martedì 20 maggio 2025

Ifigenia CXIV. La rinuncia cretina dell’imbecille integrale.


Fino alle 10 di sera  dunque  passai le ore del 25 luglio in funzione della scuola e dell’amante italiana, studiando, correndo, nuotando, abbronzandoni e salmodiando  Osanna piuttosto che gridare Evoè e danzare con Dioniso in mezzo alle menadi dai capelli fluttuanti nel vento.

Suonata la ventiduesima ora del giorno, decisi di uscire con l’intenzione non equivoca di andare all’Aranybika per bere un bicchiere di vino, uno solo. Poi sarei tornato e avrei studiato fino all’una di notte. Dopo avere gioito innocentemente del “Sangue di toro di Eger”, avrei versato altro sangue mio nell’impegno  dello studio e della scrittura, sempre sperando che  mi apparisse l’immagine di Ifigenia la bella, la buona, la santa.

 

 La mia follia era quasi completa.

 

Mi incamminai dunque tacito e senza compagnia lungo la strada compresa tra il prato dell’antica attesa di Helena, di Kaisa, di Päivi, a destra, e, sulla sinistra il collegio degli incontri  più antichi[1].

 Tredici anni erano già passati dalla prima volta nell’Università di Debrecen  e stavo vivendo un’ascesi  da anacoreta pazzo, invasato dal demone del perbenismo sessuale piuttosto che  un esercizio da asceta pagano, amante dei classici greci e latini. E delle donne.

Sul prato c’erano diversi giovani: tra gli altri la bionda ninfa salutata la sera precedente.  Quando mi vide passare, si separò dal gruppo, mi raggiunse e mi chiese se volevo andare a bere del vino con lei.

Rimasi un attimo incerto, ci pensai un momento e decisi che non dovevo superare la giusta misura: quel giorno infatti non avevo sacrificato un ariete e una pecora nera come fece Odisseo per vitalizzare con il loro sangue le teste svigorite dei morti[2], bensì avevo impiegato diverse ore del tempo della mia gioventù estrema a un idolo che probabilmente non era santo.

Dopo  le tante  ore di studio, di corse, nuotate,  riflessioni, sempre da solo, mi ero conquistato il diritto di concedermi un poco di compagnia, di svago, di deconcentrazione da me stesso, da Ifigenia e dal nostro rapporto non garantito.

Si apriva uno spiraglio per l’ equivocazione gesuitica.

Ma si richiuse presto per colpa mia. Una colpa dell’intelligenza, un errore erotico, efferato quasi quanto un crimine. Non c’è cosa più amara della stupidità.

 Pensai, senza sbagliarmi, che la bionda belloccia non doveva essere una persona triviale, se non altro per il fatto che aveva visto qualche cosa di strano-a[topon- di  buono e forse perfino di bello, nella mia persona non ordinaria. Anche Ifigenia del resto aveva detto che, salva la fedeltà dovuta e promessa, la sera sarebbe uscita in compagnia se avesse incontrato persone interessanti. Neppure lei sdegnava il vino, vero “equivocator with lechery[3].

La bionda che mi aveva invitato  si chiamava Silvia, si chiama ancora così se sopravvive non solo nel mio ricordo, aveva venticinque anni, era tedesca, di Berlino est, ma da tempo viveva e lavorava quale interprete e traduttrice a Budapest dove si era sposata e poi separata da un certo Virág del quale comunque conservava il cognome poiché le piaceva.

Virág è una parola ungherese che significa “fiore”.

“Virág, fiore, Bloom, come l’Ulisse ebreo ungherese irlandesizzato di Joyce”, pensò subito la mia mente avvezza a vedere le persone, le cose e il mondo intero nella lunga prospettiva formata dalle letture dei classici antichi e moderni.

La vita imita l’arte. La vita è allieva dell’arte, avevo imparato da uno dei miei maestri, Oscar Wilde.

Forse quella Silvia tentatrice mi avrebbe suggerito delle corrispondenze tra quanto di bello ricordavo dalle mie letture e quello che potevamo fare di bello e piacevole io e lei in un rapidissimo mese della nostra effimera vita mortale.

 Intanto ci avviammo verso l’Obester, un borozó o vineria, insomma una bettola simpatica, antica d’aspetto: una specie di grotta adibita a cantina dove si potevano bere diversi vini ungheresi, compreso l’egribikavér che sapeva di situazioni belle: mi faceva tornare in mente le finniche mie amanti e amate quanto nessuna dopo di loro.

Mentre ricordavo qugli aromi e guardavo la bionda accingendomi a un brindisi propiziatorio con lei, non sapevo ancora se durante la nostra prima  serata avrei cercato di stuzzicare le nostre libidini per poi sfogare la mia sensualità bestiale e pure divina, o se sarei tornato da solo  nel letto casto dove avrei dedicato la dura rinuncia alla mia Ifigenia che magari mi era altrettanto fedele. Non si sa mai.

Dopo l’immancabile prosit ci mettemmo a parlare, in inglese.

Si poteva farlo con agio siccome non c’erano violini, né cembali, né, tanto meno, mostruosi apparecchi gracchianti né altri rumori d’inferno che servono a sostituire il silenzio o la chiacchiera vana delle teste vuote di tutto.

La bionda era meno snella e meno bella di Ifigenia , ma anche assai meno povera di parole e idee interessanti. Aveva infatti una formazione  più consistente della ragazza che, forse, chissà, ancora mi aspettava in Italia. Insomma con la tedesca bionda avevo più argomenti di interesse comune, e Afrodite  poteva farci giocare, o duellare, con le parole, in vista di un letto o di un prato illuminato dai nostri sorrisi, scaldato dai reciproci, frenetici abbracci,  e reso piacevolmente sonoro da  tripudi lieti, pieni di gratitudine al destino santo che ci aveva fatto incontrare quella sera d’estate quando eravamo giovani, lieti e ancora capaci di fare tante cose piacevoli e belle.

Se mi si offrisse oggi una femmina umana siffatta la bacerei dai piedi ai capelli senza saltare alcuna parte del corpo. Ma come ho già detto, l’occasione va acciuffata per tempo. A ottanta anni poi va cercata, rincorsa, pregata in ginocchio. E il più delle volte non basta. Dai settanta in poi si diventa accattoni dell’amore.

Passai un paio di ore che ricordo bene e rimpiango dandomi del perfetto cretino per non avere colto l’occasione di imparare dell’altro da una femmina umana compiacente e intelligente, invece di macerarmi per un mese intero aspettando una lettera che non sarebbe arrivata  mai da una che probabilmente se la spassava con un altro o più di uno.

Qualche cosa comunque ho imparato: a non rifiutare un bene presente per rimanere immacolato nell’intesa di un premio tanto malsicuro che non sarebbe arrivato mai.


 

Bologna 20 maggio 2025 ore 16, 19 giovanni ghiselli

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[1]  Risalgono al 1966. Puoi leggerlo nel libro Tre amori a Debrecen in prestito nella biblioteca Ginzburg di Bologna.

[2] Cfr, Odissea, XI; 49 ajmenhna; kavrhna.

[3]  Equivocatore della lussuria, ne crea gli equivoci. Cfr. Shakespeare, Macbeth, II, 3

Ifigenia CXIII La lettera enfatica e squilibrata. Amo baciare chi se ne va.


 

La bionda mi salutò alzando la mano sinistra. Allora mi alzai in piedi e contraccambiai il saluto ma non la seguìi. La ragazza si mosse dalla parte del suo gruppo  e si unì a loro: si dirigevano verso la fermata del tram per andare a bere e ascoltare musica in un locale del centro,

Non risposi dunque al richiamo della tedesca se non con un cenno di cortesia tra compagni di scuola, quindi  non la raggiunsi e non la invitai a  fare l’amore con me nell’automobile come s’era fatto sbrigativamente con Nefertiti tre anni prima.

Così  realizzavo la fantasticheria della notte remota successiva al dì nel quale avevo scritto diverse pagine della tesi di laurea.

 A una possibile avventura con una straniera, a un altro peregrinus amor   e concubitus vagus da aggiungere alla collezione, avevo preferito una ancora possibile relazione di maggiore durata e impegno con una donna italiana bruna bruna.

Poco più tardi salìi in camera: sempre la stessa degli anni passati quando  scherzavo giovanilmente con gli amici e con le amanti: la numero 4 del III piano del II collegio. Sedetti nello studio che divideva le due parti.

Scrissi a Ifigenia facendole sapere che soffrivo la mancanza di lei e che lì a Debrecen, dove pur non mancavano le persone simpatiche e mi accompagnavano ricordi anche belli, costitutivi di parte non piccola della mia identità,  mi sentivo dimezzato senza di lei, però grazie a tale dolore ero del tutto sicuro di amarla. Aggiunsi che quella sera non mi sarei unito ad alcuna brigata più o meno lieta, ma sarei rimasto solo per pensare a lei, la mia compagna ricca di mito e di poesia.

Non so quanto fossi convinto di queste parole: probabilmente non lo ero del tutto perché non ravvisai morfh; ejpevwn in quanto avevo scritto e tanto meno frevne~ ejsqlaiv[1].

Il giorno seguente, 25 luglio 1979, lo passai in solitudine fino alle 10 di sera.  Dopo essere stato a lezione distrattamente, lessi e studiai la Storia dei Romani di Gaetano De Sanctis, poi All’ombra delle fanciulle in fiore di Proust, corsi i 5000 metri nello stadio due volte, pensai a Ifigenia, quindi le scrissi questi pensieri squilibrati:

“Ifigenia, tesoro, tu non sei qui, ma il ricordo del tuo sorriso abbronzato e festivo decora tutte le ore della mia giornata solitaria, studiosa e riflessiva. Ricordo il tuo splendido corpo che, svestito a festa, illuminava le stanze di casa mia, cupe altrimenti nella tetra atmosfera della nostra fosca e turrita  Bologna dove lunghi sono gli inverni; ricordo le tue gonne che,  quando mi correvi incontro, si sollevavano al vento di primavera profumandolo con l’odore santo della tua pelle; ricordo come il tuo corpo brunito, all’inizio di questa stagione, faceva gioire l’aria marina quando andavamo sul moscone, al largo della spiaggia di Pesaro per fare l’amore, e le farfalle ci danzavano intorno i loro  valzer eleganti e i gabbiani sopra di noi ci salutavano con le loro ovazioni sonore ovantes gutture gaviae. Io ti amo, Ifigenia, ti amo. Questi ricordi mi mantengono vivo, emozionato, attivo anche nella tua assenza pur dolorosa, e il tuo sorriso illumina, riempie di vita il mio cervello che altrimenti si stancherebbe nello studio della storia della prepotenza dei Romani e nella lettura di Proust, sensibilissimo e raffinato ma talora privo di capacità sintetica. Un’orchidea di serra spesso carente di nerbo nonostante l’etimologia[2].

 Ho con me la copia del volume All’ombra delle fanciulle in fiore che mi regalasti, e non manco mai di accarezzare, odorare, baciare la pagina sacra con le parole della tua dedica ricca di amore. Così il profumo di te, portato dal vento dell’ovest, mi ispira, mi spinge a correre lo stadio più di una volta al giorno con tutte le forze, a cronometro, e mentre spremo con gioia i liquidi del mio corpo agonista, mi sembra di avere un orgasmo con te.

La tua presenza in carne deliziosa e ossa modellate con arte, la tua parola intuitiva, poetica, amore, mi manca a tal punto che, quando l’effluvio odoroso di te, portato dal vento occidentale, si attenuerà, allora io,  per avvicinarmi a te andrò dalla parte di Budapest, dov’è la grande pianura ricca di girasoli: là correrò, anelando, mentre i soffi dell’aria odorosa di te mi benediranno e mi renderanno beato con il tuo aroma tutto intero prima che questo sia stato filtrato dalle avide, invide foglie assorbenti della grande foresta di Debrecen. Allora continuerò a inebriarmi dell’essenza preziosa  esalata dalla tua carne divina. 

Ciao. Come vedi, ti penso

Tuo

gianni”.

Tali iperboli barocche generava la mia smania amorosa. Ora so che quella donna era molto più amabile in assenza che in presenza, più desiderabile quando si trovava molto lontano che quando stava da troppo vicino.

 

Endre Ady, un poeta ungherese del Novecento, ha scritto:

“Amo l’amore morente

Amo baciare chi se ne va”

szeretem megcsókolni azt,

Aki elmegy-

 (Parente della Morte in Sangue e oro, 1907).

 

  

Bologna 20 maggio 2025 ore 15, 45 giovanni ghiselli

 

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[1]  Nell’XI canto dell’Odissea Alcinoo dice a Odisseo che ha morfh; ejpevwn, bellezza di parole kai; frevne~ ejsqlaiv e saggi pensieri e che il suo racconto è fatto con arte, come quello di un aedo (vv. 367-368).

 

[2] Cfr. greco o[rci~ , testicolo,  quindi dall’aspetto- ei\do~- simile a quello dei testicoli.

Ifigenia CXII A Debrecen. Il ricevimento del Rettore del 1979 e la fantasia del dicembre 1968.

Partii da Bologna con Alfredo domenica 22 luglio. Arrivammo a Debrecen con una sola giornata di viaggio: conoscevo molto bene la strada, come puoi immaginare, caro lettore.
La sera del 23 c’era la festa della conoscenza, quella che negli anni passati mi era servita a incontrare la donna con la quale nel mese successivo avrei scambiato piacere, amore e non poco sapere, conseguendo comunque  una crescita della mia coscienza. Tra le altre, avevo incontrato, una per anno, le tre finlandesi Helena, Kaisa, Päivi, donne molto importanti nella mia vita. Grazie e Muse che mi hanno spinto a studiare, a parlare e a scrivere per educare me stesso e i miei ascoltatori-lettori.
Osservavo l’ambiente per sapere se c’erano ancora dei reduci del 1966. Rimaneva soltanto l’amico Alfredo che ancora cercava l’amore. Pensai di stare meglio di lui perché non avevo più l’ansia di trovare una donna. Il dilemma era se tenermi ancora quella che avevo e non mi lasciava in pace nemmeno per tre giorni di seguito. Occasioni per un discidium non mi sarebbero mancate.
Osservavo le ragazze con sguardo non più famelico, né maniacale.
Tra le altre notai una bionda dai lunghi capelli che le ondeggiavano sopra le spalle a ogni mossa della testa. A un tratto si girò nella mia direzione e, come vide che la guardavo, mi rivolse un sorriso. Glielo contraccambiai ma volli prendere tempo prima di avvicinarla.  La notte passata quasi in bianco mi pesava sul cervello e non mi lasciava le forze mentali necessarie a una conversazione significativa e interessante soprattutto in una lingua che non parlavo da  tempo. La bionda sembrava una tedesca tra i Tedeschi e con lei avrei dovuto parlare inglese. Ero fuori esercizio e troppo stanco per farlo decentemente.
Sicché mi ritirai nella solita  camera numero 4 del secondo collegio prima di mezzanotte. Andai subito a letto, contento di non avere fatto mosse affrettate. “C’è tempo - mi dissi - tutto il tempo”. E mi addormentai.

Il 24 luglio c’era il ricevimento del Rettore dell’Università di Debrecen.
Era la bella festa pomeridiana che diede l’avvio ai tre amori più importanti della mia vita: quelli con Elena nel 1971, con Kaisa nel 1972, con Päivi nel 1974[1].
 Dopo il primo che ha avviato la storia della trilogia amorosa con la più bella e buona delle mie amanti, avevo ritualizzato gli altri due.
 Ripetevo le mosse che avevano funzionato bene e scartavo quelle improduttive. Verso sera avevo portato le ragazze, una alla volta per carità, una sola all'anno, nella csárda di Hortobágy dove avevo cercato di manifestare alle corteggiate il meglio di me per affascinarle e gettare le basi di un amore mensile che poteva però diventare eterno almeno nel ricordo mai obliato e raccontato in tante pagine quasi tutte belle.
A un tratto la bionda che avevo notato la sera precedente e mi aveva sorriso contraccambiata, volse lo sguardo nella mia direzione. L’aurichiomata aveva la carnagione chiara e gli occhi azzurri. Come si accorse che la guardavo e non levavo gli occhi da lei, protese verso di me la mano destra che stringeva un bicchiere pieno di “sangue di toro”[2] brillante come un rubino, in segno di brindisi credo, e mi accarezzò il volto abbronzato con uno sguardo carico di simpatia femminile.
“Ecco di nuovo l’eterno, meraviglioso richiamo dei sessi che invita a prolungare la nostra breve esistenza mortale attraverso altre creature oppure tramite parole scritte”, pensai.
Senza indugio ricambiai con piacere il simpatico gesto. Ci guardavamo da un tavolo all’altro. Io ero intruppato con gli Italiani. Dovevo avere conservato una forma discreta: i mesi dell’intensiva cura erotica ricevuta da Ifigenia mi avevano fatto bene più di quanto quella ragazza balzana mi avesse danneggiato con i suoi scarti di umore. Nel bicchiere avevo messo dell’acqua, ottima[3] tra tutte le bevande, terapeutica più di ogni farmaco, preziosa pura e casta e così via. In ogni caso, che mi astenessi dall’alcol era uno dei segni della forza che sentivo dentro di me.
Il proposito di rimanere fedele a Ifigenia perfino nell’abbondanza di Debrecen, con il senno di adesso mi pare follia e spreco di occasioni che non ritornano se non vengono acciuffate siccome sono tutte calve di dietro, ma quella sera di luglio la volontà di aspettare il destino a me assegnato, e assecondarlo qualunque esso fosse, mi infondeva una calma interiore che, trapelando, conferiva equilibrio e piacevolezza a tutta la mia persona.
Un amore vero o presunto, comunque carnalmente goduto per mesi, tra gli altri vantaggi ha pure quello, tutt’altro che trascurabile, di imbellire gli amanti.
 
Dopo la festa pomeridiana, calando la sera, andai a passeggiare sui sentieri del bosco. Camminavo come dentro di me mentre ritrovavo tante tracce della mia vita e ci passavo sopra memore e grato: vedevo gli alberi di maestà dodonea, il ponticello sul laghetto, i pesci rossi che vi nuotavano, i cespugli che lo incorniciavano, il vecchio Vigadó e altri luoghi sacri alla mia memoria.
 Dopo questo ripasso, andai a sedermi in una rientranza della facciata dell’edificio universitario, una specie di nicchia con una panchina di pietra. La fontana antistante, mentre verso le otto e mezza precipitava la notte, si accese di luci multicolori che resero i vigorosi zampilli simili, sia pure in formato minore, ai fuochi d’artificio lanciati per la festa solenne del 20 agosto a illuminare il grande scenario di Buda e di Pest, al di qua e al di là del Danubio. Questa era ogni anno l’ultima sera della borsa di studio piena di ricordi e speranze.
 
A un tratto mi venne in mente una fantasticheria del dicembre del ’68 lontano: avevo 24 anni, scrivevo dalla mattina a tarda notte, senza vedere nessuno, per finire la tesi di laurea e consegnarla prima dello scadere del termine ultimo, prossimo assai, al segretario iracondo della mia facoltà. Un buon uomo del resto.
Dal primo settembre avevo lavorato continuamente, senza concedermi una mezza giornata di pausa.
Il 24 luglio del 1979 dunque, percorrendo all’indietro il fiume del tempo, dello scorrere del sangue e dei sentimenti miei, mi tornò davanti quella notte remota.
Ero a Bologna in una stanza di una casa vecchia e non tanto calda, in via del Borgo.
 Mi ero coricato da poco: fissavo il soffitto segnato da una striscia di luce giallognola che veniva dalla strada e penetrava attraversi scuri soltanto accostati. Quel giorno della mia vita mortale avevo scritto parecchie pagine dalla mattina presto a mezzanotte, quasi senza intervallo, e, prima di riprendere a lavorare con lena, avrei dovuto dormire, ma non oltre le sette.
Dovevo terminare la tesi, sulla poesia ungherese del Novecento, non più tardi del 5 febbraio; scrivevo da tre mesi ed ero arrivato appena a metà. Volevo dormire, però la paura angosciosa di non compiere il grande lavoro che doveva arrivare a seicento pagine dattiloscritte, non mi lasciava prendere sonno.
Allora decisi di non cercare l’assopimento e di intrattenere pensieri confortevoli: rinnovellare mentalmente le più belle esperienze della mia vita. Rammentavo le assemblee studentesche della primavera precedente, i discorsi politici che reclamavano giustizia, uguaglianza, solidarietà tra gli umani; ricordavo Helena Schejbalova di Praga la ragazza carina che mi aveva sdoganato quale lepido vezzeggiatore l’estate precedente, ripensavo alle due estati già passate in Ungheria, al grande bosco di Debrecen,  alle feste nella Nyári Egyetem, alla bionda finnica Eeva Vuortama quando mi portò una rosa la sera dell’addio, alla grande fontana antistante la bella facciata dell’Università estiva che si specchia nell’acqua multicolore quando schizzano gli zampilli variopinti dalle fonti vivaci intorno alla vasca, e si accendono le tante finestre del maestoso edificio di stile imperiale insieme con le stelle del cielo sereno, rosso, poi azzurro dopo il tramonto del sole.
Con questi ricordi mi consolavo della vita dura e deserta che menavo da mesi. Quindi facevo progetti: dopo la laurea avrei cominciato a insegnare, allora bastava volerlo, magari spostandomi verso nord est, poi, in luglio, proseguendo a oriente, sarei tornato a Debrecen, sarei andato alla festa della conoscenza e a quella del Rettore, quindi mi sarei seduto su una delle panchine di pietra inserite nelle nicchie della facciata dell’Università estiva.
Avrei aspettato il passaggio delle ragazze che uscivano dalle feste tenute nel grande salone dell’Università. Immaginavo che tra quelle studentesse carine ci fosse una ragazza italiana bella e intelligente, una sul tipo di una fascinosa bionda che avevo sentito parlare con eleganza in primavera dentro l’Università di Bologna occupata da noi studenti. Dadi si chiamava quella ragazza: aveva un dente un po’ fuori posto eppure era bella, espressiva, luminosa: brillava di un fuoco interiore, aveva lunghi capelli, era ben fatta, allettante, armoniosa come una dea, chiara nella pelle liscissima, e aveva occhi d’oro brunito dolci e vivaci. Ebbene, se quella creatura perfetta mi fosse passata accanto lì a Debrecen, dove Eros faceva incontrare ragazze e ragazzi perché si amassero senza timori né eccessivi pudori, l’avrei chiamata e se non mi avesse sentito, l’avrei inseguita. Le avrei chiesto di stare con me, di mettere al mondo una bambina con me. Il sogno della figlia mi commuove ancora a ottanta anni sei mesi e sei giorni.
Ho sempre desiderato una figlia da quando educavo mia sorella Margherita, la “citta” che aveva quattro anni due mesi e due giorni meno di me.
 Tali progetti facevo nella desolazione semifredda della stanzetta dove vivevo, da anacoreta, gli ultimi giorni della mia vita universitaria bolognese.
Dopo tale fantasticheria della fine del ’68, ero andato avanti altri dieci anni con il metodo degli amori estivi per le finlandesi estive di Debrecen e delle relazioni poco impegnative con donne spesso insignificanti in Italia, senza impiegare il cuore e la mente con le colleghe che incontravo nell’ambiente del lavoro iniziato nell’ottobre del 1969. Tra queste non ne avevo mai visto una della levatura di Marisa, la ragazzina coetanea che era stata l’idolo mio quando avevamo tredici anni ed eravamo rispettivamente la femmina e il maschio più bravi della scuola media Lucio Accio di Pesaro.  
Le giovani colleghe di Carmignano cercavano un fidanzamento santificato dai genitori. Nessuna di loro mi piaceva quanto Marisa né quanto Dadi. Non erano fatte per me. Comunque ero libero e volevo rimanere tale.
Nell’autunno del ’78 però avevo smesso di procedere metodicamente per la strada degli amori mensili, innamorandomi di Ifigenia, una collega bruna bruna. Sposata invero. Con le sposate mi sentivo abbastanza libero.
Orbene, il 24 luglio del ’79, mentre ero seduto sulla panchina a ricordare, vidi passare l’aurichiomata tedesca che, se non altro per i capelli e i colori, poteva ricordarmi la Dadi della fantasticheria. La giovane donna si accorse di me, si voltò e mi salutò con un sorriso. Per un momento sentii l’impulso, quasi il riflesso condizionato, di avvicinarmi e proporle una gita a Hortobágy oppure una cena all’Aranybika. Pensai che molto mi sarebbe stato perdonato se avessi amato molto, ricominciando con quest’altra straniera che mi aveva fatto tornare in mente la Dadi agognata undici anni prima e mi allettava assai.


Bologna  20 maggio 2025 
giovanni ghiselli

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[1] Li ho raccontati nel omanzo Tre amori a Debrecen . Si trova  nella biblioteca Ginzburg di Bologna.  In prestito gratuito.
[2] E’ il nome di un vino rosso ungherese “Egri bika vér”, sangue di toro di Egere.
[3] Cfr. Pindaro, Olimpica I

Omero Odissea XIX parte. Terzo canto.


Il terzo canto inizia con versi che presentano il sole, il mare, il  cielo, gli dèi, gli uomini e la terra fertile, una visione cosmica, unitaria e beneaugurate.

 

vv. 1-3 Il sole salì, lasciando il mare bellissimo/verso il cielo di bronzo, per dare la luce agli immortali/e agli uomini mortali sulla terra feconda

oujrano;n poluvcalkon: può alludere alla lucentezza o alla solidità del cielo e l'una non esclude l'altra

"Al di sopra della terra, come una scodella capovolta poggiante sul circuito dell'Oceano, s'innalza il cielo di bronzo. Se il cielo è detto di bronzo, è per esprimere la sua inalterabile solidità"[1].

 Del tutto diversa è l'interpretazione dell'Adriano della Yourcenar:"Uscii sul ponte; il cielo, ancora tutto nero, era come il cielo di bronzo dei poemi di Omero, indifferente alle gioie e alle sofferenze umane"[2].

 

Atena e Telemaco giungono a Pilo sabbiosa e sbarcano mentre Nestore e i suoi facevano un sacrificio di tori sulla spiaggia. Il giovane ha vergogna di parlare, ma la dea lo incoraggia ad avvicinarsi al vecchio re per porgli domande.

Vediamo ora alcuni versi con la ritrosia di Telemaco dove "il poeta descrive con calda simpatia l'intima titubanza del giovane, cresciuto nella sua remota isoletta nella semplicità d'una signoria campagnola, ignaro del gran mondo, quand'egli per la prima volta vi si affaccia ed è ospite d'alti personaggi"[3].

 

Odissea III vv. 21-30.

Telemaco manifesta il suo timore di essere impacciato da timidezza e inesperienza, ma Atena lo spinge ricordandogli la buona natura della sua stirpe  e promettendogli l'aiuto divino . Allora il ragazzo si muove sulle orme della dea .

vv. 2I-24:"A lei allora Telemaco assennato di contro diceva:/

"Mentore, e come devo andarci ora, e come gli porgerò il saluto poi?/io non sono ancora in alcun modo esperto di discorsi muvqoisi- fitti pukinoi`sin :/del resto è vergogna-aijdwv~-  che un giovane interroghi- ejxerevesqai un vecchio".

 

"Il termine mito ci viene dai Greci. Ma per coloro che lo usavano in epoca arcaica esso non aveva il senso che gli diamo attualmente. Mythos  vuol dire "parola", "racconto". All'inizio non si oppone minimamente a logos  il cui senso primo è "parola", "discorso", prima che designi l'intelligenza e la ragione"[4]

-pukinoi'sin=attico puknoi'~.  Nel III canto dell’Iliade, durante la  teicoskopiva, Elena, interrogata da Priamo, identifica Odisseo dicendo che conosce ogni sorta di inganni kai; mhvdea puknav (v. 202) e pensieri fitti. Si ricordi poi che le parole del Laertiade erano simili a fiocchi di neve (III, 222), ossia fitte e fluenti.

aijdwv": la vergogna, ossia la riservatezza e il ritegno contaddistinguono il giovane beneducato dal petulante  sonaglio sfacciato  anche nelle Nuvole  di Aristofane dove il discorso giusto prescrive al ragazzo di essere "th'" aijdou'"...ta[galm j "(v. 995), l'immagine del ritegno.

Ricordo il mito di Prometeo nel Protagora  di Platone (322b): senza aijdw'" e divkh, "virtù altrettanto morali quanto politiche", distribuite a tutti non esisterebbero le città:"Hermes è incaricato di portarle agli uomini; ma, nella distribuzione, deve fare l'opposto di quello che aveva fatto Prometeo: non dare a ciascuno una capacità differente, ma le stesse a tutti egualmente e indistintamente"[5].

ejxerevesqai: nelle Nuvole  di Aristofane  il ragazzo educato all'antica per prima cosa non doveva nemmeno bisbigliare una parola (v. 963). Telemaco verrà rafforzato dagli incontri successivi.

 Il poeta " fa sentire ai propri ascoltatori come le buone usanze e l'educazione non lascino tanto facilmente nell'imbarazzo il giovinetto inesperto, nemmeno in situazioni ardue e nuove, e come il nome del padre gli spiani la via"[6].

Ma la prima spinta, la decisiva, viene da Atena.

 

vv.25-28:" Allora gli disse la dea, Atena  dagli occhi lucenti- glaukw`pi~- :/"Telemaco, qualcosa penserai tu nella tua mente,/altre le suggerirà anche un dio: infatti non credo/, no, che contro la volontà degli dèi tu sia nato e cresciuto".

glaukw'pi": è collegabile con glau'x- civetta-, e significherebbe dall'occhio (w[y) di civetta, "parallelo a bow'pi", epiteto fisso di Era nell'Iliade . Questi epiteti sono stati messi in relazione con una (ipotetica) fase teriomorfica della religione greca. Ma probabilmente il poeta collegava glaukw'pi" con glaukov" (cfr. Il. XVI 34):"dagli occhi brillanti, scintillanti"[7].

 

vv. 29-30:"Così dunque avendo parlato, lo precedette Pallade Atena/rapidamente; egli poi sulle orme della dea camminava.

 

Solean valore e cortesia trovarsi.

 

I due vengono accolti dai Pili che stavano preparando il banchetto. Con cortesia impeccabile gli ospiti li salutavano e li invitavano a prendere posto. Pisistrato, il figlio più giovane di Nestore, si fa incontro ai sopraggiunti, li prese per mano e li fece sedere al banchetto (Odissea, III, v. 37). I segni della buona educazione di questo ragazzo sono gli stessi dati da Telemaco nel pimo libro.

Poi c'è il medesimo susseguirsi di atti gentili. "Qui per la prima volta l'educazione divenne cultura, cioè formazione dell'intera personalità secondo un tipo fisso. L'importanza di quest'ultimo per lo sviluppo della cultura fu sempre presente ai Greci; in ogni cultura aristocratica esso ha una funzione decisiva, sia che pensiamo al kalo;" kajgaqov" dei Greci, sia alla "cortesia" del medioevo cavalleresco, sia alla fisionomia sociale del Settecento, quale ci sorride con volto convenzionale da tutti i ritratti dell'epoca. Misura suprema d'ogni pregio della personalità virile rimane anche nell'Odissea  l'ideale avito del valore guerriero. Ma vi si aggiunge ora l'estimazione dei meriti intellettuali e sociali, che l'Odissea  si compiace di mettere in risalto. L'eroe stesso è l'uomo non mai a corto di saggi consigli, che in ogni situazione sa trovare le parole opportune"[8].

Pisistrato offre la prima coppa d'oro ad Atena-Mentore in quanto più anziano; la dea si compiacque dell'uomo saggio e giusto (pepnumevnw/, v.52, come Telemaco) e rivolse a Poseidone una preghiera in favore del successo degli ospiti e di Telemaco, una richiesta che poi compì ella stessa. Quindi anche il figlio di Ulisse pregò, poi andarono tutti a banchetto.

Solo dopo che ebbero desinato, Nestore pose loro delle domande. "Quando ebbero soddisfatto la sete e la fame". La formula ritorna in continuazione, non soltanto prima di ogni esibizione dell'aedo, ma anche ogni volta che gli eroi si apprestano a intrattenersi e interrogarsi reciprocamente. Per rendersi disponibili alle parole dell'altro gli eroi mangiano e bevono. Così dimenticano i bisogni del corpo, il bisogno di "soddisfare questo ventre odioso, questo ventre miserabile che apporta agli uomini tanti mali"[9].

 

Mangiare, bere, significa far tacere per qualche tempo le grida acerbe della mortalità e della solitudine. Quando un eroe riceve un ospite, gli chiede come si chiama e da dove viene, ma solo dopo averlo accolto e rifocillato. "Se c'è un momento per fare domande agli ospiti, dice il molto saggio Nestore, è dopo che hanno goduto i piaceri della tavola". Ulisse da Alcinoo, Telemaco da Menelao, Ulisse dal porcaro Eumeo e perfino Telemaco quando torna a casa e viene accolto dalla madre Penelope, tutti loro cominciano a mangiare in silenzio, parleranno dopo. Bisogna che l'ospite sia uscito dal tempo del viaggio, che l'abbia "dimenticato" col cuore per poterlo ricordare nelle parole"[10].

 

Nella commedia pastorale As you like it (1599) di Shakespeare il duca in esilio nella foresta di Arden accoglie due nuovi arrivati, il giovane Orlando che porta in braccio il vecchio servo Adamo sfinito e affamato, con queste parole: “Welcome. Set down your venerable burden,-And let him feed…Welcome, fall to. I will not trouble you-as yet to question you about your fortune” (II, 7), benvenuti, posate il vostro venerabile fardello e fatelo mangiare…benvenuti, cominciate. Per ora non voglio disturbarvi  facendovi domande sulle vostre fortune.

 

Nestore dunque domanda agli ospiti chi siano, se commercianti, marinai o predoni (Odissea, III, vv. 71-74). Le medesime domande, con uguali parole farà Polifemo (IX, 252-255) ma non dopo avere dato da mangiare agli ospiti, bensì preparandosi a mangiarli.

 

Leopardi monofavgo~

 

Leopardi  giustifica la propria abitudine di mangiare da solo ricordando che gli antichi parlavano solo dopo avere mangiato

:"Il mangiar soli, to; monofagei'n, era infame presso i greci e i latini, e stimato inhumanum, e il titolo monofavgo" , si dava ad alcuno p. vituperio, come quello di toicwruvco" , cioè di ladro…Io avrei meritata quest'infamia presso gli antichi (Bologna. 6. Luglio. 1826.). Gli antichi però avevano ragione, perché essi non conversavano insieme a tavola, se non dopo mangiato, e nel tempo del simposio propriamente detto, cioè della comessazione[11], ossia di una compotazione, usata da loro dopo il mangiare, come oggi dagl'inglesi, e accompagnata al più da uno spilluzzicare di qualche poco cibo p. destare la voglia del bere. Quello è il tempo in cui si avrebbe più allegria, più brio, più spirito, più buon umore, e più voglia di conversare e di ciarlare. Ma nel tempo delle vivande tacevano, o parlavano assai poco. Noi abbiamo dismesso l'uso naturalissimo e allegrissimo della compotazione, e parliamo mangiando. Ora io non posso mettermi nella testa che quell'unica ora del giorno in cui si ha la bocca impedita, in cui gli organi esterni  della favella hanno un'altra occupazione (occupazione interessantissima, e la quale importa moltissimo che sia fatta bene, perché dalla buona digestione dipende in massima parte il ben essere, il buono stato corporale, e quindi anche mentale e morale dell'uomo, e la digestione non può essere buona se non è ben cominciata nella bocca, secondo il noto proverbio o aforisma medico), abbia da esser quell'ora appunto in cui più che mai si debba favellare; giacché molti si trovano, che dando allo studio o al ritiro p. qualunque causa tutto il resto del giorno, non conversano che a tavola, e sarebbero bien fachés di trovarsi soli e di tacere in quell'ora. Ma io che ho a cuore la buona digestione, non credo di essere inumano se in quell'ora voglio parlare meno che mai, e se però pranzo solo. Tanto più che voglio potere smaltire il mio cibo in bocca secondo il mio bisogno, e non secondo quello degli altri, che spesso divorano, e non fanno altro che imboccare e ingoiare!"[12].


 

La pirateria (Odissea, III, 73).

“ Vedi il Feith, Antiquitates homericae, nel Gronovio, sopra la pirateria ec , lh/steiva, usata dagli antichissimi legalmente e onoratamente cogli stranieri”[13].

 

Si ricorderà[14] di Tucidide il quale ( I, 5) afferma che nei tempi antichi la pirateria veniva esercitata senza vergogna. Anzi questa comportava una certa gloria. 

Lo stesso sostiene  Cesare a proposito della reputazione del brigantaggio tra i Germani :"Latrocinia nullam habent infamiam, quae extra fines cuiusque civitatis fiunt, atque ea iuventutis exercendae ac desidiae minuendae causa fieri praedicant "[15], il brigantaggio non porta alcun disonore se viene fatto fuori dai confini della tribù, anzi affermano che si fa per esercitare i giovani e combattere la pigrizia.

Nell'Odissea  tuttavia c'è  anche una condanna dei predatori.

  Eumeo sostiene che questi hanno una forte paura della punizione  (XIV, 88.).

 

Comunque Telemaco non si adonta della domanda, anzi fattosi coraggio, afferrato quello ("qarshvsa"...qavrso"", v. 76), che Atena gli pose  nell'animo, cominciò a parlare. Si noti che il ragazzo per prendere la parola e fare domande sul padre ha bisogno dello qavrso" che serve a Diomede (Iliade  V, 2) per compiere la sua impresa bellica e conquistare nobile fama. In questa fase più avanzata della civiltà la gloria si ottiene già attraverso l'uso appropriato ed efficace della parola. Ebbene Telemaco si presenta e chiede notizie del padre, del luminoso, paziente, valente Odisseo, in nome delle promesse da lui fatte e mantenute nella terra dei Teucri.

 Nestore risponde commosso ricordando i morti di Troia: Aiace, Achille, Patroclo e suo figlio Antiloco, velocissimo a correre e prode guerriero (v. 112).

 

Pindaro nella  Pitica  VI racconta come " oJ qei'o" ajnh;r-privato me;n qanavtoio komida;n patrov""(vv. 38-39) l'uomo divino/comprò con la sua morte la salvezza del padre Nestore. Era accorso in suo aiuto e aveva dato la vita salvandolo da Mèmnone, il capo degli Etiopi.

 Un eroismo filiale che l'omuncolo Admeto ribalterà nell'Alcesti  di Euripide avendo l'impudenza di chiedere al padre e alla madre di morire al posto suo.

 

Ci furono tante sofferenze, continua Nestore, e tanti eroi, ma nessuno poteva  misurarsi con Odisseo nell'ingegno ("mh'tin", Odissea, III,  v. 120) dove egli era troppo superiore a tutti in ogni sorta di espedienti.


 

L’intelligenza di Ulisse.

 Ulisse è prima di tutto l'eroe dell'intelligenza:"Sua gloria è la sua astuzia, il senno inventivo e pratico che, nella lotta per la vita e per il rimpatrio, finisce per trionfare sempre su nemici possenti e su insidiosi pericoli.

L'intelligenza è la parte migliore dell'uomo valente:"E' questo il nuovo ideale dell'uomo il cui elogio è cantato nell'Odissea. La nobiltà ha cambiato la sua concezione del mondo. Si è allentata la durezza, l'immediato ricorso alle armi, l'esasperato senso dell'onore, l'eccessiva coerenza. Chi è ricco d'ingegno come Odisseo ha la protezione degli dèi. Gli dèi non amano più tanto un braccio forte quanto una mente assennata"[16].

 

Tuttavia Ulisse non è inetto alle armi: Stazio, nel catalogo degli eroi greci in partenza per Troia ricorda come “consiliisque armisque vigil contendat Ulixes ” (Achilleide, I, 472), Ulisse gareggi vigile con il senno e le armi. Il senno viene prima.   

Già nell’Iliade alla nobiltà dell'azione  doveva unirsi quella della mente. Peleo manda Fenice a Troia con il figliolo perché gli insegni:"muvqwn te rJhth'r j e[menai prhkth'rav te e[rgwn"[17], a essere dicitore di parole ed esecutore di opere. L’abilità nella parola viene prima.

Bologna 20 maggio 2025 ore 12, 40 giovanni ghiselli

p. s.

Terrò la conferenza sull’Odissea il 9 giugno dalle 17 nella biblioteca Ginzburg di Biologna. Pubblicherò il link per seguire da lontano quando mi verrà dato. Saluti gianni

 

 

 

 

 



[1]J. P. Vernant, Mito e pensiero presso i Greci , p. 204.

[2]Memorie di Adriano , p. 192.

[3]Jaeger, Paideia 1, p. 79.

[4]J. P. Vernant, Le origini del pensiero greco , p. 9.

[5]J. P. Vernant, Mito e pensiero presso i Greci , p. 299.

[6]Jaeger, Paideia  1, p. 80.

[7]S. West, op. cit., p. 194.

[8]Jaeger, op. cit., p. 60.

[9]Odissea, XVII, v. 473.

[10]F. Dupont, Omero e Dallas , p. 19.

[11] Latinismo: comissatio  significa propriamente "baldoria dopo il banchetto".

[12] G. Leopardi, Zibaldone, 4183-4184.

[13] Leopardi, Zibaldone, 2253.

[14] Giovanni Ghiselli, Storiografi Greci ,  Loffredo,  Napoli, 2000, pp. 136-137.

[15]De Bello Gallico , VI, 23.

[16]Latacz, Omero , p. 148.

[17]Iliade , IX, 443.