Date della vita e della spedizione di Alessandro.
Alessandro nacque a Pella nel luglio del 356.
337 nozze di Filippo con Cleopatra
336 uccisione di Filippo da parte di Pausania.
Alessandro sconfigge Traci, Triballi e i Geti oltre il Danubio
A Corinto
A Delfi
335 distruzione di Tebe.
334 Granico (Troade)
334-333 Alicarnasso
333 Gordio
333 Cidno
333 novembre Isso (in Cilicia)
332 Tiro
332 Gaza
332-331 Egitto. Fondazione di Alessandria aprile 331.
331 Gaugamela (Assiria)
331 Babilonia, Susa.
330 primavera Persepoli incendio
330 Congiura di Filota. Uccisione di Parmenione.
330 Uccisione di Dario
329 uccisione del fellone Besso a Ecbatana, capitale della Media.
330 Amazoni
330-329 Parapamisus- Hindukush
328 Alessandria Ultima (Sogdiana-Uzbekistan). Gli Sciti sullo Iassarte (Sir Daria)
328 Clito viene ammazzato a Maracanda, in Sogdiana, Uzbekistan
327 in Sogdiana Alessandro sposa Roxane.
327 Congiura dei paggi in Sogdiana. Ermolao. Callistene, nipote di Aristotele, Arriano ne biasima l’ a[kairo~ parrhsiva (4, 12, 7) l’inopportuna libertà di parola. Del resto biasima anche l’ u{bri~ di Alessandro che lo fa morire.
327-326 Aorno oltre l’Indukush, nel Kashmir, dove non era arrivato nemmeno Eracle. Si innalza come un cono sopra il fiume Indo
326 Vittoria sul re indiano Poro, oltre l’Idaspe. Rupe di Aorno (Kashmir). Arriva al fiume Ifasi, oltre l’Indo.
325 Alessandro viene ferito gravemente in una fortezza del paese dei Malli, alla confluenza tra Acesine e Idaspe.
325 Discende l’Acesine e l’Indo
325 Attraversa la Gedrosia (Pakistan)
324 a Susa sposa Barsine figlia di Artabazo. Secondo Plutarco invecw sposa Statira figlia di Dario.
324 Rivolta e repressione dei soldati a Opi sul Tigri.
324 Muore Efestione a Ecbatana in Media (Iran).
324 Sottomette i Cossei
323 Esplora l’Eufrate
10 giugno 323 Alessandro muore a Babilonia.
Imitatori di Al: Pompeo, Giulio Cesare.
“Fra gli imperatori romani, Caligola-ma non fu il solo-amava rappresentarsi come un novello Alessandro”[1].
Traiano che volle ridiscendere l’Eufrate fino all’Oceano.
Caracalla (211-217) che ricreò la falange macedone.
Arriano e il suo metodo storiografico confrontato con altri.
Giudizi di Leopardi
Arriano nacque intorno al 90 d. C., a Nicomedia, nella Bitinia, Asia minore. Qui ebbe il sacerdozio a vita delle divinità poliadi Demetra e Core. Condivise il filellenismo dell’età di Adriano.
Egli vuole glorificare il passato greco attraverso Alessandro.
Arriano fu scolaro di Epitteto di cui trascrisse le lezioni nelle Diatribaiv e nell’ [Egceirivdion, il Manuale che è una riduzione delle Diatribe[2] ci è pervenuto intero. Arriano- Epitteto vorrebbe ricalcare il modello Senofonte- Socrate. Ne abbiamo una traduzione latina del Poliziano e una in italiano di Leopardi.
Il modello principale di Arriano è Senofonte, ma non manca l’influsso di Erodoto.
Dello storiografo di Alicarnasso risente anche Curzio Rufo il quale, raccontando il lutto seguito alla morte di Al., afferma che alcuni erano sdegnati del fatto che un giovane tanto dotato fosse stato strappato agli umani dall’invidia degli dèi. “ tam virĭdem et in flore aetatis fortunaeque, invidiā deum ereptum esse rebus humanis” (10, 5, 10).
Curzio non crede negli oracoli, e in questo è tutt’altro che erodoteo, ma osserva con interesse, talora con simpatia le culture lontane dalla nostra. Per esempio il discorso degli ambasciatori Sciti ad Alessandro in 7, 8, 12-30 è pieno di saggezza.
Anche nel determinismo geografico Curzio echeggia Erodoto, e gli scritti ippocratici.
Anticipo qui una dichiarazione metodologica di stampo erodoteo presente tanto in Arriano quanto in Curzio Rufo.
Lo storiografo di Alicarnasso aveva scritto a proposito della diceria secondo la quale le ragazze indigene con penne di uccello spalmate di pece traevano pagliuzze d’oro da un lago situato in un’isola posta davanti alla costa africana : “tau'ta eij mh; e[sti ajlhqevw~ oujk oi\da, ta; de; levgetai gravfw” (4, 195, 2), queste cose non so se sono vere, ma quello che si dice lo scrivo. E più avanti a proposito di un’intesa tra i Persiani e gli Argivi: “ejgw; de; ojfeivlw levgein tav legovmena, peivqesqaiv ge me;n ouj pantavpasin ojfeivlw” (7, 152, 3), io sono tenuto a dire le parole dette, a credere a tutte invece non sono tenuto. La critica non deve ignorare i dati a disposizione dello storiografo.
Arriano a proposito della morte di Alessandro riporta una notizia alla quale non crede, della quale anzi afferma che dovrebbero vergognarsi quanti l’hanno scritta: che Al., sentendosi morire, voleva gettarsi nell’Eufrate per sparire accreditando la fama di una sua assunzione in cielo in quanto nato da un dio. Glielo impedì Rossane ed egli le disse che lo privava della gloria di essere nato dio.
Ebbene lo storiografo di Nicomedia precisa che ha riportato queste notizie wJ" mh; ajgnoei'n dovxaimi perché non sembri che io le ignori, più che per il fatto che esse sembrino pista; ej" ajfhvghsin, (7, 27, 3) credibili a raccontarle.
In modo simile Curzio:“Equidem plura transcribo quam credo: nam nec adfirmare sustineo, de quibus dubito, nec subducere, quae accepi” (9, 1, 34), per conto mio riporto più notizie di quelle cui presto fede: infatti non me la sento di confermare notizie delle quali non sono sicuro, né di sottrarre quelle che ho ricevuto.
Quindi, a proposito del cadavere di Al. che giaceva nel sarcofago da sei giorni, trascurato, e, nonostante il caldo estivo, il corpo non era degenerato, Curzio scrive: “ Traditum magis quam creditum refero” (10, 10, 12).
Arriano risente pure di Tucidide, se non altro perché il diritto della forza e dell’intelligenza è incarnato dal suo eroe.
Alla fine dell’opera dopo avere fatto l’elogio funebre di Alessandro, Arriano scrive: “Io che lo ammiro, talora l’ho criticato “ajlhqeiva" te e{neka th'" ejmh'" kai; a{ma wjfeleiva" th'" ej" ajnqrwvpou" (30, 7, 3), per il rispetto che porto alla verità e per l’utilità degli uomini.
Del resto Tucidide legiferò e influenza tutta la storiografia successiva, pure Curzio Rufo, in un modo o in un altro. " jO d j ou\n Qoukidivdh"...ejnomoqevthse", come afferma Luciano[3] e la legge della verità divenne ineludibile per i suoi seguaci. Nell'ultimo capitolo di questo opuscolo Luciano aggiunge che bisogna scrivere la storia con verità ("su;n tw'/ ajlhqei'") e con il pensiero rivolto alla speranza futura piuttosto che con adulazione mirando a compiacere quelli elogiati al momento presente ("pro;" to; hJdu; toi'" nu'n ejpainoumevnoi"", 63).
Ma le influenze erodotee e tucididee, e pure le analogie con altri autori sui nostri le riconosceremo via via.
L’ jIndikhv di Arriano scritta in ionico vorrebbe riprodurre la lingua di Erodoto. Arriano ricoprì incarichi di una certa importanza nell’amministrazione romana. Fu consul suffectus (supplente) in Cappadocia, forse nel 129. Passò l’ultima parte della vita ad Atene dove fu arconte nel 145/146, poi prytanis nel 166/167 e 169/170.
Critica letteraria. Leopardi su Arriano
Leopardi sostiene “che poco saggiamente Arriano volle scrivere l’ jAlexavndrou ajnavbasin (in 7. libri perché 7. sono quelli di Senof.) a imitazione della detta opera. Quindi le due opere sono essenzialmente di diverso genere, cioè l’una un diario, l’altra una storia” (Zibaldone,p. 468).
Arriano scrisse prima in dialetto attico poi in quello ionico. “ancor dopo prevaluto l’attico si continuò a scrivere in ionico…come vezzo, e quasi in memoria della sua antica fama. Come fece Arriano, il quale continuò i 7 libri della Impresa di Alessandro scritta in puro attico, colla storia indiana, o libro delle cose indiane scritto in dialetto ionico, per puro capriccio” (Zibaldone 961).
Comunque scrisse sempre in greco, come Polibio, Dionigi di Alicarnasso, “così Arriano prenominato Flavio…fatto cittadino romano, senatore, console, caro all’imperatore Adriano, e mandato prefetto di provincia armata in Cappadocia” (Zibaldone, 992).
Leopardi oiù avanti lo apprezza molto: “Da Demostene in poi la Grecia non ebbe altro scrittore che in ordine alla lingua e allo stile, somigliasse, anzi uguagliasse gli ottimi antichi, se non Arriano (e questo senza la menoma affettazione, o sembianza d’imitazione, o di lingua o stile antiquato, come i nostri moderni imitatori del trecento o del cinquecento” (1024). Non gli tengono testa né Polibio, né Dionigi di Alicarnasso (ma questo più degli altri), né Plutarco, né lo stesso Luciano atticissimo ed elegantissimo “(di eleganza però ben diversa dalla nativa eleganza degli antichi)”.
Il Recanetese sembra denunciare un’eleganza non priva di affettazione.
Baldassarre Castiglione in Il cortegiano[4] prescrive al gentiluomo di fuggire sopra tutto "la ostentazione e lo impudente laudar se stesso, per lo quale l'uomo sempre si còncita odio e stomaco da chi ode" (I, 17). Egli deve schivare "quanto più si pò, e come un asperissimo e pericoloso scoglio, la affettazione; e, per dir forse una nova parola, usar in ogni cosa una certa sprezzatura", ossia una studiata disinvoltura, "che nasconda l'arte e dimostri ciò che si fa e dice venir fatto senza fatica e quasi senza pensarvi. Da questo credo io che derivi assai la grazia… " (I, 26).
Ancora Leopardi
Le opere di Arriano sono “di lingua e di stile così purgate…di semplicità e naturalezza e facilità, chiarezza, nettezza ec. così spontanea e inaffettata, così ricche, così proprie, così greche insomma…che quantunque Arriano fosse imitatore, cioè quello stile e quella lingua non fossero cose naturali in lui ma procacciate collo studio de’ Classici… e principalmente di Senofonte” tuttavia si è avvicinato al livello di quelli imitati da lui.
La letteratura latina contemporanea non ha scrittori di quel livello. “Tacito fu alquanto anteriore, e nella perfezione della lingua non si potrebbe ragguagliar troppo bene ad Arriano: forse neanche nelle doti dello storico appartenenti al bello letterario, sebben egli l’avanza di molto in quelle che spettano alla filosofia, politica ec. Ma quel che mantiene la lingua, è la bella letteratura, non la filosofia né le altre scienze, che piuttosto contribuiscono a corromperla, come fece lo stile di Seneca. E però Plutarco[5] contemporaneo di Tacito, e com’esso, alquanto più vecchio d’Arriano, non si può recar per modello né di lingua né di stile, essendo però stato forse più filosofo di tutti i filosofi greci, molti de’ quali sono esempi di perfettissimo scrivere. Ma non erano così sottili come Plutarco, siccome Cicerone non lo era quanto Seneca, questi corrottissimo nello scrivere, e quegli perfettissimo (2410). Nella letteratura greca c’è una forav, una messe di imitatori che sono quasi creatori. Dopo Alessandro Magno con il quale i Greci persero la libertà, la letteratura greca cominciò a degenerare ma dopo “pochissimo intervallo risorge in Sicilia e in Egitto, e ancor quasi in stato di creatrice. Teocrito, Callimaco, Apollonio Rodio ec”. Quindi Polibio e tutta una forav di imitatori che è comunque una forav creatrice. Poi “si arricchisce d’un Arriano, d’un Plutarco, d’un Luciano, ec. che quantunque imitatori, pur sanno così bene scrivere, e maneggiar lo stile e la lingua antica o moderna, che quasi in parte le rendono la facoltà creatrice. Aggiungi che in tal tempo la Grecia, colla sua letteratura e lingua incorrotta, era serva, e l’Italia signora, colla sua letteratura e lingua imbastardita e impoverita” (Zibaldone, 2591).
Pesaro 27 luglio 2024 ore 10, 35 giovanni ghiselli
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