I
Poco dopo apparve nel cielo la santa faccia di luce che nutre
la vita.
“E’ arrivato un rimedio dal bel volto” pensai.
Ancora una volta il dio
luminoso mi infuse forza e coraggio e la volontà di essere egregio.
L’acqua cominciò a
scintillare, l’aria tornò a brillare, la musica della giostra divenne allegra e
confortante, gli zingari dionisiaci, l’odore del pesce diventò invogliante, da ripugnante che era. Il
castello sfavillava alto sul colle nobile e antico, incastonato sulla cima come
un gioiello.
Sul Danubio passò un battello
bianco. Diffondeva musica cara al mio cuore: le danze ungheresi di Brahms suonate
spesso nella terra magiara e pure sull’acqua dolce dei fiumi.
“La piccola nave è bianca e snella come una
donna giovane che nuota nuda e canta”, pensai. “Ifigenia una sera d’inverno mi
cantò l’alleluja del Messia di Händel.
Snella , formosa e leggera. E pure canora.
Sole, infondimi la forza e la bellezza
della tua luce. S’io meritai di
te assai o poco”.
Marina-Marisa
Dalla giostra provenne la
musica della canzone “Marina” che suscitò ricordi di fatti lontani.
Nella seconda parte degli
anni Cinquanta, quando facevo le medie Lucio Accio e il ginnasio nel liceo
Terenzio Mariani di Pesaro, questa canzone mi faceva pensare a Marisa di cui mi
ero innamorato.
Era la più brava della
sezione femminile, studiosa, intelligente e competitiva. Bruna era e bella. Per
certi versi era simile a me, però non mi contraccambiava. Ci sfidavamo solo. A
chi prendeva voti più alti pur in classi diverse.
Allora il sistema delle
raccomandazioni non era onnipresente e pervasivo come adesso, e la scuola
selezionava parecchio in base all’impegno e alle capacità. Il latino alle medie
era più serio e severo che adesso nei licei classici. Si doveva tradurre dal
latino e in latino. Molti non ce la facevano e andavano all’avviamento al
lavoro. Dal ginnasio, poi, la selezione diventava più dura di una decimazione e
non risparmiava i figli dei maggiorenti della città che dovevano passare in
scuole private come Poggio Mirteto dove i diplomi venivano venduti e comprati
per denaro.
Il Mamiani fermava chi non studiava. Anche se
era figlio di un giudice o di un notaio o di un primario dell’ ospedale San
Salvatore.
Io avevo i genitori separati
e questo fatto, era molto raro all’epoca, non deponeva a mio favore. Mia madre
non lavorava. Il cibo non mancava perché la nonna materna Magfherita aveva 70
ettari di terra con i mezzadri che la lavoravano, ma i soldi non erano tanti e
ben pochi ne venivano spesi per me. In casa avevo solo i manuali adottati.
Tuttavia ero molto bravo a scuola.
La selezione più severa la
facevano le prove scritte di greco e di latino.
L’ ambiente scolastico dunque mi si confaceva.
Marisa e io eravamo i due più egregi ed ero innamorato di
lei senza essere contraccambiato. Del resto non glel’ho mai detto, nemmeno
quando ci si incontrava da vecchi oramai.
La canzone che aleggiava sul Danubio e sulla mia testa faceva: “Mi sono innamorato
di Marina, una ragazza bruna ma carina”. Trovavo irrazionale e assurdo,
contrario ai miei gusti e alla mia natura quel “ma”.
Eppure tale assurdità si
legge anche nel Cantico dei cantici:
“bruna sono ma bella”. Io pensavo e
tuttora penso che la donna ben fatta e bruna incarni la bellezza mediterranea
ricca di colore, vitalità, sensualità.
La bruna Marisa era rimasta
intoccabile, ma in seconda liceo vinsi
un premio per i prima trenta studenti dei classici d’Italia. Un viaggio in Jugoslavia.
Conobbi una gelataia di Lubiana, castana di capelli.
Questa Slovena fu la mia
prima borsa di studio incarnata.
Poi mi sono rifatto anche nel
campo dell’amore con le more: Elena e Kaisa erano brune brune di capelli e
Ifigenia era molto bruna e bella assai in tutto il corpo irreprensibile.
Dopo avere pensato questo, mi
dissi:
“E’ ora di procedere: devo
lasciarmi guidare dal ricordo dei successi: quid agi oporteat
bonis successibus instruendus”
Il sole aveva sbaragliato le
nubi. Mi tolsi la maglietta per
l’abbronzatura che va ripassata, come le lezioni. Mi guardai il petto e
i fianchi. La vita da torero. Narcisetto. Sì ero snello come il giorno di Päivi
cinque anni prima, come il mese di Elena dopo ben 8 anni: magro, abbronzato con
tutti i capelli e i baffi neri, niger
tamquam corvus, con i carismi dell’uomo piacente, se non proprio bello,
invecchiato benissimo. Sentìi una grande energia anche dentro di me.
“Devo costruire qualcosa, assorbire la forza
del sole, la bellezza del mondo e viverla, attuarla in una poēsis più espressiva di una pictura,
una creazione educativa che sopravviva ai miei momenti di grazia. Salvare la
bellezza dalla caducità. Intanto lasciar cadere i rami malati: non sostenerli
con un vano dispendio di energie. Disperdere le debolezze e i vizi nati da
antichi dolori che non hanno più ragione di esistere”, pensai.
Quindi mi allontanai dalla
piazza camminando lungo la sponda del fiume secondo corrente, finché la riva
divenne del tutto pulita. Giunto nel tratto mondo, lo riconobbi come quello del
bagno del 1974. Un’estate, quella, piena di destino come un’opera d’arte capace di fare epoca: mi aveva dato il
viatico per la lunga strada dello studio serio, teso a imparare, a ricordare, a
educare parlando e scrivendo. Päivi mi aveva reso studioso del vero e del
bello. La bambina non nata mi aveva chiesto di compensarla mettendomi al
servizo educativo delle figlie e dei figli altrui, parlando e scrivendo.
Tornai nel gruppo debrecino.
Ci portarono sulla collina del castello e del ristorante Silvanus dove cinque
anni prima avevo cenato con Päivi, avevo ricevuto la rosa e il titolo augurale
di Magister dalla studentessa Josiane
di Strasburgo, giovane molto e carina, gallica o germanica che fosse.
L’Ister osservato da quella collina appare incurvato tra i monti e
ameno quanto il lago di Como guardato dalla Madonna del Ghisallo, o il lago di
Pusiano visto dal Cornizzolo, alture
dove salivo in bicicletta cronometrandomi dopo una giornata spesa negli esami di
maturità, al Parini, al Beccaria, gli ottimi licei milanesi.
Dovevo continuare a
impegnarmi sul serio anche nell’ascesi somatica, acquistandone forza e voglia
di vivere, voglia di fare, di attuare il meglio delle mie possibilità.
Il vento sollevava le
tovaglie rosse dei tavoli, i capelli e le gonne delle ragazze. Dalle loro cosce
tornite esalava un’aura, un presentimento di paradiso. Pensai a quelle mai
baciate di Josiane e me ne
rammaricai.
Ero avviluppato in una rete
di fedeltà a Päivi che non me l’avrebbe contraccambiata e non avevo ancora
imparato come si deve La montagna
incantata, altrimenti avrei osato chiedere alla ragazza francese: “Lascia
che io posi devotamente la mia bocca sull’Arteria femoralis che batte sulla
parte anteriore della tua coscia, o perfino: “Laisse - moi toucher dévotement de ma bouche l’Arteria femoralis qui bat au front de ta cuisse”.
Almeno l’indirizzo avrei potuto darglielo e
chiederglielo dopo il suo cortese interesse. Tanto più che una matita l’avevo e
il foglio me l’aveva dato lei con la rosa bianca e la scritta “Magister, tibi”. Non mi sono mai
perdonato tanta sventatezza.
Ma temevo di fare uno sgarbo a Päivi presente
e attenta alla scena.
Avevo già lasciato perdere
Josiane per Elena tre anni prima. Questa che era incinta di un altro meritava
ogni riguardo. Anche a Päivi, incinta addirittura di me, dovevo la mia premura.
Quella sera al Silvanus non
sapevo che poco tempo dopo la finnica rossa mi avrebbe piantato senza cortesia
né civiltà. Fennis mira feritas,
avevo pensato, anche se i Fenni di Tacito sono i Germani del nord est, non i
finnici. Però suona bene.
Il mio dogma, perfino religioso o
superstizioso talora fanatico, della fedeltà in amore, poche volte è stato
ricambiato.
Dovevo disincantarmi.
Ifigenia non mi aveva scritto. Era il caso di trovarne le cause e trarne le
debite conseguenze.
Ne avevo a bastanza di inganni, di fregature dovute ai
miei errori. Quell’estate non avevo corrisposto a Silvia, l’interessante
tedesca di Berlino per mantenermi fedele a Ifigenia che quasi sicuramente aveva
tradito le promesse fatte a me. Dovevo imparare da queste esperienze come
stanno davvero le cose. Senza dogmi né pregiudizi ciechi.
Il vento scuoteva anche i
capelli rossissimi, avvelenati di una turista attempata. Sembrava volere
strapparli siccome innaturali. “Questo fiato del cielo porterà via pure i rami
rinsecchiti e prosciugherà le paludi infette, i miasmi velenosi ancora residui
nell’anima mia”, pensai.
Bologna 3 giugno 2025
ore 10, 47 giovanni ghiselli
p. s.
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