lunedì 29 luglio 2024

Prime vittorie. Alessandro favorisce i regimi democratici e interpreta tutti i segni in proprio favore.


 

Battaglia sul Granico. Contrasti sulla tattica.

 

Memnone di Rodi consigliava la tattica scitica ai Persiani, cioè una ritirata, ma Arsite, luogotenente della Frigia sull’Ellesponto non voleva vedere la sua terra devastata.

Dall’altra parte Parmenione sul Granico -maggio 334- consigliò di non attaccare subito, ma A. disse “ho varcato l’Ellesponto e non sarà tou`to smikro;n reu`ma a impedirci di passare come siamo (1, 13, 6).

E’ uno dei tanti contrasti che costeranno la vita a Parmenione.

 

Cfr. non cederò di Achille cedere nescius.

L'eroe non fa niente che non stimi degno della sua natura:  Achille, cedere nescius  [1],  non si lascia bloccare dalla profezia di sventura del cavallo fatato Xanto,  e gli risponde:"ouj lhvxw"[2], non cederò.

Della definizione oraziana dell'eroe si ricorda Leopardi nel Bruto Minore :" Guerra mortale, eterna, o fato indegno,/teco il prode guerreggia,/ di cedere inesperto"(vv. 38-40).

Il motto del combattente omerico è "aije;n ajristeuvein kai; uJpeivrocon e[mmenai a[llwn"(Iliade,  VI, 208), primeggiare sempre ed essere egregio tra gli altri. Lo raccomandano i padri ai figli: nel sesto canto il licio Ippoloco a Glauco, nell'undicesimo, al v.784, Peleo ad Achille che Alessandro ha preso come modello.

 

 

Se aspettassimo, replica Al.,  infonderemmo coraggio nei Persiani. Al. era dh`lo~o{plwn th`/ lamprovthti (14, 4), riconoscibile per lo splendore delle armi e per il timore reverenziale di chi gli stava intorno. Altre volte invece Al. si mette in evidenza con la semplicità dell’abbigliamento.

L’ esercito macedone vinse: aveva maggiore forza d’urto (rJwvmh) per l’esperienza e perché combattevano con le aste di corniolo contro le lance meno solide della cavalleria persiana “xustoi`~ kranei?noi~ pro;~ palta; ejmacou`nto (15, 5), ossia aste di legno molto duro, cornĕus quelle dei Macedoni.

Arsite si uccise poiché era considerato ai[tio~ di quel disastro.

Al. commissionò a Lisippo le statue di bronzo di 25 compagni caduti; lo scultore peloponnesiaco o{sper kai;  jAlevxandron movno~ prokriqei;~ ejpoivei (16, 4),  fu l’ unico prescelto a raffigurare anche Alessandro.

Plutarco descrive l'aspetto fisico, ricavandolo soprattutto dalle statue di Lisippo dal quale solo Alessandro riteneva opportuno farsi effigiare poiché sapeva rappresentare in modo accurato la tensione del collo lievemente piegato verso sinistra e la dolcezza umida dello sguardo:"thvn t  j ajnavtasin tou' aujcevno" eij" eujwvnumon hJsuch'/ keklimevnou kai; th;n uJgrovthta tw'n ojmmavtwn" (Vita, 4, 2) .

Si noti che questi segni esterni sono rappresentativi del carattere e contengono "tensione" con "dolcezza".

Nel Ritratto di Alessandro [3] Lisippo sembra infatti scartare la rappresentazione realistica come quella idealizzata, optando per un'immagine umanizzata del sovrano, nella quale divino e umano arrivano a fondersi, esprimendo un nuovo concetto di regalità.

 

Il vincitore mandò ad Atene 300 armature persiane (cfr. Cleone e gli scudi di Sfacteria) da dedicare ad Atena con l’iscrizione: “Al. e i Greci, plh;n Lakedaimonivwn, dai barbari che abitano l’Asia” (1, 16, 7). Quindi Al. avanzò su Sardi, poi andò sulla costa, a Efeso dove sciolse l’oligarchia e instaurò la democrazia “che Al. considerava, o diceva di considerare, come la costituzione originaria dei greci dell’Asia Minore” (Boosworth, p. 270).

 Dopo le prime rappresaglie contro gli oligarchi Al. impose un’amnistia per loro- cfr. mh; mnhsikakei`n- astenersi da rappresaglie di Tucidide IV, 74, 2 e Senofonte II, 4, 43 poiché sapeva che il popolo abbandonato a se stesso, xugcwrhqe;n aujtw`/ -sugcwrevw-(1, 17, 12), si sarebbe dato al saccheggio e all’ingiustizia.

 

Non è democrazia quando il popolo può fare ciò che vuole.  

Mi riferisco al processo e della condanna a morte degli strateghi vincitori alle Arginuse (406 a. C.). Ci fu un tentativo di difesa, ma nella massa oramai era stato inoculato l'odio e il desiderio del capro espiatorio ed essa gridava che era grave se qualcuno non permetterva al popolo di fare quanto voleva ("to; de; plh'qo" ejbova deino;n ei\nai, eij mhv ti" ejavsei to;n dh'mon pravttein o{ a]n bouvlhtai", Senofonte, Elleniche,  I, 7, 12).

"E' la rivendicazione che riecheggia minacciosamente in assemblea ad Atene durante il processo popolare contro i generali delle Arginuse"; è "la formula che caratterizza, secondo Polibio, la degenerazione  della democrazia (VI, 4, 4:" quando il popolo è padrone di fare quello che vuole").[4]

 

Alessandro  fece comunque deporre le oligarchie- ojligarciva~ pantacou` kataluvein- e instaurare le democrazie ta;~ de;  dhmokrativa~ ejgkaqistavnai,  (Arriano, I, 18, 2).

 

“La grande idea di Alessandro era di aiutare i popoli a ritrovare la personalità perduta…Le monete di quest’epoca ci provano che tutte le città non solo ricuperavano la loro autonomia, ma ridivennero municipalità indipendenti, come prima della pace d’Antalcida (386) detta anche pace del re per l’ingerenza di Artaserse II che ottenne Cipro e diverse città della Ionia.

Queste monete non recano l’effigie del re, ma lo stemma della città[5].

 

Questo non toglie che Al. esigesse sottomissione e tributi che non venivano più pagati  ai padroni barbari ma a lui.

 

 Alcune città greche fruivano di particolari riguardi: “Abbiamo già visto quanto Alessandro si preoccupasse per favorire lo sviluppo delle città elleniche…Di queste municipalità, un tempo asservite ai capricci dei tiranni, Alessandro aveva fatto altrettante città libere e fiere, che dipendevano soltanto dal loro liberatore[6].

 

Era dunque una liberazione parziale e una libertà limitata.

 Mileto resisteva (334). Un’aquila aejtov~ fu vista appollaiarsi sulla poppa di una nave di Al. a riva. Parmenione consigliava di attaccare una battaglia navale (parhv/nei j Alexavndrw/ naumacei'n, I,18, 6) ma Al. dimostrò che non era il momento di combattere sul mare oujk ejn kairw`/ naumacei'n (18, 9), oltretutto l’aquila ejpi; gh`/ significava che egli avrebbe vinto la flotta persiana ejk gh`~.

Alessandro era molto attento ai “segni”. Poi li interpretava come voleva.

 

 Diodoro[7] (Biblioteca, 17, 23) sostiene che Al. sciolse la flotta pensando che i Macedoni avrebbero combattuto con impeto maggiore se fosse stata eliminata la speranza della fuga. Questo gesto verrà imitato da Agatocle, re dei Siracusani (dal 317 al 289 ) che sbarcato in Libia bruciò le navi.

 Mileto fu presa e i Persiani dovettero andarsene a[praktoi (19, 11), senza avere concluso nulla. Al. sciolse la propria flotta perché oramai controllava la terra e  le navi persiane erano rimaste porti.

 

 Poi ci fu l’assedio di Alicarnasso 334/ 333.

Nominò “satrapessa” della Caria, Ada cui il fratello- marito Idrieo aveva lasciato il potere morendo: è costume in Asia fin dai tempi di Semiramide che anche le donne comandino sugli uomini nenomismevnon ejn th`/  jAsiva/  e[ti ajpo; Semiravmew~ kai; gunai`ka~ a[rcein ajndrw`n (1, 23, 7). 

Poi Al. andò in Licia e Panfilia continuando a occupare la costa per rendere ajcrei`on to; nautikovn (1, 24, 3), inutile la flotta ai nemici.

 

Cfr. Senofonte kth`ma e crh`ma.

 Il Socrate di Senofonte dice al giovane Critobulo: le medesime cose per chi sa servirsene sono averi utili, per chi invece non sa servirsene non sono averi utili:"Taujta; a{ra o[nta tw'/ me;n ejpistamevnw/ crh'sqai aujtw'n eJkavstoi" crhvmatav ejsti, tw'/ de; mh; ejpistamevnw/ ouj crhvmata"(Economico, I, 10); così i flauti sono utili per chi li sa suonare bene, per chi non lo sa, non sono niente più che sassi inservibili ( "oujde;n ma'llon h] a[crhstoi livqoi").

Non basta quindi possedere (kekth'sqai) il denaro; bisogna anche sapersene servire (crh'sqai).  E’ pertanto prima di tutto un problema di conoscenza, di ejpisthvmh, di capacità riflessiva.

 

Gli venne svelata una congiura organizzata da un Alessandro, figlio di Aeropo, comandante della cavalleria tessala. Inoltre era stato turbato da un prodigio durante l’assedio di Alicarnasso. Mentre A. riposava sul mezzogiorno una rondine svolazzava sulla sua testa truvzousan megavla (I, 25, 6) garrendo ripetutamente e si posava qua e là sul suo letto e cantava in modo più irrequieto del solito qorubwdevsteron h} kata; to; eijwqov~ a[/dousan (25, 7). A. non si svegliava e comunque cercava di scacciarla con la mano, ma la rondine si posò sulla sua testa e non se ne andò prima che quello si fosse svegliato del tutto (25, 8).

L’indovino Aristandro gli disse che questo significava una macchinazione di amici che sarebbe stata scoperta. Infatti la rondine è un uccello familiare e benevolo suvntrofon kai; eu[noun  verso gli uomini e lavlon chiacchierone più degli altri uccelli. (25, 9).

 

Maurizio Bettini dedica un capitolo (il IV "Turno e la rondine nera") del suo Le orecchie di Hermes alla rondine come uccello dal doppio significato.

“Ma l'esempio forse più interessante è costituito da una storia che si narrava di Alessandro Magno[8]. Il generale stava dormendo , "a mezzogiorno", quando una rondine cominciò a volteggiare sulla sua testa. Alessandro, ancora nel sonno, tentò di scacciarla con una mano, ma la rondine non voleva saperne di andarsene. Si allontanò solo quando il Macedone, destatosi, la colpì con forza- ma prima lasciò cadere su di lui i suoi escrementi[9].

Alessandro si spaventò molto del prodigio, e mandò a chiamare l'indovino Aristandro di Telmisso, che abilmente lo rassicurò. L'indovino volse il prodigio in bonam partem appellandosi al carattere di "amica dell'uomo" posseduto dalla rondine. Si tratta di uno dei tipici casi in cui, di fronte a una credenza di tipo bipolare, la dialettica fra dark side e bright side viene utilizzata per fini di carattere "contestuale": sfruttandone le intrinseche possibilità di manipolazione” [10].

 

Torniamo ad Arriano. Alessandro figlio di Aèropo dunque fu catturato e tenuto sotto custodia.

Al. figlio di Filippo mosse verso la Frigia passando per Telmesso. Vi abitano i Pisidi che sono barbari e macimwvtatoi (28, 2). Quindi A. passò per Celene e si diresse a Gordio che fa parte della Frigia all’Ellesponto. Primavera 333. Là giunse un’ambasceria di Ateniesi che chiesero di rilasciare i prigionieri greci catturati al Granico, ma ad A. non sembrò sicuro condonare della paura ai Greci (ajnei`naiv ti tou` fovbou, 29, 6) che avevano combattuto contro la Grecia in favore dei barbari.

 

Motivo della positività della paura.

 

Metus e to; deinovn ispettore delle anime,

Quanto alla paura, Eschilo consiglia di non bandirla del tutto dalla città quando nelle Eumenidi  fa dire al Coro delle Erinni:" a volte il terrore è bene (" e[sq  j  o{pou to; deino;n eu\ ") /e quale ispettore delle  anime (frenw'n ejpivskopon)/ deve restarvi a fare la guardia".(vv. 517-519).

E subito dopo:" mht  j a[narkton bivon-mhvte despotouvmenon-aijnevsh/" : panti; mevsw/ to; kravto" qeo;"-w[pasen "(526-530), non lodare una vita di anarchia né una soggetta al dispotismo: in ogni caso il dio dà potenza al giusto mezzo.

 

 Più avanti la stessa Atena istituendo l'Areopago afferma che in quel luogo il rispetto (sevba", v. 690) e la paura sua congiunta (fovbo" te xuggenh;", 691) tratterrà i cittadini giorno e notte dal commettere delitti, quindi  consiglia agli Ateniesi che hanno cura della città di rispettare uno stato senza anarchia né dispotismo ("to; mhvt j a[narcon mhvte despotouvmenon", v. 696) e di non scacciare del tutto il timore fuori dalla città: infatti quale mortale è giusto se non ha nessuna paura ?  ("kai; mh; to; deino;n pa'n povlew" balei'n-tiv" ga;r dedoikw;" mhde;n e[ndiko" brotw'n;" vv. 698-699).

 

Il tiranno Creonte nell'Antigone  di Sofocle considera l'anarchia il massimo male: Non c'è male più grande dell'anarchia./Essa manda in rovina le città, questa ribalta/le famiglie, questa nella battaglia spezza/  le schiere dell'esercito in fuga; invece le molte vite/di quelli che vincono, le salva la disciplina" (vv. 672-676).

 

Secondo Sallustio era Il metus hostilis, la paura del nemico, che tratteneva i Romani dai vizi i quali, invece, caduta Cartagine, invasero Roma:

"Ante Carthaginem deletam…metus hostilis in bonis artibus civitatem retinebat. Sed ubi illa formido mentibus decessit, scilĭcet ea quae res secundae amant, lascivia atque superbia, incessēre " (Bellum Iugurthinum , 41), prima della distruzione di Cartagine…il timore  del nemico manteneva il buon governo nella città. Ma quando quella paura sparì dalle menti, quei vizi che naturalmente il successo ama, la dissolutezza e la superbia si fecero avanti.

 

 

 

Libro II di Arriano.

Intanto Mèmnone a capo della flotta persiana occupava Chio e Lesbo, tranne Mitilene. Mentre ne blocca il porto però muore di malattia e questo fatto danneggiò molto il re. “Se ancora si poteva salvar qualcosa, Memnone sembrava l’uomo indicato per questo scopo”[11].

Farnabazo, nipote di Memnone prese la città di Mitilene dopo un accordo. Farnabazo occupò anche Tenedo (isola presso Troia).

Antipatro, il reggente di Macedonia, intanto faceva presidiare l’Eubea e il Peloponneso.

Al. si informò sul nodo di Gordio. Gordio era un uomo povero: aveva poca terra e due buoi: con uno arava, con l’altro tirava il carro. Un giorno mentre arava, sul giogo si posò un’aquila e vi rimase fino allo scioglimento dei buoi. Gordio andava a Telmesso per consultare gli indovini e incontrò una ragazza che si recava a prendere acqua: questa gli consigliò come sacrificare a Zeus, e Gordio la sposò. Da loro nacque Mida. Questi, nobile e bello, giunse su un carro con il padre e la madre tra i Frigi travagliati da lotte intestini ed essi, secondo il responso oracolare, lo fecero re. Mida fece cessare la stavsi~ e dedicò il carro del padre sulla rocca come ringraziamento a Zeus che gli aveva mandato l’aquila. Oltre questo, si narrava, sul carro, che chi avesse sciolto il nodo del giogo del carro avrebbe necessariamente dominato l’Asia (II, 3, 6) tou`ton crh`nai a[rxai th`~ j Asiva~. Il nodo era di corteccia di corniolo[12] (ejk floiou` kraniva~, 2, 3, 7) e non se ne vedeva la fine né il principio. A. era in difficoltà e temeva che non slegarlo producesse movimenti nella massa: secondo alcuni lo tagliò con la spada (tw`/ xivfei dievkoye) e disse che era sciolto, mentre Aristobulo scrive che estrasse la caviglia del timone. Comunque si allontanò come se la profezia si fosse avverata. Tuoni e lampi di notte e un sacrificio di ringraziamento il giorno dopo confermarono il tutto (2, 3, 89.

 

Curzio Rufo.

Scrisse sotto il regno di Claudio, poco dopo la morte di Caligola. Compose le Historiae Alexandri Magni in dieci libri. Non ci sono arrivati i primi due. Abbiamo già detto che è molto più critico di Arriano nei confronti di Alessandro.

 

Il terzo libro di Curzio Rufo inizia dalla primavera del 333 con la presa di Celene, in Frigia. C’è subito l’episodio del nodo di Gordio che invece Diodoro ignora. I Macedoni temevano un cattivo presagio. Ma Alessandro disse: “Nihil interest quomŏdo solvantur (III, 1, 18) e tagliò con un colpo tutte le cinghie.

“Come per l’uovo di Colombo, non è il risultato, ma la novità della soluzione, che porta l’impronta del genio”[13].

 

Alessandro si fa profeta di se stesso, dando,  non prendendo gli auspici sul suo destino.

Faccio un salto indietro nel tempo

In Plutarco, Vita 14, 6 "Volendo poi consultare il dio sulla spedizione andò a Delfi e poiché per caso erano giorni nefasti, nei quali non è in uso dare oracoli, dapprima mandava a chiamare la sacerdotessa".-

Poiché quella si rifiutava e metteva avanti la norma, egli stesso, salito, la trascinava a forza nel tempio, ed ella come vinta dalla risolutezza disse:"sei invincibile, figliolo” ajkivnhto~ ei\ w\ pai`.

 

Excursus su Cesare

Così Cesare "Ne religione quidem ulla a quoquam incepto absterritus umquam vel retardatus est. Cum immolanti aufugisset hostia, profectionem adversus Scipionem et Iubam non distulit. Prolapsus etiam in egressu navis, verso ad melius omine, Teneo te, inquit, Africa "(Svetonio, Caesaris Vita , 59), non si lasciò distogliere da qualsiasi impresa neppure da alcuno scrupolo religioso. Sebbene gli fosse sfuggita una vittima mentre sacrificava, non rimandò la spedizione contri Scipione e Giuba. Scivolato per giunta nell'uscita dalla nave, girato al positivo il presagio, disse:"Ti tengo, Africa!".

Cesare In Gallia fana templaque deum donis referta expilavit (Svetonio, 54) e durante il primo consolato (59) rubò tre mila libbre d’oro dal Campidoglio, e sostenne le guerre civili evidentissimis rapinis ac sacrilegis. Risale ad Ecateo il problema se sia lecito toccare i tesori dei templi.

 

Nel De bello civili Cesare ritorce questa accusa di sacrilegio facendo il processo alle intenzioni dei suoi nemici: “egli costruisce la storia della Ephesia pecunia “il denaro di Efeso” che i suoi avversari, Scipione e Ampio Balbo (III, 33; 105, 1) avrebbero avuto in animo di rubare”[14]. Ma l’arrivo di Cesare, o addirittura, nel primo caso, l’annuncio del suo arrivo lo impedirono: “In duobus temporibus Ephesiae pecuniae Caesar auxilium tulit ” (De Bello civili, III, 105).

“Quanto a Roma, Cesare insiste sulla volontà dei pompeiani, di procurarsi, nel 49 a. C., al momento della fuga (18 gennaio), il denaro custodito nell’”erario santo” …in tutti questi casi, Cesare vuole mostrare che i suoi avversari hanno tentato il “sacrilegio”; in realtà, in nessuno di essi il “sacrilegio” fu precisamente compiuto”[15]. Anche questa volta fu la notizia dell’arrivo di Cesare a fermare il gesto sacrilego del console Lentulo che voleva dare la pecunia a Pompeo ex senatusconsulto (D. B. C. I, 14).  Ma a Roma si sparse un tale panico ut…Lentulus…protinus aperto sanctiore aerario ex urbe profugeret.  

L’aerarium è la cassa dello Stato, il tesoro pubblico. Il fiscus invece dal 27 a. C. era la cassa privata dell’imperatore.

 

“Al contrario, proprio l’”erario santo” fu violato da Cesare in quello stesso 49 a. C., in aprile; Cesare sorvola su questo suo atto di forza, mentre insiste sulle non realizzate analoghe intenzioni dei suoi nemici”[16]. Floro e Appiano accusano Cesare di avere saccheggiato l’erario.

 E’ la deformazione storica dei Commentarii che hanno intenti apologetici verso se stesso, mentre vi ricorrono formule polemiche contro i nemici: all’inizio del D. B. C. Cesare afferma: “pecuniae, a municipiis exiguntur, e fanis tolluntur, omnia divina humanaque iura permiscentur” (I, 6). Questo avviene contra omnia vetustatis exempla. Ma i suoi avversari chiamavano sacrilego proprio lui: “Postea vero evidentissimis rapinis ac sacrilegis et onera bellorum civilium et triumphorum ac munerum sustinuit impendia” (Svetonio, I, 54).

 Dunque il prendere denaro dai templi sarebbe tabù. Cesare non nega tale tabù, ma a volte si mostra spregiudicato: i pompeiani divennero troppo baldanzosi dopo la vittoria di Durazzo poiché dimenticavano come portano grandi danni  piccole cause o di ipotesi false, o di improvviso terrore, o di religione posta contro (parvulae saepe causae…obiectae religionis, D. B. C. III, 72) . Cesare arrivò a dire, con un’immagine di sapore catilinario”[17].Nihil esse rem publicam, appellationem modo sine corpore ac specie”, solo una denominazione (Svetonio, Vita, 77). “Eoque arrogantiae progressus est, ut, haruspice tristia et sine corda exta quondam nuntiante, futura diceret laetiora, cum vellet; nec pro ostento ducendum, si pecŭdi cor defuisset”(77), e giunse a tal punto di arroganza che, dicendogli una volta un aruspice che le viscere apparivano infauste e mancava il cuore, replicò che sarebbero stati propizi quando avesse voluto, e che non doveva considerare un prodigio la mancanza di cuore di una bestia.

“Cesare dunque non osservava rigorosamente l’aruspicina: ciò che per Ampio Balbo era uno scandalo”[18]. Ampio Balbo aveva scritto una biografia di Cesare utilizzata da Svetonio (77=T. Ampius Balbus, frg. 1 Pet). “Tanusio Gemino …nella sua opera storica (che andava, forse, dal 78 ad almeno il 55 a. C.)…illustrò la proposta di Catone nel 55, di consegnare Cesare ai Germani per la sua azione “sacrilega” contro Usipĕti e Tenctĕri”[19]. Sono tribù germaniche del basso Reno. Secondo Catone Uticense quello di Cesare era un bellum iniustum.

 

“Tra Cesare e Alessandro Magno c’è una differenza, che è anche un segno dei tempi. A differenza del giovane Alessandro, questo maturo eroe romano dagli occhi neri, epilettico e indomito tuttavia, non prendeva le mosse da una concezione mitica della vita; si rifaceva ad un’idea razionale dell’uomo e della storia: distingueva, come Tucidide, tra la calcolata deliberazione e lo scrupolo religioso, che secondo Tucidide rovinò Nicia. Ma…non poteva contentarsi di opporre ragione a superstizione: doveva opporre una sua religione, quella del monarca dio, alle mordenti critiche della classe degli ottimati, contro cui aveva combattuto sempre…un’altra e più profonda differenza tra Cesare pensatore e Cesare uomo politico. Nella sua opera sulla Guerra civile, questo condottiero non fa cenno a quell’ispirazione divina a cui i suoi contemporanei ricondussero la sua grande decisione della notte fra il 10 e l’11 gennaio: il passaggio del Rubicone. Il Cesare di tutti noi, è, ancor oggi, l’uomo che disse allora: “il dado è tratto”; questo non è il Cesare del Bellum civile, ma il Cesare delle Historiae scritte dal suo ufficiale più “indipendente” e acuto: Asinio Pollione.

Nel suo racconto Cesare aveva voluto esporre le ragioni storico-giuridiche della decisione presa, “condensate” in un’arringa ai soldati (B. C. I, 7)”[20].

Caesar apud milites contionatur . Si lamenta del fatto che nella repubblica si sia introdotto novum exemplum…ut tribunicia intercessio armis notaretur atque opprimeretur” (I, 7), il veto dei tribuni veniva censurato e soffocato con le armi.  Perfino Silla che aveva spogliato la tribunicia potestas, tamen intercessionem liberam reliquisse.    

“Asinio, che ancora portava nell’animo il ricordo fascinoso del capo, e tuttavia voleva a suo modo esercitare una critica “indipendente”, dipinse invece un “passaggio del Rubicone” in cui il lettore ritrovava ancora l’ansia e la gravità di quella decisione suprema”. Il racconto di Asinio lo ricostruiamo attraverso storici più tardi. “Tra il racconto di Cesare, scritto forse verso il 46 a. C., e quello di Asinio, che cominciò le sue Historiae verso il 30, corrono quindici anni, o più; ma la differenza non è solo nelle date; è più significativa e radicale; Cesare, scrittore “tucididèo”, ossia razionale, non poteva intendere abbastanza i momenti irrazionali della sua stessa impresa…le Historiae di Asinio potevano riflettere la vera situazione, in maniera più adeguata, senza preoccupazioni apologetiche…Il Cesare autentico è però un incontro della razionalità tucididèa…con la passione politica, che lo animò in questi momenti decisivi”[21].

 

Un altro momento decisivo è il discorso di Vesonzio del 58 che mostra una continuità fra Cimbri, Spartachisti e Ariovisto, rex Germanorum. I Romani temevano i Germani per la ingenti magnitudine corporum (De bello gallico, I, 39). Il timore è sine causa poiché la constantia prevale sul furore barbarico e servile. Un’altra arma vincente è l’officium imperatoris, il senso del dovere del comandante. Inoltre la sua innocentia e la sua felicitas, il disinteresse e la buona fortuna. Se gli altri non lo seguiranno andrà con la sua coorte pretoria: la decima legione, la preferita.

 

“Cesare era nobile, Asinio d’origine “borghese”; ma proprio la vittoria di Cesare sugli ottimati aprì la via, definitivamente, ad una svolta “borghese” nella storia del mondo romano”[22]. 

 

  Bruto Maggiore addirittura simulò una caduta: quando l'oracolo delfico infatti preconizzò che avrebbe avuto il sommo potere a Roma quello che per primo avesse baciato la madre, Bruto, avendo capito, "velut si prolapsus cecidisset, terram osculo contigit, scilicet  quod ea communis mater omnium mortalium esset " (Livio,  I, 56, 12) come se fosse caduto per una scivolata, diede un bacio alla terra, evidentemente poiché quella era la madre comune di tutti i mortali.

"Il momento è fondamentale, si parla di accedere al regno - e Bruto cade! Ma la sua superiore intelligenza gli permette di rovesciare il massimo della disgrazia o dell'errore - il prolābi, il peccare, lo scelus - nel massimo della fortuna….Cesare, sbarcando in Africa, scivolò e cadde a terra: creando panico fra i soldati per il malum omen di quella caduta in un momento così cruciale. Ma riuscì a salvare la situazione, e con grande prontezza, perché "verso ad melius omine 'teneo te' inquit Africa! [23]"(volto a suo favore il presagio disse:"ti tengo, Africa!".

 

Nel racconto di Frontino[24] morto sotto Traiano, Cesare se ne esce addirittura in un "teneo te, terra mater!" (ti tengo, terra madre!).

 

 

Secondo Cassio Dione (160-235)  Cesare afferrò e baciò la terra, gridando poi:"Ti tengo, Africa!"[25]. Ci sembra francamente di leggere cose note. Una caduta in un momento cruciale, poi, subito un "tenere" la terra: per non parlare della terra "madre" , o del "bacio" dato alla terra. Al fine di neutralizzare il cattivo omen, Cesare si comporta da Bruto. Applica lo schema di chi, cadendo, e quindi producendo un cattivo augurio, stabilisce in realtà un rapporto privilegiato con la madre di tutti gli uomini[26]. Ecco dunque un esempio concreto di come può agire, sotto forma di ripetizione, un paradigma offerto dal mito"[27].

 

In Cassio Dione (II-III sec. d. C. Storia di Roma dalle origini al 229 d. C.) Cesare, appena toccò terra, inciampò, e i soldati, avendolo visto cadere bocconi, si scoraggiarono e, turbati, rumoreggiarono, ma Cesare non restò imbarazzato, anzi wJ" kai; eJkw;n dh; peswvn, anzi, come se fosse caduto apposta, afferrò la terra, la baciò e gridando  disse: “ e[cw se, jAfrikhv” , ti tengo, Africa (42, 58, 3).

Viene  rivendicata dignità alla scivolata, come Prometeo di Eschilo fa con il delitto. Le Oceanine si impietosiscono per la sorte dell’Incatenato e lo stesso Titano si sente meritevole di tanta compassione (v.246), eppure è tutt'altro che pentito e prorompe nel grido di ribellione con il quale afferma la dignità del suo delitto:"io sapevo tutto questo:/di mia volontà, di mia volontà ho compiuto la trasgressione, non lo negherò (eJkw;n eJkw;n h{marton, oujk ajrnhvsomai)/ aiutando i mortali ho trovato io stesso le pene (aujto;~ huJrovmhn povnou~ )"(Prometeo incatenato, vv. 265-267).

L’eroe non si impressiona per il presagio sinistro: “Ma dal mio padre appresi/ che il presagio sinistro/è mirra nella coppa dell’eroe”, dice Ippolito nella Fedra di D’Annunzio (del 1909, atto II).

Fine excursus

 

Arriano.  Il bagno nel Cidno. Plutarco e Shakespeare: Cleopatra.

Al. si spinse in Cappadocia poi in Cilicia fino a Tarso 333. Qui si ammalò, secondo Aristobulo per la fatica uJpo; kamavtou ejnovshsen (2, 4, 7), altri per il bagno nel fiume Cidno dall’acqua fredda e limpida yucro;~ tev ejsti kai; to; u{dwr kaqarov~. A. era invece sudato e accaldato iJdrw`nta kai; kauvmati ejcovmenon.

Qui si vede che la malattia, quella fisica come quella mentale, è determinata dal contrasto tra l’uomo e la natura, tra il cosmo divino e il disordine umano. Il medico Filippo volle purificare kaqh`rai (2, 4, 8) Al. con un farmaco. Diodoro scrive che Filippo, acarnano di origine, si serviva di medicine pericolose ma che agivano in breve tempo (17, 31).

 Parmenione mise in guardia A. il quale tuttavia bevve la pozione e fu purificato. Per quanto riguarda il rapporto di Al. con la medicina, Plutarco sostiene che Aristotele gli abbia inculcato to; filiatrei'n (8, 1), il diletto dell’arte medica: il giovane non solo amò la teoria, ma curava gli amici malati e prescriveva loro terapie e diete.

 

Plutarco e Shalespeare su Cleopatra

Una curiosità: il Cidno è il fiume presente nella letteratura: è quello  sul quale Cleopatra navigò per raggiungere e sedurre Antonio. Ella risaliva il fiume su un battello dalla poppa d’oro, con le vele di porpora spiegate, mentre i rematori remavano con remi d’argento al suono del flauto accompagnato da zampogne e cetre. La regina stava sdraiata sotto un padiglione ricamato d’oro, ornata come Afrodite, con ragazzi simili ad amorini che le facevano vento e le ancelle abbigliate da Nereidi e da Grazie stavano al timone e alle funi. Meravigliosi profumi provenienti da aromi bruciati invadevano le sponde (Plutarco, Vita di Antonio, 26).

Lo ricorda Shakespeare che leggeva Plutarco nella traduzione (del 1579) di Thomas North fatta su quella  francese (del 1559) del vescovo Amyot che tradusse pure i Moralia (1572)[28].  The barge she sat in, like a burnish’ d throne/Burn’d on the water: the poop lat. puppis- was beaten gold;/Purple- purpura porfuvra- the sails, and so perfumed- lat fumus-fumare- that/ The winds were love-sick with them; the oars were silver,/Which to the tune of the flutes kept stroke…” (Antonio e Cleopatra, III, 2),  la barca dove sedeva, come un trono brunito, splendeva sull’acqua: la poppa era di oro battuto; di porpora le vele, e così profumate che i  venti languivano d’amore per esse; i remi erano d’argento, e tenevano il tempo al suono dei flauti.   

 

Per quanto riguarda il rapporto pericoloso di Al. con i fiumi, Plutarco racconta pure che fermatosi davanti a un fiume profondo che ostacolava l’attacco alla città di Nisa[29], disse a se stesso: perché io, pessimo, non ho imparato a nuotare? Tiv gavr- ei\pen- oJ kavkisto~ ejgw; nei'n oujk e[maqon; .  Poi volle attraversarlo con lo scudo in mano ( Vita, 58, 6).

 

Pesaro 29 luglio 2029 ore 10, 53 giovanni ghiselli

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[1]Orazio, Odi , I, 6, 5- 6:" gravem /Pelidae stomachum cedere nescii ", la funesta  ira di Achille incapace di cedere. 

[2] Iliade , XIX, v. 423.

[3]Una copia romana che si trova al Louvre.

[4]Canfora, Lo Spazio Letterario Della Grecia Antica , Volume I, Tomo II, p. 835.

[5] J. G. Droysen, ( Alessandro Il Grande, p. 134.

[6] Johann Gustav.  Droysen (1808-1884), Alessandro Il Grande, p. 135

[7] Storico di Agirio, in Sicilia, visse per lungo tempo a Roma. Tra ìl 60 e il 30 a.C. compose la Biblioteca, una storia universale in 40 libri. Raccontava parallelamente la storia greca e quella romana dalle origini al 36 a. C. Ci sono arrivati i libri 1-5 e 11-20. Il XVI e il XVII raccontano le storie di Filippo e di Alessandro.

[8] Arriano, L'anabasi di Alessandro, I, 25, 6, sgg.

[9] Si narrava che lo stesso incidente fosse capitato a Gorgia. Il quale se la cavò, però, senza allarmarsi e con molto spirito, esclamando "non son cose da farsi, queste, Filomela!" (Plutarco, Questioni conviviali, 8, 7, 2).

In Arriano non ho trovato notizia di questo “incidente” (n. d. r.).

[10] M. Bettini, Le orecchie di Hermes, p. 126 sgg..

[11] J. G. Droysen, Alessandro Il Grande, p. 117.

[12] Il materiale delle sarìsse.

[13] J. G. Droyse, op. cit., p. 142 n. 1.

[14] S. Mazzarino, Il pensiero storico classico, 2, p. 195.

[15] S. Mazzarino, Il pensiero storico classico, 2, p. 195

[16] S. Mazzarino, Il pensiero storico classico, 2, p. 196.

[17] S. Mazzarino, Il pensiero storico classico, 2, p. 198

[18] S. Mazzarino, Il pensiero storico classico, 2, p. 198.

[19] S. Mazzarino, Il pensiero storico classico, 2, p. 183.

[20] S. Mazzarino, Il pensiero storico classico, 2, p. 199-200.

[21] S. Mazzarino, Il pensiero storico classico, 2, p. 201.

[22] S. Mazzarino, Il pensiero storico classico, 2, p. 201.

[23] Svetonio, Divus Iulius, 59.

[24] Frontino, Stratagemmata, I, 21, 2. Qui Cesare sta salendo sulla nave, non sbarcando.

[25] Cassio Dione, 42, 58, 3.

[26] Che si tratti di uno schema topico, appare molto probabile. Cfr. Frontino, Stratagemmata, I, 21, 1, dove un aneddoto solo leggermente variato (terram opprimere stavolta, non tenere) è attribuito a Scipione.

[27] M. Bettini, Le orecchie di Hermes, Einaudi Torino, 2000, p. 104.

[28]Traduzioni approvate, da Montaigne che, qualche anno più tardi, scrive nei Saggi  :" Io do giustamente, mi sembra, la palma a Jacques Amyot su tutti i nostri scrittori francesi, non solo per la semplicità e la purezza del linguaggio, nella quale supera tutti gli altri, né per la costanza di un così lungo lavoro, né per la profondità del suo sapere, poiché ha potuto volgarizzare così felicemente un autore tanto spinoso...ma soprattutto gli sono grato di aver saputo discernere e scegliere un libro tanto degno e tanto appropriato per farne dono al suo paese. Noialtri ignoranti saremmo stati perduti se questo libro non ci avesse sollevato dal pantano; grazie a lui, osiamo ora e parlare e scrivere; le signore ne dànno lezione ai maestri di scuola; è il nostro breviario"(II, 4, pp. 467-468).

[29] Antica città, che fu capitale dell'impero dei Parti, nel territorio dell'odierno Turkmenistan

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