valkyrie's Vigil” (di E. R. Hughes, 1906); “La Beatrice” di
Elizabeth Siddal (1864); “L'Ophelia” di J. E. Millais e tutta una seria di paesaggi dove
primeggiavano le ombre e i cimiteri. Aprirono la via alla pittura decadente di Klimt e al simbolismo
di Segantini. Inoltre Rossetti e W. Hunt e J. W.Waterhouse prediligevano i temi biblici e dell'età
dell'oro, quella mitica visione sensualista ben lontana dalla femminilità eterea della cultura
vittoriana e diedero impulso al mondo femminile scultorio, senza però dimenticare la dignità della
donna, di cui ne approfittò il nascente movimento delle suffragette. La precoce morte del Rossetti e
della sua E. Siddal; le feroci critiche del socialista Dickens e del conservatore W. Turner, già nel
1853 produssero la fine dell'associazione, dissoltasi per il prevalere dell'elemento umano
materialistico che proprio in Inghilterra di mezzo secolo imponeva attenzione ai fattori sociali che
avranno immediato riscontro nel verismo italiano con Verga e Capuana e in quello francese di Zola.

E tuttavia il filo rosso preraffaellita non rimase sepolto dal fango del reale. La reazione culturale
mitteleuropea al positivismo realista ebbe un conato ragguardevole nel primo novecento da parte di
Rudolf Steiner e nell'ottima biografia di Hermann Grimm, che sfatarono con documenti alla mano
la presunta identificazione di Raffaello col classicissimo conservatore. Grimm per primo distinse le
due fasi della breve vita dell'Urbinate e ne individuò nella prima parte perugina e fiorentina tutti
i motivi di un Raffaello diviso da un tormento interiore che appare tutto nella stanza di Eliodoro,
fino a uscire nelle figure piene di dubbi amletici della scuola di Atene, senza contare le contorsioni e
i vuoti linguistici del Vasari che stranamente aveva taciuto sulle modalità della morte, avvenuta a
suo dire proprio lo stesso giorno del compleanno. Steiner scrisse nel suo testamento spirituale nel
1924 che l'opera di Grimm era stata una misurazione della sua grandezza con riga e compasso,
priva di quella spiritualità interiore. Quello studio – mai peraltro completato - apparve a Steiner
insufficiente nel trovare la mediazione fra mondo classico e mondo moderno. Invece lo Steiner
rivedeva un Raffaello sceso dal piedistallo del mito e divenuto piuttosto l'uomo moderno che si
rivolge al reale senza dimenticare l'ideale, il dito alzato di Platone e la mano tesa di Aristotele al
centro della scuola di Atene. Posizione eclettica che riscattava l'ironia dissacrante di Picasso che
nel 1919, dopo un viaggio in Italia, aveva avuto modo di rivedere ironicamente la Farnesina e gli
angioletti usati e abusati dai manieristi barocchi del '600. La sicurezza delle fonti sulla vita di
Raffaello, peraltro sarà messa in luce nel quattrocentesimo anno dalla morte e non si escluse che fra
lo “sposalizio della Vergine”, primo grande affresco “preraffaelita e la “trasfigurazione” ultima
opera del 1519, Raffaello subì una sorta di crescita intellettuale e non certo un “lavaggio del
cervello”, una revisione conservatrice che ne farebbe un pallido difensore dell'accademismo piccolo
borghese. Del resto, la corrente più anarchica di metà '900, il Surrealismo, non mancherà di
rendergli omaggio nella carriera artistica di un Salvatore Dalì che nel 1920, dopo avere dichiarato
con la sua nota supponenza che “forse sarò disprezzato e incompreso anche dopo morto, ma sarò un
genio e che il surrealismo sono io!”; affermò pure che“il nuovo Raffaello sono io!”; tanto da
realizzare quindi il proprio autoritratto col collo di Raffaello stesso. Intemperanza che testimonia
però l'idea di irriducibilità dell'arte di Raffaello, della sua trasversalità e presenza nei nuovi
movimenti culturali succedutosi nel corso dei secoli. E nel '900 un autore che ne comprese il valore
interculturale fu un incisore tedesco erede di Dürer, Max Klinger che non per caso oggi è presente
alla Pinacoteca Moderna di Monaco. Max Klinger, maestro avvenirista che fin dal 1877 sviluppava
i suoi disegni con penna ad inchiostro di china, rompeva con l'accademia di Berlino e si rifugiava a
Oslo dove aprì una scuola che anticipò nello stile di pittura la rappresentazione del sogno. Nella
serie di stampe “un guanto”, apriva una porta da dove transiteranno prima Munch, suo alunno
preferito, poi van Gogh fino ad arrivare all'espressionismo tedesco e al surrealismo dello stesso
Dalì. Figlie dello spiritualismo di inizio secolo, le dieci incisioni di Oslo ruotano attorno a una tema
onirico come un oggetto perduto e poi ritrovato, lungo un percorso che va dalla passeggiata con
l'amata e con i desideri repressi che emergono lungo la strada, passando dalla paura alla nostalgia,
finché un uccello rubò il guanto e provocò l'abbandono della donna amata. Desiderio
simbolicamente alternato alla perdita dell'amore e causa del tormento del pittore che vede il mondo
con occhi diversi accecato dai suoi stati d'animo. Freud, qualche anno dopo ne farà il suo manifesto
nell'esame psicologico dell'opera di Klinger. Ma non mancò anche di rilevare come in quei disegni
emergesse un disegno razionale volto a dare una dimensione reale a un sogno sperato ma non
realizzato. 

Processo estetico che vide anche presente proprio nel Raffaello dei Palazzi Vaticani e
negli affreschi dell'attuale Sala della Segnatura. La sua scuola psicologica dell'arte, partendo da un
saggio non secondario - un ricordo d'infanzia di Leonardo da Vinci (1910) - ha ricostruito lo stretto
legame fra vita e ricordo di un'infanzia non certo felice e che non pochi artisti sublimano in quadri
pieni di malinconie e speranze di migliori esistenze. Di qui, la scelta di rileggere opere molto note
alla luce di una domanda di maggiore autenticità dell'esistere realisticamente intrisa dalle proprie
aspirazioni, idealizzando momenti di convivenza familiare come vorrebbe che si fossero svolti, non
per come veramente avvenuti. Il rapporto fra Vero e Bene, fra Bellezza e Giustizia che Raffaello
aveva mirabilmente descritto nelle stanze vaticane; viene trasferito dalla psiche del pittore a livello
di sogno, dove appunto la mediazione culturale dei saperi e dei valori religiosi assume contorni reali
di speranze. Oppure, gli illustri filosofi ivi raffigurati esprimerebbero il bisogno dell'autore di
sostituire il conflitto reale alla pace virtuale. Interpretazione che da ultimo ha visto come originale
fautore il filosofo Giovanni Reale che ha dato alla “Scuola di Atene” un significato di famiglia
umana - e di società universale - che discute e dialoga sotto lo stesso tetto pur di opinioni diverse,
magari contrapposte per ragioni di per sé valide, tutte rivolte però all'obiettivo finale della pace,
cioè quel vero, quel bene e quella bellezza, che Raffaello ci ha indicato per sempre nei suoi
immortali dipinti.

La gita “scolastica” a Eger. Prima parte. Silvia e i disegni di una bambina.

  Sabato 4 agosto andammo   tutti a Eger, famosa per avere respinto un assalto dei Turchi e per i suoi vini: l’ Egri bikavér , il sangue ...