sabato 2 febbraio 2013

L’amore d’inverno.

Mercoledì ventinove novembre, fin dalle prime ore del pomeriggio, su Bologna, dove lunghi sono gli inverni, cadde a fiocchi grandi la neve, che in poco tempo rese canuta la terra.
Ifigenia fece suonare il campanello verso le cinque, quando era già buio; corsi ad aprire il portone,  perché ero impaziente di fare l’amore; ma, come la vidi, mi fermai stupito, senza toccarla, senza invitarla a entrare, senza dire parola: non avevo mai visto una tale unione di inverno, colore e calore di vita: i capelli bruni bruni, bagnati, a tratti innevati, le scorrevano giù per le spalle come un ruscello montano cupo di gelide ombre , e aspro di pietre biancastre, facendola rabbrividire, ma gli occhi violacei, lucenti mi versavano addosso una morbida luce che fluiva calda dal cuore. La osservavo in silenzio, mentre i fiocchi larghi continuavano a caderle addosso, evidenziandosi sulle ciocche scure, come sulle chiome perenni degli abeti montani, e trasformando la luminosa ragazza  in una creatura dei boschi: un dolce cerbiatto dalla pelle screziata, oppure una bella baccante che dopo la dolce fatica della corsa sui monti si riassetta la nebride multicolore onorando il dio suo, Bacco, signore della gioia di vivere, della festa lieta, delle grazie tutte, del desiderio. Mentre nella fredda oscurità della notte precoce contemplavo la vivida fiamma della mia giovane amante, mi riempivo e scaldavo di gioia. Dopo qualche momento di stupito silenzio, la ragazza disse: “mi fai entrare? Sento un poco di freddo”.
Mi scostai dalla porta: Ifigenia entrò senza indugiare e, poiché l’ascensore non funzionava, cominciò a salire i cinque piani di scale spedita, facendo ondeggiare la testa, e le anche, sulle gambe robuste molleggiate dalle caviglie sottili, mentre i piccoli piedi, nello sforzo di ascendere i molti gradini di corsa, si appoggiavano e sollevavano con leggerezza, potenza e agilità. Le correvo dietro ammirato e felice. Quando fummo arrivati davanti alla porta dell’appartamento, la aprii con la destra un poco tremante, poi con la sinistra le feci segno di entrare. Ero pieno di desiderio amoroso. Lo sentiva concordemente anche lei, poiché procedette fino alla sponda del mio grande letto dove si svestì con rapide mosse. Mentre, con i vestiti sul pavimento, cadeva la neve, la splendidissima amante mi chiese di spogliarmi subito e di abbracciarla senza i preamboli solitamente graditi: il marito, un tanghero assai sospettoso, non poteva crederla a spasso nel caos bianconero della notte nevosa, né, tanto meno, doveva immaginarsi che passasse il tempo nell’alcova di un uomo: perciò era necessario che rientrasse non oltre mezz’ora dopo la lezione di yoga, che finiva alle sei e distava un chilometro circa da casa sua. Ci eravamo spogliati. L’abbracciai senza dire parola: il seno si era già intiepidito, anzi conservava gli odori della terra benedetta dal cielo estivo: pensai che non era il tepore domestico a renderla così calda e vivace appena si era sottratta all’iniqua, mortificante stagione, ma il suo giovane sangue fervido sotto la pelle ancora abbronzata e profumata dal sole che durante la nuda estate doveva averla baciata con lucida forza amorosa, lasciandole addosso indelebili segni di bellezza, di salute e di gioia. La baciai anche io per succhiare una parte di quel calore celeste; quindi la distesi sul letto inclinando il mio corpo avido, scuro e magro su quello armonioso di lei: ne trassi piacere e voglia di vivere, eppure pensai a quando le sue magnifiche membra, coperte dall’ultima veste, la nera terra, l’avrebbero fatta fiorire di sanguigni papaveri, o di rose rosse, profumate di carne.

Il viaggio ciclistico in Grecia. Quasi tre anni più tardi.
Partimmo da Pesaro il 19 agosto alle sei di mattina, poiché dovevamo arrivare al porto di Ancona e iniziare le operazioni di imbarco per Patrasso non dopo le nove. Avevamo con noi, due piccoli zaini oltre le biciclette. Anche Ifigenia la bella si era adattata a girare come una zingara. Fisicamente eravamo entrambi in ottima forma, però le condizioni emotive non erano sane né equilibrate tra loro. Pedalavamo sulla strada statale n. 16 tra Pesaro e Fano, io avanti lei dietro. A sinistra osservavo la costa adriatica, a destra il colle Ardizio, poi la terra del Montefeltro: la dolce e serena campagna raffigurata alle spalle di femmine umane, serene e armoniose anche loro, da quel grande amante del classico e delle donne che fu Raffaello urbinate. Dopo qualche chilometro, a fosso Sejore, mentre guardavo il sole che cercava di uscire dal mare, mi sembrò non ne avesse la forza: anzi, quando il suo svilupparsi dalla fredda pianura salata fu giunto a metà, sembrò dovesse fermarsi così dimezzato: al posto dell’emisfero inferiore imprigionato nella distesa marina si vedeva riflessa nell’acqua l’immagine rossa della metà superiore. Mi fece l’impressione sinistra di un paralitico che passa il  tempo seduto in una poltrona tenendo sulle gambe coperte e insensibili un grande specchio per vedervi riflessa la faccia ancora bella e la testa fulvida di ricci lucenti, ultima testimonianza di tempi migliori, quando le gambe snelle e veloci al pari di ali, lo portavano dove voleva. Erano quasi le sette, quantunque legali. L’estate declinava pur  troppo. Il sole finalmente riuscì a liberarsi dal mare fremente, colore del vino, ma la morte cupa e dolente della bella stagione era vicina. Non avevamo ancora parlato: era tempo di avviare almeno uno scambio di qualche battuta; lei procedeva alquanto immusonita: poteva essere solo assonnata, ma forse era anche scontenta di pedalare verso l’Ellade antica con uno che non le rivolgeva parole né sguardi. “Ifigenia- dissi con tono amichevole e volontà di farla partecipare alle mie osservazioni-guarda il sole che si riflette nel mare raddoppiando il suo fuoco; non sembra un’atomica appena scoppiata, l’inizio forse della grande conflagrazione ignea che tutto distrugge e tutto  rinnova?”. Volevo significarle che speravo in una salutare rigenerazione tra noi. Ma quella, sgradevolmente colpita dall’idea apocalittica, mi guardò con rancore, fece un gesto di scongiuro triviale e disse: “ Le tue fantasie catastrofiche copiate da Seneca, filosofo da strapazzo, d’ora in avanti tielle per te!”.
Zittito in malo modo, meditavo sul nostro fallimento attraversando Fano ancora un po’ addormentata. Superato l’arco di Augusto, pensavo alla sua bellezza ancora fulgida e trionfante.  
Pensavo un poco da pedante rimuginando i maestri della Stoà: “la magnificenza corporea scompagnata dal logos e dalla virtù sfiorisce presto e lascia solo vani rimpianti a chi, mentre la possedeva, sperava contro ragione di conquistare il mondo brandendola quale invincibile arma: Ifigenia, da quando, cambiati i modelli, rinnega con odio i miei insegnamenti, e ripiega sui tangheri, commette l’errore di attribuire alla sua venustà superba un valore eterno, assoluto e capace di farle raggiungere qualsiasi meta. Ma la bellezza da sola è un bene fragile e assai per tempo caduco. E’ come un ramo di mandorlo che il vento di aprile disfiora; è come il fiammeggiante papavero che il caldo di giugno scolora; è come il grano nitido che brilla nell’aria odorosa di un’umida sera di prima estate, finché la falce spietata lo miete e l’avido agricoltore lo chiude nel buio di un sacco. E’ come la foglia che il primo temporale di luglio strapazza, stacca dal ramo e trascina in una fangosa pozzanghera. L’eterna devastazione del tempo risparmia soltanto i frutti dell’anima: il Bene che fai, l’Amore che dai, la Giustizia che rendi, il Bello che crei, il Vero che cerchi. Questa coscienza preziosa dei beni spirituali l’ho trovata attraverso la gioia e il dolore dei quasi tre anni vissuti con lei. Per  me è stata la conquista più grande, eppure non riesco a comunicargliela. La prenderebbe come un giudizio teso a oscurare il suo splendore corporeo che invece io venero perché mi ha dato la prima spinta verso il ricordo della bellezza eterna”.
La feci passare davanti. Volevo esaminare il suo corpo in movimento per coglierne l’essenziale, l’universale, l’esemplarmente umano, e sottrarlo alla rovina del tempo irremeabile, all’annientamento dell’inesorabile morte, alle offese degli uomini ottusi, delle malattie voraci, dei dispiaceri crudeli.
Osservavo i movimenti che distendevano e riaccostavano le membra nel pedalare la bicicletta. Consideravo una per una le parti del corpo dove nel primo anno del nostro amore avevo visto qualcosa di sovrumano: un somatizzarsi dell’adorata luce solare. Poi quello splendore celeste si era offuscato, anche per colpa mia, e le belle membra erano diventate meno vibranti di gioia spirituale e divina; tuttavia umanamente erano ancora perfette. La piccola testa, incorniciata dai capelli ondulati, sorretta dal collo lungo e sottile, oscillava soavemente sulle spalle forti e rotonde; gli occhi a mandorla, violacei, grandi e profondi nel volto dagli zigomi in luminoso rilievo, ogni tanto si volgevano indietro per controllare la mia tenuta al ritmo frequente delle gambe che spingevano i pedali con forza; quegli occhi interrogativi, circondati dai folti capelli neri, sembravano laghi montani cinti da foreste ombrose, densi di misteri inquietanti. I seni sodi e cospicui sotto la maglietta leggera fendevano l’aria seguendo i movimenti dell’agile busto senza perdere nulla della loro compattezza rotonda; avrei voluto succhiargleli per trarne la forza di parlare alla creatura già mia con il suo stesso linguaggio che non comprendevo più da quando nuovi crucci e dolori antichi le avevano torto la mente con la favella. La vita sottile connettendo con la sua cavità le superbe sporgenze superiori e inferiori, le metteva in risalto; le natiche belle appoggiate sullo stretto sellino di cuoio, non si schiacciavano né subivano deformazione alcuna, tanto erano sode e compatte: quando la giovane donna si alzava sui pedali per superare qualche breve salita o per contrastare le folate del vento contrario, la carne dei glutei, divinamente compatta dal vincolo dell’armonia, parzialmente visibile sotto i calzoncini azzurri e succinti, non faceva una piega. Quando tornava a pedalare seduta, usava soprattutto le cosce per imprimere energiche spinte al veicolo; allora la carne fiorente, in splendida copia sopra le ossa sottili, si tendeva con sano vigore abbronzandosi al sole alzatosi intanto nel cielo; il piccolo disco delle ginocchia armonizzava la tensione della coscia carnosa con il turgore del sodo polpaccio in deciso rilievo sopra la caviglia snella. Questa trasmetteva la spinta di tutta la muscolatura complessa e concorde ai piccoli piedi calzati di rosse scarpette. La osservavo e con il pensiero le rivolgevo mute ma accorate parole: “Bella sei bella, creatura; sei l’idea stessa della Bellezza incarnata che voglio raffigurare prima che la tua carne si perda per sempre inghiottita dal tempo edace che tutto divora. Eppure tu non sei Ifigenia, la fanciulla eroica che crea con forza valori morali e sociali. Piuttosto sei Elena che spinge i poeti a cantare la Bellezza della forma femminile perfetta. Non è nemesi soffrire tanti dolori per una donna del genere. Ma tu vuoi drammatizzarti da sola. Ora non parli con me perché temi che io disapprovi le parti non buone che vuoi comunque provare sul tuo palcoscenico. Forse hai ragione: in ogni caso faresti bene a indagare te stessa profondamente. Nei baratri cupi e limacciosi del tuo carattere però non dimenticare la luce, non affogare; dopo averli osservati, creatura, risali. Voglio vederti riemergere trionfalmente quando avrai decifrato il codice arcano del tuo destino non comune. Ti voglio vedere felice”. Così arrivammo ad Ancona. Mangiammo un frutto dell’ultima estate, e, sempre senza parlare, salimmo sul traghetto greco.

Il sogno sul traghetto.
La notte tra il 19 e il 20 agosto, mentre dormivamo nell’angusta cabina che solcava le onde dell’abisso salato, feci un sogno angoscioso. Io e Ifigenia ci amavamo con passione impetuosa.
A un tratto, dalla mia bocca uscirono schizzi di calce viva che in breve tempo corrosero gli occhi della ragazza lasciandole due buchi profondi fin dentro la testa. Ifigenia mi rimproverava con un singhiozzo; poi, senza ascoltare le mie invocazioni, indossato un mantello, si allontanava incamminandosi per una via deserta, sorvolata da uccelli strani, mai visti, che schiamazzavano con fragore cattivo, si agitavano rabbiosamente e sembravano volere qualche cosa con furibonda violenza: infatti, a un tratto, si lanciarono addosso alla fanciulla già orbata e presero a beccarla sulla testa, nel volto, sulle piccole mani protese in un tentativo di vana difesa; altri si diedero a duellare squarciandosi i petti a vicenda, altri si laceravano il corpo da soli con il becco aguzzo, oppure scagliandosi contro pezzi acuminati di ferro. Dopo qualche minuto Ifigenia, non potendo difendersi dai colpi di quei rostri furenti, si mise a scappare con tutte le forze che le rimanevano; allora il mantello le cadde di dosso, e il suo splendidissimo corpo apparve più luminoso che mai sotto la testa sconciata da quelle bestie pazze e crudeli. La vedevo correre nuda, veloce, lontana dagli uccelli assassini e speravo che, perduta la testa, potesse salvare almeno il corpo splendente; ma ecco che, invece, la carne delle braccia tornite, del collo liscio, del florido seno, delle cosce morbide, profumate e lucenti, cominciò a liquefarsi, a gocciolare, non come un sudore acquoso, bensì come un grasso opaco, denso, biancastro che scivolava copiosamente nel suolo impregnandolo e fertilizzandolo. In poco tempo la polpa del corpo si ridusse a una povera buccia grinzosa, quindi venne annientata da quello struggimento crudele: dalle gocce cadute a terra però spuntarono piccole rose rosse, socchiuse da foglie lucenti, sorrette da gambi diritti e sottili, umide di fresca rugiada, illuminate da un sole mattutino e primaverile: nitide di verginale bellezza. Cercai di coglierne una per tenderla a Ifigenia e dirle: “Tu per me sei ancora simile a questa”. Ma il gambo era di ferro e non riuscivo a spezzarlo. Intanto la mia povera, cara creatura, ridotta allo scheletro solo, si era fermata in mezzo al giardino nato dalla sua carne versatosi completamente nel suolo. Finalmente rivolse la testa dalla mia parte e mi fissò con le occhiaie, manifestando immenso rimpianto delle sue membra liquefatte e del nostro amore sconciato. Io volevo avvicinarmi alla miseranda figura per consolarla: con la mano destra cercavo di accarezzare il povero teschio, con la sinistra indicavo il variopinto giardino nato dal suo struggimento; ma Ifigenia, prima che potessi toccarla, disse con un filo di voce: “Lascia perdere, amore. Non vedi che sono già morta?”.
Mi svegliai con stanchezza e dolore. Il Signore di Delfi, che, devoti, andavamo a pregare, mi aveva mandato una visione notturna dal contenuto latente facile da svelare: volevo la morte della mia compagna o per lo meno un suo rinnovamento. Così com’era non potevo più tollerarla. Mi posi gli occhiali sul volto e cominciai a scrivere il sogno mentre l’odiata-amata compagna dormiva ancora. Una volta non avrei aspettato il suo risveglio senza mettermi le lenti a contatto: a lei con gli occhiali non piacevo punto, e a me non piacerle sembrava il peccato più brutto: peggiore della stupidità, della volgarità e del crimine stesso. Infatti quando si svegliò e mi vide con gli occhi invetriati, intuì che non stavo annotando pensieri propizi. Mi guardò un momento, poi disse a bruciapelo che non avrebbe più fatto l’amore con me poiché le confondeva la mente.

La pedalata contro vento e la notte di Galaxidion.
Il pomeriggio partimmo da Delfi scendendo a Itea, poi volgemmo le biciclette su S. Nicolas, il piccolo e ameno porto della baia di Crisa da dove si prende il traghetto per Egion. Il vento soffiava contro di noi. Per pedalare con efficacia contro quella forza ostile  non bastano gambe e polmoni robusti; ci vogliono carattere, metodo, e anche intelligenza. E’ come trovare il modo di piacere a una donna che non sente attrazione immediata per te. Devi insegnarle a trovarti accettabile prima, poi gradevole, poi unico e meraviglioso. Non è impossibile. Pedalando contro vento è necessario trovare la posizione raccolta e il ritmo costante da opporre alle follia senza metodo delle folate. Ifigenia invece obbediva agli impulsi violenti e irregolari dei furibondi soffi contrari al nostro progresso: si lasciava deviare dalla linea diritta, rallentare, e talora, se la forza delle spinte regressive aumentava, persino fermare. Oppure sbagliava i cambi e pedalava scomposta disperdendo energie con rabbia furente anche contro di me che l’avevo portata su quella strada infernale: oscillava, sbandava, sbuffava, metteva un piede a terra, imprecava. Oppure seguiva visioni e miraggi: bramosa di porre termine alla sua folle fatica voleva imboccare ogni strada sterrata che menava sulla riva sassosa del mare, dove l’allucinata ragazza vedeva inesistenti traghetti dirigersi su inesistenti villaggi. Dovevo contraddirla aspramente e sgridarla, o dissuaderla con dolci parole e dare l’esempio. Pensavo: “pedala come affronta la vita: col vento a favore procede spedita; con il vento contrario perde coraggio, disperde le forze, si ferma, poi scivola indietro. Adesso ha bisogno di buoni successi. Altrimenti regredisce e si guasta”. Provavo risentimento per quella debolezza mentale che voleva inceppare anche me e cavarmi le forze. Ma quando Ifigenia ottenne una sosta per un bagno che fece in mutande, e uscì dall’abbraccio marino con le membra perfette gocciolanti di acqua salata, e iridescenti nel sole, “me beato-pensai-per il dono che ho avuto dei tuoi anni migliori, creatura divina, venuta a illuminarmi la vita altrimenti tetra e priva del sommo conforto, Ifigenia ricordo dell’eterna bellezza celeste!”

Al tramonto ci fermammo in un borgo del golfo di Crisa. Galaxidion si chiama. Prendemmo una camera con letto matrimoniale e cenammo. La giornata ventosa e tormentata era finita in una notte calma, dolce e serena di ultima estate. Dopo cena andammo a sederci sulla riva del mare. Si vedevano cadere le stelle. Ifigenia temeva che il firmamento ne restasse sguarnito. Invece era sempre più ricco di fuochi. “Vedi tesoro-dissi-donando si acquista”. Anche il golfo di Crisa era pieno di luci. Sul mare si muovevano lenti i piccoli lumi delle barche uscite a pescare. Un gradino più sopra si vedevano le lampadine di Itea, più in alto quelle di Crisa, poi la luce santa di Delfi, la meta del nostro pellegrinaggio devoto. Due fari lontani, appena visibili, segnavano, forse, la duplice cima del sacro Parnaso; sopra c’era solo il cielo stellato. La via Lattea spiccava nel mezzo. Ifigenia ridendo disse che Galaxidion si chiama così per la Galassia che là si vede brillare come in nessun altro luogo. Bellina, bambina, rideva. Brillava, brillava anche lei. Mi fece pensare ai suoi vent’anni quando la carne nitida e profumata le lievitava addosso come una pasta preziosa. Eravamo contenti. Finalmente potevamo permetterci di stare in pace, di essere quasi felici. Da un locale notturno venivano le note di un valzer di Strauss, Storie del bosco viennese; dalla campagna alle spalle il tremulo verso perpetuo dei grilli. Tutto questo non può essere soltanto caso e materia, dicemmo. Ci venne in mente la morte del lunatico re di Baviera amato da noi per la sua volontà di Bellezza e di Arte contro il mondo, sconciato, già allora, da industrie, commerci e cannoni. Ci sovvenne il nostro pellegrinaggio pasquale ai castelli teatrali del lunatico re sodomita, al cupo lago increspato dove un cigno segnava di bianco il punto della morte per acqua che Ludwig  prigioniero non aveva temuto. “In questi momenti di fuga, di memorie, di sogni, siamo due amanti felici-dissi-ma sull’arte e la vita oramai abbiamo opinioni diverse. E vogliamo vivere in modo diverso. Tu vuoi privilegiare l’istinto; io agli impulsi caotici voglio anteporre un logos appassionato e commosso, ma anche ordinato e diretto a una meta precisa”. Ifigenia mi corresse: “Io privilegio l’intuizione geniale tesoro, non l’istinto bestiale. “Le intuizioni senza concetti sono cieche-pensai- e la bellezza senza intelligenza e volontà di bene può fare male”. Eravamo contenti che la notte stellata dopo le fatiche diurni ci avesse resi più tolleranti, più umani. A un tratto Ifigenia volle andare a dormire: la lunga lotta col vento implacabile me l’aveva stremata. Bellina. L’accompagnai, ma davanti alla camera le chiesi il permesso di girare da solo nella notte odorosa. Volevo guardare ancora le luci sacre e annusare la brezza, che, profumata di mare e di pini, mi dava carezze quasi lascive sul corpo già beneficato dal sole.
“ Sì-mi dicevo- c’è piacere, bellezza e giustizia nel cosmo. C’è un creatore. Il re popolare e demente nella fredda, piovosa Baviera, nella sua reclusione dal mondo reale, dentro quei castelli pacchiani, circondato da servi avidi e perfidi , l’aveva perduto di vista. Non voglio forzare questa giovane donna a diventare diversa da quello che è, chiunque ella sia. Né posso impedirle di fare i suoi sbagli, se proprio ci tiene. Però mi piacerebbe vederla felice. Vederla diventare se stessa. Adesso lei, eliminato il tanghero e presto anche me, vuole cercare da sola la strada che la conduca a se stessa. Spero che riesca a percorrerla tutta, senza fermarsi né deviare, anche se dovesse incontrarvi un fiero vento contrario”. Tornai alla camera. Entrai senza fare rumore. Ma Ifigenia era sveglia: mi aspettava con il volto illuminato dagli occhi ridenti . Un’espressione che non le vedevo da tempo. Facemmo l’amore più volte. Eravamo felici.     

La corriera per Atene. I due bruti: Calibano e Trinculo. Il dialogo tragico nell’albergo.
Lasciammo le biciclette nell’agenzia di Patrasso dove avevamo comprato i biglietti per il ritorno in Italia, poi cercammo la corriera per Atene. Verso le quattro partimmo. Mi mancava la bici e mi spiaceva assai perdere il sole già declinante di quella giornata dell’estate quasi finita. Mi pesava parecchio la rinuncia a pedalare sotto il sole che si avviava a sparire dentro le brume autunnali, di un autunno oltretutto che non sarebbe stato illuminato e scaldato dall’amore della baccante innevata, come quello di tre anni prima. Provavo un forte risentimento per la ragazza pigra che mi faceva perdere l’ultimo sole dell’estate morente, e durante l’inverno mi avrebbe lasciato solo in una Bologna tetra. Tra noi non c’era più molto di buono: ciascuno, facendo un sacrificio anche piccolo in favore dell’altro, se non ne otteneva un vantaggio immediato anche per sé, ne ricavava un senso di spreco: nessuno dei due rinunciava a uno qualunque dei comodi suoi, delle sue abitudini, in beneficio del compagno, senza soffrire e odiare il beneficato. Che razza di coppia squilibrata e scellerata eravamo? In tale contesto provare piacere insieme nel letto era un’offesa all’amore. Quando fummo arrivati ad Atene e scesi dalla corriera, ci guardammo intorno nella stazione gremita e ci chiedemmo dove e a che ora avremmo preso la corsa per tornare a Patrasso, tre giorni dopo. Da soli non riuscivamo a capirlo, né sapeva dircelo alcuno nella confusa stazione. Sicché decidemmo di risalire nel nostro autobus per chiederlo al bigliettaio. Il caos di Atene non ci faceva una buona impressione e non volevamo correre il rischio di rimanervi più a lungo del prestabilito, perdendo per giunta la nave che doveva riportarci in Italia. Così risalimmo nella corriera e io domandai all’uomo rimasto là dentro, in italiano, a quale ora e da dove partisse la corsa Atene-Patrasso. Costui, appena sentì la domanda, ripeté a voce alta “Patrasso, Patrasso!”, più volte, attirando un energumeno con il ceffo coperto da grandi occhiali scuri; anche questo, appena salito, si mise a gridare “Patrasso, Patrasso!”. Poi chiuse la porta, si accostò a Ifigenia che guardava il bigliettaio con cupo stupore, e con un’immonda manata osò profanare le cosce della ragazza, nude sotto i calzoncini bianchi talmente succinti da lasciare vedere l’orlo delle mutandine celesti.
Così acconciata era eccitante anche per me che avevo fatto l’amore con lei senza risparmio alcuno. Mi venne in mente che quando pedalava sulla salita di Delfi alzandosi sopra il sellino, veniva acclamata dai maschi che ci superavano con le automobili; omaggi che in certi momenti di difficoltà potevano averle fatto piacere, o infuso coraggio, ma quel pomeriggio nella corriera chiusa, la libidine scatenata dalle sue cosce nitide nei due forsennati le diede fastidio e le fece paura. Infatti, sentendosi così brutalmente toccata, si voltò con ira e cercò di scagliarsi verso l’uscita, ma il mostro occhialuto aprì le braccia per sbarrarle la strada; l’altro intanto, afferrata una chiave inglese, avanzava verso di me latrando sempre: “Patrasso, Patrasso!”. Mentre pensavo a come difendermi dall’impeto omicida del bigliettaio, Ifigenia, con presenza di spirito, fece cadere un pezzetto di carta  davanti ai piedi dell’animale losco, poi cominciò a chinarsi come se volesse raccoglierlo; quel bieco, tratto in inganno, credendo che si trattasse di cosa importante, prima lo calpestò, poi si chinò in fretta per raccattarlo; la ragazza allora si raddrizzò di scatto e scavalcò la bestia con un balzo; quindi aprì la porta e saltò giù dalla corriera infernale. Il mostro occhialuto, deluso per avere perduto la preda ghiotta, si mise a ululare e a sputare con ira; l’altro lasciò cadere la chiave inglese e bestemmiò in italiano; io avanzai verso la porta aperta e quando fui arrivato vicino a quel Polifemo orbo di mente, gli dissi: “Scostati. Voglio uscire di qui”. Quello urlò ancora: “Patrasso, Patrasso!”, ghignò, poi mi lasciò passare. Così potei scendere da quella cavernosa corriera e riunirmi alla bella che stava aspettando l’esito della scena grottesca e sgradevole, incerta se chiedere aiuto. Per fortuna non era scorso del sangue. Ci allontanammo mentre quei due Ciclopi frenetici, o Calibano e Trinculo che fossero, chiamavano i loro colleghi, magari per lamentare un’aggressione subita da noi.

Giovanni ghiselli g.ghiselli@tin.it

1 commento:

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