sabato 13 dicembre 2025

Didone Enea Conferenza di Teramo. Enea non concede a Didone nemmeno un breve rinvio della partenza ordinata e ossequiosa.


 

Virgilio, mosso a compassione della donna, e non volendo del resto incolpare il suo eroe, ritorce e fa ricadere sull'amore la maledizione indirizzata a Enea dall'amante abbandonata:"Improbe Amor, quid non mortalia pectora cogis!" (Eneide, IV, v. 412), malvagio Amore, a cosa non costringi i petti mortali!

 

E' un'apostrofe  contro l'amore che viene messo allo stesso livello dell'auri sacra fames , la maledetta fame dell'oro la quale ha spinto il re di Tracia a sgozzare l'ospite Polidoro:"Quid non mortalia pectora cogis,/ auri sacra fames! " (Eneide , III, 56-57).

 

Apostrofe accusatoria di Eros simile a questa si trova nel quarto libro delle Argonautiche quando Apollonio Rodio  rivolge un anatema ad Eros quale latore di infiniti dolori: Eros atroce, grande sciagura, grande abominio per gli uomini ("Scevtli j  [Erw", mevga ph'ma, mega stuvgo" ajnqrwvpoisin" (IV, 445) da te provengono maledette contese e gemiti e travagli, e dolori infiniti si agitano per giunta.

Armati contro i figli dei miei nemici, demone, quale gettasti l'acciecamento odioso nell'animo di Medea ( oi|o" Mhdeivh/ stugerh;n fresi;n e{mbale" a[thn", v. 449).

 

Didone fa un'ultima prova: " ire iterum in lacrimas, iterum temptare precando/cogitur et supplex animos submittere amori,/ ne quid inexpertum frustra moritura relinquat " (Eneide, IV, vv. 413-415), è costretta ad arrivare di nuovo alle lacrime, a tentare di nuovo pregando e a sottomettere supplice l'orgoglio all'amore,  per non lasciare nulla di intentato, destinata com'è a morire invano.-cogitur: riprende, con diatesi passiva, il cogis del v. 412 per significare l'invincibilità potenza di Eros.  Quello dell'amore è un piano inclinato e scivoloso che conduce ineluttabilmente alla rovina (cfr. infelix, pesti devota futurae già nel I canto, v.712).

 

Dunque la regina manda la sorella Anna da Enea a chiedere l'ultima grazia (extremam...veniam , v. 435) di un rinvio:"tempus inane peto, requiem spatiumque furori,/dum mea me victam doceat fortuna dolere " (vv. 433-434), un tempo di intervallo chiedo, una tregua e un respiro al mio furore, finché la mia sorte insegni a me vinta a soffrire.

 

Con tali parole pregava Didone, e la sorella desolata riporta questi pianti a Enea “sed nullis ille movetur-fletibus aut voces ullas tractabilis audit-Fata obstant, placidasque viri deus obstruit auris” (438-440) non viene mosso dai pianti, e non ascolta nessuna parola disposto a trattare-lo impediscono i Fati e un dio chiude gli orecchi tranquilli dell’uomo

L'intervallo si deve  concedere anche ai ragazzini nelle scuole[1] ma Enea,  come un vero fatocratico rimane inesorabile:"fata obstant ", v. 440, i destini si oppongono, e la dura volontà dell'eroe si conforma alla necessità che ha le mani d'acciaio.

 Come una valida quercia scossa dal vento viene agitata nelle foglie e nei rami però le radici che tendono al Tartaro rimangono immote, così l’eroe sente strazio nel cuore però mens immota manet; lacrimae volvuntur inanes (449) e le lacrime si versano nel vuoto.

 

Enea dunque ha respinto anche la richiesta di un differimento della sua partenza inviatogli da Didone che vorrebbe  una tregua per imparare a soffrire senza morire, sicché è più spietato di Creonte che già nella Medea di Euripide poi  in quella di Seneca concede una dilazione a Medea rispetto al comminato esilio.

 

Nella Medea di Seneca, Creonte concede alla moglie abbandonata da Giasone la   brevis mora che ha richiesto (v. 288). Altrettanto fa il Creonte della Medea di Euripide sebbene entrambi temano la vendetta della donna deinhv che in effetti si vendicherà atrocemente.

Ma Enea è stato più accorto e pure più spietato del re di Corinto.

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Bologna 13 dicembre 2025 ore 19, 30 giovanni ghiselli

p. s.

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[1] Danda est tamen omnibus aliqua remissio raccomanda Quintiliano nella sua Institutio oratoria , I, 8.


Ifigenia XCVI. Il trionfo della nuda estate incoronata di spighe. Omnia munda mundis.


 

 

Il pomeriggio del 26 giugno, intorno alle tre, partimmo per tornare a Bologna. Due giorni dopo avrei fatto l’ultima lezione per l’esame di maturità ai miei ex studenti, poi sarebbe stata vacanza completa: vacatio scholae. Decappottammo la nera Volkswagen e prendemmo l’autostrada. Un vento caldo, morbido e salato di umidità marina, ci scorreva sopra le membra come una lingua fervida in movimento languido.

Ifigenia era assai contenta di essere in giro con me. Mentre guidavo, la osservavo un po’ di traverso: sorridendo mi raccontava le varie vicende  dei mesi passati, mi diceva a quanti ragazzi era piaciuta e come nessuno le fosse piaciuto perché aveva pensato sempre a me, intensamente, e aveva sentito non senza dolore la mancanza della mia presenza insostituibile.

Mi riempì di complimenti tanto smaccati e sperticati da mettermi in imbarazzo. Quando se ne accorse, ammutolì, mi guardò con occhi dalle palpebre ondeggianti, mi strinse la mano destra con forza, poi chinando il collo tornito, appoggiò lievamente la testa sopra il mio petto che avevo scoperto perché il sole di giugno lo abbronzasse e rendesse più lucido, più colorito.  Voleva passare dalle parole ai fatti.

Sic vivamus  ut quae fuerint verba sint opera, sussurrai compiaciuto[1].

Sicché  fece scorrere il viso lungo il mio torace, all’ingiù: i folti capelli ondeggianti nell’aria veloce, mi solleticavano: la bocca dischiusa lasciava un’umida traccia sul mio costato  facendomi rabbrividire.

“Sei molto salato” disse quando fu giunta al centro del corpo, l’ojmfalov~ non santo come quello del fatidico santuario situato sulla pendice occidentale del Parnaso dalle due cime. A 750 metri sopra Itea.

 

 Avevo sempre pregato e fatto voti giungendovi in bicicletta. Ci sarei tornato un paio di anni più tardi con Ifigenia. Anche quella volta  pregai. Non chiedevo più l’amore dell’ avventuriera e giocatrice d’azzardo, diventato augurabile solo ai nemici, ma di scrivere un capolavoro. Sarete voi lettori a dirmi se Apollo mi esaudì.

Ifigenia chiese a Febo che scaglia lontano la grazia di vincere il premio Oscar come migliore attrice recitando in un film di successo. Qualche cosa in comune l’avevamo ancora nell’agosto del 1981. Ma torniamo all’autostrada nel giugno del 1979.

 

Le accarezzavo le belle onde dei capelli corvini che fluttuavano mossi dal vento e non mi sottraevo al procedere della sua lingua. Ifigenia dunque scese fino alle cosce, poi girò il collo liscio e volse all’insù lo sguardo espressivo di desiderio amoroso. Quindi disse: “Gianni, ti prego, facciamo l’amore subito, ne ho tanta voglia!”

“Io pure”, risposi, “ma non l’ho mai fatto guidando. Tu però puoi continuare a baciarmi, se vuoi: non temere, non perderò il controllo”.

Non esitò. Fece il massimo. Io la spogliai  a mia volta, con una sola mano, aiutato da lei; quindi le accarezzavo i capelli, il collo, la bocca anelante, il turgido seno di femmina in pieno rigoglio, le cosce fiorenti e, con mosse quasi acrobatiche, la parte intima del corpo incensurabile. Correvamo il rischio di romperci il collo e non solo, ma eravamo contenti di questa rinnovata intesa e fieri del nostro coraggio, del desiderio più forte della paura. Stavamo mettendo a repentaglio la vita per provare che il nostro amore poteva superare gli ostacoli  anche alti che il destino ci avrebbe frapposto. Il vento caldo contribuiva al piacere con carezze lascive e ci infondeva coraggio. Le nitide spighe del grano maturo, prossime alla mietitura, preannunciavano eventi nuovi, da decifrare.

 

Il corpo tutto intero di Ifigenia emanava effluvi pieni di aromi eccitanti che si mescolavano agli odori benefici inviati dalla madre terra prossima al parto. A un tratto fermai l’automobile nera nella corsia di emergenza. Di lì scendemmo nel fondo di un avvallamento scavato tra l’autostrada e un campo di  lucide messi già pronte a offrirsi alla falce dell’avido agricoltore.

Distesi, rinnovammo l’intesa.

 

Avvertenza: il blog contiene una nota. Questa pagina è licenziosa, magari non adatta ai bambini. Agli adulti che potrebbero biasimarmi rispondo fin d’ora: omnia munda mundis.

 

Bologna 9 maggio 2025 ore 11, 51. giovanni ghiselli.

 

p. s.

Ho rivisto il film Foglie al vento di Kaurismäki, questa volta in lingua finlandese con i sottotitoli. Ho riconosciuto alcune parole pronunciato dalle finniche amate, riamato per un mese. E ho rivisto lo stile di Helena, di Kaisa, di Päivi nel personaggio della protagonista.

E’ lo stile del’essenzialità, senza commedie, senza una parola di troppo, senza finzioni. Il bello stile della naturalezza. Da loro ho imparato a essere me stesso. Per questo le ho amate più di tutte le altre, e Helena più di tutte in assoluto.

 

Non sono cristiano, piuttosto mi sento cristesco . Mi piace molto l’uomo Gesù  anche il suo precursore:  l’onesto Giovanni.

Ammiro il Cristo del Nuovo Testamento e sua madre Maria, la  madre ragazza che l’ha partorito. Oggi l’aborto è presentato come cosa buona. Non auspico che venga vietato. Non dissi una parola per dissuadere Päivi dall’abortire la bambina che aspettavamo dopo un mese di amore. La raggiunsi in Finlandia ma lasciai decidere a lei, come ritenni giusto.

Oggi però ho coscienza che un aborto comporta strascichi di dolore. Non è un successo  come si vorrebbe far credere.  Quando vedo un padre che abbraccia una figlia, in un film o per strada, piango.  Dopo Päivi, messa incinta con un coitus interruptus, non ho mai più fatto l’amore senza preservativo. Il metodo migliore per chi non vuole figli è questo. Ammiro comunque le madri donne, o ragazze come Maria, che vogliono mettere al mondo un figlio nato dall’amore. Anche se il padre non vuole.  

 

Bologna 13 dicembre 2025 ore 17, 16 giovanni ghiselli

 

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[1]  Viviamo in modo tale che quelle che erano state solo parole diventino  opere compiute cfr.  Seneca, Ep. 108, 35


Ifigenia XCV. La saltimbanca circense. Il pianto delle Eliadi. L’onesto Giovanni, Cristo e santo Ambrogio.


 

La desultrix amoris, la saltimbanca dell’amore  che giocava d’azzardo con i miei sentimenti  si spaventò, mi guardò con aria da innocente e, da furbastra, mi domandò: “ma che cosa hai capito tesoro, unico grande amore della mia vita?”

“Che buffona spregevole è costei!” pensai disgustato senza escluderla subito dalla mia vita però e lasciandole la possibilità di spiegarsi. Potevo imparare dell’altro da tanta malizia. Sarebbero state le sue azioni, non bastando le parole spudorate e malvagie a decretare la fine due anni più tardi.

Quella dunque si affrettò a raccontare che durante il tragitto, in prossimità di Cesena, un ferroviere, interrogato da lei sull’ora di arrivo a Pesaro, le aveva proposto di proseguire fino ad Ancona per fare l’amore con lui. Oppure di tornare a Bologna dove avrebbero potuto incontrarsi due giorni dopo e fare l’amore. Ma lei, casta e fedele com’era, le aveva risposto che questo non era possibile siccome amava riamata un uomo meraviglioso.

“Allora dov’è la bella avventura proclamata poco fa?” domandai per sentire quale altro trappola aveva preparato per farmi soffrire e sottomettermi se non me ne fossi andato.

“La bella avventura-rispose, spaventata dalla mia reazione, sta nel fatto che ti sono rimasta fede. Tu temevi l’estate che porta gli amori ricordando che l’estate scorsa ne aveva offerti più di uno tanto a te quanto a me. Ebbene, oggi ho affrontato e superato la prova: ora sono assolutamente convinta  che passerò le ferie marine senza lasciarmi distrarre da te”

“Sono chiacchiere- pensai- ha voluto ingelosirmi per diventare sempre più desiderabile. Una mossa spregevole, da vera cocotte, una via di mezzo tra un’etera e una gallina”.

Mi tornò in mente Helena la sera che mi aspettava affacciata alla finestra sotto la quale ero arrivato anèlo dopo essere scappato via dal picnic dei consumisti magiari. Disse che pure lei aveva provato a parlare con altre persone ma erano stupide ed  tornata nel collegio sperando che sarei andato a cercarla.

Päivi dal canto suo disse soltanto: “I respect you”, io ti rispetto.

 

La trappolona di Bologna dunque continuò: “ Ora posso affermare la mia fedeltà con sicurezza perché quell’uomo non mi spiaceva: abbiamo parlato per cinque minuti, lui mi ha tentata e io non mi sono emozionata. Quando fosti tu a tentarmi, come sai non è andata così”

“Veramente fosti tu a tentare me- obiettai- e io mi sono fatto pregare. Ora cerca di non darmi altre noie di questo genere. Se vuoi stare ancora con me, lascia perdere altri possibili amanti; se non vuoi più starci, vai pure con chi ti pare e lasciami in pace”.

In quel momento cercavo di liberarmene. Pensavo che una donna venuta a trovare il compagno che la portava nella propria famiglia, in un ambiente difficile, non doveva permettersi tali provocazioni. Nessuna persona con un minimo di educazione lo avrebbe fatto.

 Si era rivelata stupida oltre che crudele e triviale: mi aveva fatto soffrire e si era fatta odiare.

Fino alla sera quel 24 giugno fu orrendo: l’onesto Giovanni mi aveva tolto la sua protezione sempre invocata. “Aiutami ancora!” pregai. La sciagurata aveva voluto sottomettermi provocando la mia sofferenza secondo il metodo degli aguzzini. Avrei dovuto troncare quel rapporto malato. Ma volevo imparare dell’altro attraverso il dolore. Per giunta in quel tempo il lavoro non mi riempiva la vita e Ifigenia occupava parte del vuoto. Avevo comunque capito che quella non era la donna per me: era bella ma non aveva la capacità di uscire dal male siccome non aveva mai avuto la chiara visione dell’idea del Bene che è il bersaglio massimo e supremo della conoscenza. Aveva la pelle ambrata, la mente turbata e  l’anima confusa da cieche speranze colei. Dovevo guardarmi da tale amante . Restituirla presto al Sole, il dio che me l’aveva donata, perché la imbalsamasse con la resina scaturita dagli occhi delle sue figlie Eliadi in lacrime per la morte del loro fratello Fetonte.

 

 

 

p. s.

Giorni fa ho ascoltato con dolore e confutato con decisione le parole empie di una persona  dell’infima borghesia ostile ai poveri, agli ultimi tra i poveri. Diceva che non si deve dare alcun aiuto a questi disgraziati, che l’elemosina è uno spreco di denaro elargito a chi non se lo merita, e altre battute sacrileghe del genere.

Naturalmente tale individuo approva tutto quanto penalizza chi è già in pena. E’ appena al di sopra di loro ma si  illude di essere molto più in alto nella scala sociale mentre teme di venire raggiunto in questa maratona del mondo che lo sta calpestando e se ne consola vedendo che altri vengono calpestati paggio di lui.

E’ sempre più difficile non diventare misantropo. La razza delle amanti come Helena, delle amiche come Antonia, degli amici come Fulvio si sta estinguendo. Spero che il nuovo Papa usi denti e  artigli davvero leonini contro le ingiustizie e le prepotenze del mondo. L’onesto Giovanni e Cristo e santo Ambrogio lo facevano. Non portavano guerra ai poveri, anzi volevano rendere loro giustizia. Non de tuo largiris pauperi, sed de suo reddis.

 

 Il mondo in cui viviamo ci affatica, ci affligge e quel che è peggio, ci annoia; però la poesia crea per noi oggetti e mondi diversi”.

 Foscolo-Principi di critica poetica .

 

Bologna 13 dicembre  2025 ore 16, 48 giovanni ghiselli

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Ifigenia XCIV. L’incontro in Piazza del Popolo. Il volo storto dei piccioni. Ifigenia, Helena, Kaisa e Päivi. Se ho fornicato…


 


 

La aspettavo nella piazza maggiore di Pesaro. Abbracciare e baciare la bellissima giovane donna in mezzo ai salti dei piccioni in tripudio intorno ai chicchi di grano, e agli sguardi di tanti curiosi pettegoli che mi avevano visto insicuro e infelice dopo il liceoo e dopo  anni di assenza mi rivedevano in piazza mentre stringevo al petto una ragazza luminosa, era la giusta rivalsa anche pubblica, oserei dire anche politica, dovuta al mio impegno nel non avere ceduto alle angherie di tante  persone retrograde, reazionarie, e alle  tribolazioni che il destino mi aveva mandato non solo per mettermi  in croce ma anche alla prova. Avevo provato di essere cedere nescius, come il Pelide. E pure che Dio mette in croce chi ama di più.

Del resto la scena che stavo recitando per i neghittosi ciarlieri  dediti al pettegolezzo di piazza aveva valore soprattutto per me.

Ifigenia era bella, fiorente, vitale; anzi era la stessa vita che  contraccambiava l’amore da me ricevuto. Potevo essere grato alla natura, al destino, agli dèi, ed essere fiero di come ero mentre sentivo di avercela fatta a risalire su, verso il cielo, dal burrone scosceso dello svantaggio iniziale.

Arrivò da via Branca. Era vestita di bianco, calzava sandali di cuoio scuro, era abbronzata nel volto e ombreggiata- kataskiazomevnh- dai lunghi capelli neri,  folti , ondulati, che le scendevano sulle spalle e sul dorso.  

Mi venne in mente Helena, anche lei bella bruna con tanti capelli e biancovestita, quando nel luglio del ’71 attraversava la grande piazza assolata posta tra l’Universtà, la piscina e l’ospedale di Debrecen. Era diretta alla clinica ginecologica per sapere se aspettava un bambino o era minacciata da un male oscuro. Come la vidi, mi lanciai di corsa da lei per aiutarla e, se possibile, amarla. Tutte e due queste donne per me significavano l’incarnazione della vita che poteva accettarmi o respingermi.

Volavano lieti gli uccelli trillando con allegria. Infatti Helena mi accettò. Per un mese soltanto ma è stato il mese più bello della mia vita. Mai smentito dai fatti seguenti. Mi prese e mi lasciò senza infingimenti. L’ho sempre benedetta tra le donne e benedetto i frutti del ventre suo, pure se non miei.

Nella piazza pesarese però i piccioni ad un tratto volarono storto e tubarono rochi inviando segnali funesti.

Come si può non dare importanza ai segni inviati da Dio?  Non è che  gli alati  conoscano il futuro sed volatus avium dirĭgit deus 1.

Da loro trassi l’auspicio della sciagura.

Ifigenia, appena ebbe finito di sbaciucchiarmi, mi gelò dicendo: “in treno ho passato un’ora avventurosa con un ferroviere giovane e bello”.

 “Maledetta sei tu tra le donne”, pensai, poi la respinsi con odio e dissi: “Ho capito. Buon per te. Me ne farò una ragione. Adesso, per piacere, lasciami solo. Vattene: torna subito indietro”.

Ero sicuro che fosse finita come quando Päivi incinta di me e diventata un’Erinni dall’Eumenide che era stata, disse: “I don’ t want to see you”, o quando Kaisa si fece negare dalla sua assistente nell’Università di Turku.

Se ho fornicato fu in altri paesi e con donne diverse. Oltretutto oramai alcune di loro sono già morte.

L’eterno ritorno della difficoltà con le donne. Fin da bambino sapevo che non mi sarei mai fidato del tutto, che sarei morto solo. L’ho sempre ritenuta la fine eroica degna di me e confacente alla mia vita.

 

Bologna  13 dicembre 2025  ore 11, 23  giovanni ghiselli

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Ifigenia XCIII. Le mie consanguinee sono ancora dentro di me. Il memoriale di Giorgia. Capitolo dedicato all’amica più cara: Antonia.


 

Voglio riferire il punto di vista della terza zia affezionata a me quanto una madre. Difatti pure lei, come Rina e Giulia non aveva figli.

Copio le  parole di Giorgia facendo una scelta di quelle che potrebbero interessare chi mi legge. Chi non fosse interessato può saltarle siccome non incidono sul seguito:

“ Gianni da piccolo ha avuto la sventura di trovarsi a vivere in un ambiente che era l’opposto del suo carattere di bambino buono e molto sensibile. Anche io mi opponevo al modo di pensare delle sorelle maggiori, cosa che non mi hanno mai perdonato”

Faccio un breve commento ad alcune osservazioni. La “sventura” dell’ambiente difficile è stata anche una fortuna, del resto vox media, perché dai problemi ho imparato: ho appreso a superare gli ostacoli-problhvmata in greco..

Le due zie più anziane hanno dato molta importanza e valorizzato e incentivato il mio essere bravo a scuola che ad altri della famiglia importava poco. Inoltre tutte le donne di questa casa non pacifica mi hanno aiutato con il denaro quando sono andato a studiare a Bologna e anche mio padre che pure ho frequentato poco. I fatti sono questi.

 

Torniamo alle parole di Giorgia

“Ifigenia, che bella ragazza!”.

 

 

Giorgia non dava alcuna importanza al denaro. In questo ho preso da lei. Quando si fu sposata con un  marito facoltoso a Potenza Picena, faceva tanta beneficenza ai poveri del paese.

 

Torniamo alle sue parole

“ La ragazza di Gianni a me piaceva, ed ero contenta di ospitarla in casa mia. Alle mie sorelle invece non andava a genio siccome per lui avevano programmato una collega beghina, una domestica casalinga che gli tenesse la casa in ordine. Io sono stata per molti anni sposata in un paesino delle Marche. Mio marito era un proprietario terriero e ospitava volentieri i nipoti a me cari: Gianni e Margherita. Noi non abbiamo avuto figli.

Gianni era un bambino magrolino, bellino e intelligente, molto sgarbato con le citte del paese forse perché allora le zie pretificate lo mandavano in chiesa e in parrocchia. Ricordo che una volta venne a trovarmi un’amica con la figlia ragazzina e Gianni, sui tredici anni anche lui, si nascose sotto il letto”.

 

Quantum mutatus ab illo! , penserai tu, caro lettore, e io pure lo penso non senza sorridere. Una piccola nota linguistica: “citta” è un toscanismo molto usato in casa nostra perché le mie consanguinee erano nate a Sansepolcro il paese del loro babbo, e ci erano rimaste per decenni. Vuol dire bambina e ragazza. Io stesso chiamavo “cittina” mia sorella.

 

Di nuovo la zia Giorgia: “Era molto sgarbato con le ragazzine, forse perché si sentiva brutto a causa dell’ambiente dove viveva. Io adesso a Pesaro mi sento sola, tuttavia non voglio andare a vivere con le due sorelle più anziane: frequentano le chiese di Pesaro ma non sanno che cosa sia la carità. Dopo la perdita di nostra madre hanno sempre avuto la pretesa di fare e disfare in tutto e per tutto. Hanno escogitato tutti i modi perché non vendessi la terra lasciatami dalla mamma”.

 

Una nota cinica: in questo mi sono state più vicine le zie che non hanno venduto la terra e l’hanno lasciata a me. L’ho data in affitto e mi rende poco ma sono molto contento di averla. Mi ci portavano Rina e Giulia quando vi andavano per diversi giorni  tutti gli anni durante le “battiture” e le vendemmie per controllare i mezzadri.

 

Un'altra nota mia: se gliel’avessi chiesto io probabilmente non l’avrebbe venduta nemmeno la zia Giorgia, ma non lo feci. Anzi, quando mi chiese se mi dispiaceva, risposi che se quella vendita garbava a lei, andava bene anche a me. I soldi dell’ affitto della casa che mi ha lasciato, mi fanno comodo, però la terra, un’altra decina di ettari oltre quelli che mi sono arrivati mi sarebbe piaciuta  molto. Tuttavia non lo dissi.

Lo stesso feci con la zia Giulia che aveva una casa a Roma, nel quartiere Monte Sacro e mi domandò se mi dispiaceva se la lasciava a mia sorella. Risposi che doveva fare come credeva giusto e mi guardai bene dal rinfacciarle che nei mesi di agosto dal 1948 al 1960  andavo a Moena con lei cui mancava molto un figlio.  Forse non mi ha lasciato l’appartamento di Monte Sacro perché una volta, quando lei era a Pesaro, ci portai una svedese “imbarcata” in piazza di Spagna ed ebbi la sventatezza di lasciare in camera un segno del peccato: una bottiglia di whisky mezza vuota.

La Rina disse che sarei morto con il fegato a pezzi.

Concludo con il testamento spirituale di Giorgia.

“La mia mamma voleva molto bene a Gianni, tanto che spesso diceva: -‘portami dal notaio perché voglio segnare a lui tutto il mio capitale’.  

Gianni è stato in casa della nonna fin da piccolino e la madre mia si era affezionata a lui”. La nonna aveva sei figli, tuttavia insisteva che io dovevo avere tutti i suoi settanta ettari. Evidentemente non era possibile. Però me ne sono arrivati 18 dalla mamma, dalla Rina e dalla Giulia.

Concludo rivalutando le due zie più anziane rispetto alle critiche eccessive mie e della Giorgia. Non voglio essere ingiusto con loro anche perché mi aspetto che mi aiutino ancora e sono certo che lo fanno.

Quando nel 1972 la nonna Margherita novantenne cadde e si ruppe il femore, mentre gli altri quattro figli e i cinque nipoti, me compreso, rimasero ognuno dov’era, chi a Bologna, chi a Città di Castello, chi a potenza Picena,  chi a Milano, la Rina e la Giulia già settuagenarie la curarono come avevano fatto con il loro babbo Carlino, e la tennero in vita per altri sei anni. Di questo sono grato a entrambe e rendo loro onore.

Tanto complessi, ingarbugliati e difficili da giudicare sono i rapporti umani. Aggiungo che sul conto di Ifigenia le zie  non avevano tutti i torti e pure io avevo dei dubbi su quella ragazza ma in ogni caso volevo essere il  solo a decidere che cosa fare

 

Ora torniamo al giorno del Santo Giovanni, mio omonimo, molto più coraggioso e onesto però.

 

Con Ifigenia dunque ero d’accordo che venti minuti dopo avere saputo del suo arrivo ci saremmo trovati davanti al bar Capobianchi all’angolo tra via Rossini, il Corso e la piazza centrale, Piazza del Popolo.

 

Bologna   13 dicembre 2025 ore 10  giovanni ghiselli

Si avvicina il dies natalis Solis invicti.

Voglio ricordare quanto mi disse la mia amica più cara in un dicembre degli anni Ottanta durante la mia consueta visita  del solstizio invernale dopo il trasferimento a Bologna. Antonia dunque mi domandò dove sarei andato per Natale.

Risposi: “A Pesaro per tenere compagnia alle zie Rina e Giulia che sono le più vecchie e le più sole tra le persone a me care”.

Antonia disse: “Lei gianni avrà fortuna nella vita perché è un uomo buono”.

Le sono ancora grato di queste parole signorina Antonia. Lei è stata l’amica più buona, generosa, leale. Anche se non ci siamo mai dati del tu.

Ora che sei un’amica celeste però mi permetto di farlo. Ti abbraccio carissima amica, collega e maestra educatrice.

Tuo

gianni.

 

p. s.

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Povera ministra!

I “poveri , comunisti” gli studenti “inutili” sono giovani danneggiati piuttosto che dannosi.

La ministra che rifiuta il dialogo con loro e li sbeffeggia e li offende, è una ricca signora che spende molto denaro per sé stessa per quanto si vede.

Milioni di italiani sono stati comunisti dalla fine della guerra a tutti gli anni Settanta e tra loro c’erano anche dei ricchi e pure degli  aristocratici come Luchino Visconti e c’era Pier Paolo Pasolini, personaggi questi due certamente non inutili né insignificanti. Ricchi soprattutto di spirito e di cultura, maestri educatori dei giovani. Noi ex giovani comunisti abbiamo imparato molto da loro. Significavano intelligenza, cultura, bellezza.

Siamo stati aiutati a pensare criticamente, invogliati a studiare, a imparare con rinuncia ad altri impieghi del tempo.

 La ministra in questione non significa molto e non è utile a molti, in questo caso nemmeno a sé stessa.

Bologna 13 dicembre 2025 ore 9, 25 giovanni ghiselli

p. s.

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venerdì 12 dicembre 2025

Medea di Euripide introdotta, tradotta e commentata da me stesso.


 

 Il volume pubblicato diversi anni fa è esaurito da tempo.

 

Lo pubblicherà a pezzi nel blog e in face-book.

Ne ho già tenuto parecchie conferenze in varie sedi. Probabilmente ne terrò altre.

 

 

 

Questo lavoro intende mettere in luce i significati della Medea di Euripide dai punti di vista della precedente letteratura greca e della successiva letteratura latina. L’analisi del dramma è preceduto da una lunga introduzione sulle tragedie di Eschilo, di Sofocle e di Euripide, non senza citazioni e riflessioni che risalgono fino a Omero, e con l’utilizzo di argomenti critici che vanno da Aristofane ai giorni nostri. Quindi viene affrontato il testo della Medea con traduzione, note grammaticali, sintattiche e lessicali, e attraverso schede di approfondimento che vogliono dare una collocazione europea alle affermazioni dei personaggi della tragedia. Non mancano i collegamenti con il film di Pasolini, con altre interpretazioni più o meno innocentiste, in primis quella di Christa Wolf, e pure con l’attualità, siccome il dramma della madre che ammazza i propri figlioli si è ripetuto non poche volte in tempi recenti. Un altro tema attuale è quello della “straniera” che arriva in una terra dai costumi diversi e, sebbene cerchi un adattamento, non ottiene l’accettazione della sua cultura e della sua umanità. Per giunta Medea appartiene alla categoria della donna abbandonata, oltretutto da un miserabile che nella scelta della compagna persegue esclusivamente il proprio utile.

 Medea, che è portatrice di una cultura arcaica e ieratica, appare come figura grandiosa di fronte alla meschinità dei suoi nemici, dal fellone Giasone, al tiranno timorato Creonte, all’insipida, sciocca rivale. La conclusione del dramma mostra l’orrendo trionfo della donna tradita, e afferma l’imprevedibilità degli eventi con l’impossibilità di rendere stabile e sicura la propria esistenza, come pretenderebbero quanti non capiscono che tutto è instabile e problematico nella vita dell’uomo.           

 

Prologo 1-95

 

Nutrice

Oh se lo scafo di Argo non fosse passato a volo attraverso

le cupe Simplegadi fino alla terra dei Colchi,

e nelle valli boscose del Pelio non fosse caduto mai

il pino reciso, e non avesse attrezzato di remi le mani

degli eroi eccellenti che andarono a cercare il vello

tutto d'oro per Pelia. Infatti la signora mia,

Medea, non avrebbe navigato verso le torri della terra di Iolco

sconvolta nel cuore dal desiderio di Giasone;

né, dopo avere convinto le figlie di Pelia ad ammazzare

il padre, sarebbe venuta ad abitare questa terra corinzia 10

con il marito e i figli, cercando di riuscire gradita

ai cittadini dei quali giunse alla terra in esilio

e, pur rimanendo se stessa, di convenire in tutto a Giasone;

e questa appunto è la più grande salvezza:

quando la donna non sia in disaccordo con l'uomo. 15 

Ma ora tutto è odioso e stanno male gli affetti intimi.

Infatti, dopo avere tradito i figli suoi e la signora mia,

Giasone si stende nel letto per nozze regali

sposando la figlia di Creonte che comanda su questa terra.

E Medea, l'infelice donna oltraggiata, 20

 rinfaccia con grida i giuramenti, reclama il sommo impegno

 della mano destra, e chiama gli dèi a testimoni

di quale contraccambio ella riceva da Giasone.

E giace senza cibo, abbandonato il corpo alle sofferenze,

struggendo tutto il tempo in lacrime 25

da quando si è accorta di ricevere torto dal marito,

senza sollevare lo sguardo né staccare il volto

da terra; e, come rupe, o marina

onda, ascolta gli amici consigliata,

tranne quando, girato il bianchissimo collo, 30

rivolta a se stessa, rimpiange il padre suo

e la terra e la casa che tradì nel venir via

con un uomo che ora la tiene in dispregio.

Ha compreso la sventurata, sotto il colpo della sciagura,

 quale bene significhi non essere privi della patria terra. 35

Poi odia i figli né si rallegra a vederli.

Temo di lei che progetti qualcosa di inaudito;

infatti violento è il suo animo, e non tollererà di subire

l'oltraggio: io la conosco, e ho paura di lei

che affilata spinga la spada nel fegato, 40

salita in silenzio alla casa dove è steso il letto,

o pure che ammazzi il tiranno e quello che ha preso moglie

e quindi si tiri addosso una sventura più grande.  

Siccome è tremenda: nessuno certo che abbia stretto

 odio con lei, intonerà facilmente il canto della vittoria. 45

Ma ecco i figli che hanno smesso di fare le corse

e vengono qua, per nulla pensosi dei mali

della madre: poiché un animo giovane non ha preso l'uso di soffrire. 48

 

Bologna 12 dicembre 2025 ore 18, 45 giovanni ghiselli

p. s.

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Ifigenia XCI Pesaro. Ritratto di famiglia. Tutte donne e un unico maschio tenuto d’occhio.


 

La sera del 23 giugno andai a Pesaro con l’amico ex seminarista.

Volevo preparare il terreno al debutto di Ifigenia nella casa delle mie consanguinèe e benefattrici possessive, gelose: Ifigenia sarebbe arrivata il  dì successivo il giorno, divo Giovanni, tuo, l’onesto Giovanni a me simpatico quale delinquente politico inviso al potere e decollato, tuttavia specialmente venerato dalle consanguinèe quale santo mio protettore.

In effetti è sempre piaciuto anche a me il santo che volle viver solo e che per saltu fi tratto al martirio.

  Avrei presentato Ifigenia come collega e amica. La compresenza di Libero, noto per essere pio e aspirare a una compagna santa quanto Maria Goretti da Corinaldo, avrebbe ammorbidito la durezza dell’urto tra la mia giovane amante del tutto irregolare, trasgressiva, e impudica  secondo le tre zie, anziane ma ancora strenua mente pugnaci.

Combattevano contro le mie amanti. Tutte delinquenti sessuali con la mia complicità.

La mattina di buonora ero andato sulla riva del mare trepidando nell’attesa del rischioso ingresso della ragazza nel covo dove ero stato allevato da donne simili a leonesse bipedi o tigri dell’Arcania. La nonna era morta da poco. La mamma era fuori Pesaro. In casa vivevano le due sorelle maggiori, Rina e Gulia, mentre una terza zia, Giorgia, abitava in una casa poco distante.

Questa era meno agguerrita, ma anche lei, qualora non le fosse piaciuta la nuova arrivata e l’avesse considerata un’intrusa, un’avventuriera profittatrice, quanto meno mi avrebbe diseredato della casa, il cui affitto mi consente  di sopravvivere senza tribolare umiliandomi con il cappello in mano davanti ai supermercati con aria da povero negro bastonato dalla vita.

Ero uscito piuttosto presto perché sapevo che Ifigenia avrebbe telefonato, la Rina avrebbe risposto e sarebbe corsa tosto sulla spiaggia a portami la notizia. Volevo studiare la prima reazione della zia “badessa” per decidere quale comportamento avrei dovuto assumere. Fin da bambino dovevo stare attento a tutto perché la mia vita, la mia stessa sopravvivenza dipendeva in gran parte da lei. Mi svegliava la mattina e mi portava a scuola, le elementari Carducci dove lei insegnava in un’altra classe. Mia madre a quell’ora dormiva.

Sapevo già che le due zie  non avrebbero mai permesso che facessi l’amore in casa loro. Avrei chiesto alla Giorgia di ospitare Ifigenia in casa sua. Probabilmente la  ragazza non le sarebbe spiaciuta quale mia compagna, se non altro per il suo aspetto.

Giorgia rimpiangeva l’amore che non aveva fatto, Rina ne aveva fatto assai ma si era sempre adoperata con tutto il suo peso di superiora perché le sorelle e i nipoti non lo facessero mai.

“Vado al mare”-dissi alla zia Rina. “Se mi cerca qualcuno, chiunque sia, indirizzalo al nostro bagnino”.  Sapevo che sentita una voce di donna in cerca di me, sarebbe corsa ad annunciarmi l’arrivo della postulante sospetta per sentire che cosa ne dicevo e osservare le mie reazioni da cui inferire un primo giudizio e preparare una battaglia contro l’impudica sfacciata intrusa. Ero quasi certo che sarebbe stata malevola e dovevo mettermi al riparo preparando un compromesso. Se andava come temevo, l’offensiva denigratoria sarebbe stata spietata. Che era brutta non avrebbero potuto dirlo.

La zia Rina si limitò a dire “bella sì ma poco espressiva”. La mamma, come la vide, fece: “bella sì, ma non ha un soldo”. La madre mia non era ostile alle mie amanti. Una volta Margherita le domandò che cosa avrebbe fatto se fosse rinata. Rispose: “ mi comporto come le donne di gianni se ce la fo”.

 Prevedevo dunque un attacco, manu militari, sul piano morale e su quello socio economico. “Se vuoi fare un dispetto a Cristo, metti un povero con un ricco” dicevano. Io ero povero e nemmeno loro erano ricche ma avevano qualche proprietà immobiliare e terriera, e io non dovevo impegolarmi con una donna al di sotto della nostra stirpe quanto a proprietà.

Verso le 11 la zia arrivò trafelata dal bagnino Alfredo dicendomi che aveva telefonato una tale chiedendo di me.

Le domandai chi fosse, dissimulando di saperlo benissimo.

“Non lo so” rispose- non me l’ha detto”. Non mi dicevano mai chi mi avesse cercato per mettermi in difficoltà. Avevo imparato a non insistere  per non mostrarmi apprensivo.

Credo che mentisse. Il campo pesarese dove mi aggiravo con estrema cautela fin da bambino era sempre stato pieno di mine.

“Sarà  la cugina di Roma, o una collega”  aggiunsi per fuorviarla. Ma la zia Rina era la più consumata volpe di casa. Voleva sapere se mi stava raggiungendo un’amante, probabilmente una ragazzaccia zingara, per prepararsi a farle la guerra.

Quindi sedette sotto l’ombrellone con l’intento di vederla arrivare.

La primogenita della nonna  mi ha aiutato molto nella vita in tanti versi, soprattutto mi ha spinto a primeggiare nelle scuole di Pesaro, e la zia Giulia  più avanti mi ha pagato gli affitti negli anni passati nel Veneto, dato che lo stipendio meno che modesto mi avrebbe costretto a dare ripetizioni non lasciandomi il tempo di studiare. Oppure a vivere sotto i portici con il cappello di fianco al materasso. Ecco perché tanti colleghi non studiano e  devono limitarsi a ripetere i manuali.

Quando ho finito il servizio militare nel maggio del 1971, le due zie più attempate mi hanno comprato la casa a Bologna.

Sicché sono grato a queste sorelle della mamma che sostenevano la mia identità di studioso e di bravo professore, però dovevo sventare le trappole di cui riempivano il mio terreno amoroso. Dunque ringraziai la zia Rina e mi scusai dicendo che andavo incontro all’ignota sopravvenuta senza preavviso e senza dare il suo nome, da  maleducata. L’avrei redarguita.

“Stai attento- fece-perché tu sei poco furbo mentre le donne  sono callide e astute.” “Consumate volpi” come te, pensai.

“Non dubitare”- risposi- sono stato ammaestrato da te e dalla zia Giulia quando eravamo a Moena”

“Dubito eccome,  dato non hai mai cavato un ragno dal buco, a parte la bravura a scola ”.

“Ragni infatti proprio no”, risposi e mi avviai.

Quando ero bambino e davo segni di essere bravo a scuola, questa zia mi spronava da una parte e tirava le briglie dall’altra dicendo: “ sei molto intelligente e pure un perfetto deficiente, caro giannettino mio!”

Intendeva intelligente a scuola, deficiente nella vita pratica. Così mi ha spinto a mettercela tutta per funzionare bene a scuola. Non immaginava che avrei coltivato e usato la mia intelligenza come base di lancio per avere successo in altri campi oltre la scuola, in primis quello dei rapporti con le femmine umane. Quando seppe di Helena l’Augusta, la Suprema tra le mie donne, disse che era insuperabile solo nel campo della trasgressione vergognosa e peccaminosa: era l’antitesi della Vergine madre. Solo a me poteva piacere una donna siffatta.

“A me sì certamente e più di tutte le altre che pur meravigliosamente conobbi!”, risposi e mi allontanai. Non le dissi che la mamma di Gesù era di fatto una ragazza madre come Elena quando faceva l’amore con me. Se alle sue orecchie fosse arrivata tale empietà proferita da me, probabilmente a quet’ora non avrei la casa al mare.

 

Bologna 12 dicembre 2025 ore 18, 28 giovanni ghiselli.

p. s.

dedico questo capitolo alle donne della mia stirpe, con gratitudine. Devo molto a tutte loro. Tanto che non sono stato capace di amare altre donne.

p. s.

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Ifigenia XC. La corsa nella notte. La felicità che aleggiava sul mare.


 

Tornai a casa verso l’una ma andai a letto senza sonno: non avevo trovato un messaggio della mia domina nella segreteria telefonica e temevo il peggio. “Se le mancassi, mi cercherebbe” pensavo.

“Non siamo una coppia di solida, eterna omogeneità”, solida aeterna simplicitate, anzi la nostra duplicità è inconciliabile.

 Credetti che questa storia fosse già bell’e finita e che fosse ormai giunto il momento di raccontarla. Ma non era arrivato il tempus scribendi: non avevo ancora gioito, né sofferto, né letto, né pensato abbastanza a lungo per scrivere come si deve.

Il destino stesso me lo segnalò: dopo qualche minuto di previsioni funesta, il telefono si mise a suonare. Era il fato  che rimandava la catastrofe. Era lei. Disse che mi stava cercando da un’ora. “Voglio vederti subito”  precisò. “Anche io- risposi- dammi solo il tempo di fare la strada il più velocemente possibile”.

La domina  me lo concesse: mi aspettava davanti alla bagnina Luana.

“Non romperti il collo però- aggiunse benevolmente- ti aspetterò qui finché non sarai arrivato tutto intero”.

“Farò presto comunque, e arriverò sano e salvo il prima possibile: ho sofferto in questi giorni per il desiderio inappagato di te- so;~ povqo~- quasi fino a morine, come la madre di Odisseo per l’assenza del figlio, ma ora sono felice”.

Mi sciacquai, feci un caffè, indossai un costume, dei calzoncini e una maglietta, scesi nel garage, tirai fuori l’automobile, la decappottai e la lanciai sulla strada che porta a Ravenna.

Nella notte calda e profumata della bella estate al suo culmine respiravo a pieni polmoni. Ascoltavo la voce di Ifigenia che cantava in un coro un’Alleluja , forse di Händel registrato in una cassetta. Mi sembrava che fossero gli angeli o gli astri a cantare, celebrando il trionfo dell’amore nostro. Il vento intanto mi dava carezze lascive. Arrivai alle due e venticinque.

Ifigenia in attesa, appena da lungi ebbe visto i fari della nera Volkswagen, congedò gli amici che la assistevano nell’attesa notturna. Voleva farsi trovare sola al momento del nostro incontro pieno di commozione. Quando mi vide scendere dall’automobile mi volò tra le braccia come una passerottina tra le ali materne. Prima di parlare, mi fece toccare il frequente e impetuoso palpitare del cuore che balzava rapido nel petto sotto il seno abbronzato. Allora capivo di essere stato pazzo a dubitare dell’amore di lei. Quel tempo sarebbe arrivato presto, prima dell’umido equinozio che offusca e raffredda il luminoso ardore delle sabbie dorate.

 Sicché ci abbracciammo e stringemmo a lungo e con forza, poi andammo a stenderci su due sdraie sotto le stelle che  benedicevano il nostro amore. Pochi minuti dopo, al chiarore dell’alba, vedemmo aleggiare sull’acqua le belle sembianze della felicità non ancora sconciata dalle nostre debolezze e miserie. Sarebbe durata un’altra trentina di giorni seguiti da un mese di pena, poi da altre sette stagioni di noia e dolore.

 

Bologna  12 dicembre 2025  ore 17, 58 giovanni ghiselli  

Sono giorni di sole questi. Domani sarà il pomeriggio meno illuminato dell’anno. Non ci saranno altri cali. Dal 21 la luce si crescerà. Ogni sera un minuto abbondante di borsa di studio per sei mesi. Anche la gamba destra funziona già a bastanza. Sono abbastanza contento.