martedì 3 giugno 2025

Seneca Epistola 11. Certi segnali del corpo come il rossore non sono dissimulabili né simulabili. C'è anche chi non arrossisce mai.


 

 

Quidquid infixum et ingenitum est lenītur arte, non vincitur (1)

Ciò che è impresso e connaturato si attenua con l’impegno, non lo si debella.

Possiamo trovare difficoltà per il sudor il sudore che gronda davanti a un pubblico come se fossimo accaldati;  ad alcuni in procinto di parlare tremano le ginocchia quibusdam tremunt genua dicturis,  

quorundam dentes colliduntur,  i denti di certuni battono,

lingua titŭbat, la lingua balbetta, le labbra si urtano,  labra concurrunt (…) in  certi momenti natura vim suam exercet (2)  la natura fa valere la sua forza e la fa sentire anche ai più forti.

Inter haec esse et ruborem scio, qui gravissimis quoque viris subitus adfundĭtur  (3) tra questi inconvenienti so che c’è anche il rossore che si diffonde all’improvviso anche sugli uomini più seri.

 Artifices scaenici qui imitantur adfectus qui metum et trepidationem exprĭmunt, qui tristitiam repraesentant hoc indicio imitantur verecundiam: deiciunt vultum, verba summittunt, figunt in terram oculos et deprĭmunt, gli attori che imitano i sentimenti, che manifestano la paura e la trepidazione, che rappresentano la tristezza, imitano il ritegno con questa indicazione: chinano lo sguardo, abbassano il tono, fissano gli occhi a terra, e li socchiudono. Tuttavia ruborem sibi exprimere non possunt; nec prohibetur hic nec adducitur. Nihil adversus haec sapientia promittit, nihil proficit: sui iuris sunt, iniussa veniunt, iniussa discedunt (7) non possono togliersi il rossore, questo non si lascia proibire né convocare.

Niente la saggezza garantisce contro questi segni del corpo, a niente giova: hanno regole  loro, vengono e vanno via senza ricevere ordini.

 Epicuro consiglia di avere un modello sotto gli occhi.

 Dunque Elige Catonem, scegli Catone  si tibi hic videtur nimis rigidus, elige remissioris animi Laelium  e se questo ti pare troppo severo scegli Lelio di carattere più mite. Catone è il censore del 184,  Lelio che fu console nel 140 è il sapiens amico di Scipione Emiliano.

 Ci vuole un modello: nisi ad regulam, prava non corriges, Vale

Se non seguirai una norma, non correggerai le cattive inclinazioni.

 

Un breve commento. Alcuni non arrossiscono mai.

Ieri sera vedevo una trasmissione televisiva con alcuni personaggi, sempre i soliti che pontificavano sul caos di Garlasco. Il moderatore era Giletti.

Tranne il vecchio avvocato Massimo Lovati che era piuttosto naturale e sommesso, gli altri avevano tutti una maschera che  doveva manifestare l’ovvietà dei sentimenti di condanna o di comprensione o di compassione in una vicenda ingarbugliata dove non c’è niente di ovvio e tutto va visto con spirito critico. Il più mascherato era il conduttore che voleva mostrarsi a tratti stupito, talora indignato, talaltra indulgente. L’avvocato di Stasi poi si atteggiava a uomo superiore che sa tutto e ha capito tutto e manifestava un certo compatimento per chi adduceva fatti e circostanze discordanti dalle sue affermazioni categoriche.

Nessuno che si vergognasse e diventasse rosso per i tromboni suonati  e gli accertamenti proclamati.

Bologna 3 giugno 2025 ore 19, 23 giovanni ghiselli

p. s.

Statistiche del blog

Sempre1742448

Oggi1784

Ieri1449

Questo mese4736

Il mese scorso14567

 

 

Ifigenia CLVII. La stazione orientale di Budapest con gli esodi.

 

Percorsi la Rákóczi út fino alla Keleti Pályaudvar, la stazione da dove le finniche mie erano partite per tornare nei loro paesi poco caldi e dalla  frequenza umana assai rarefatta. Le donne di quella terra però  erano più evolute delle nostrane all’inizio di quel decennio che al punto dove siamo arrivati stava volgendo alla fine. Anche per questo le avevo amate e mi avevano contraccambiato. Poi erano sparite. Ifigenia dopo tutto non si era  dileguata. Meno fine delle magnifiche tre ma non meno formosa. Non rimpiangevo le finlandesi: sapevo già allora che  rimpiangere non favorisce il progredire. Se Ifigenia non funzionava, dovevo guardare oltre, non indietro.

 

I binari della stazione orientale di Budapest sono coperti da una gabbia metallica enorme, come quelli della stazione di Milano dove arrivai una volta con una delle mie donne italiane con la quale litigavo spesso e senza ragione. Probabilmente lo facevamo per eccitarci, visto che tra noi non avevamo interessi comuni  né c’erano  sentimenti buoni . In seguito avrei constatato che farsi del male a vicenda è il principale collante di molte coppie sciagurate.

 

Dal secondo binario, második vágány, erano partite le tre finniche accrescitive della mia vita. Erano salite su treni celesti. Ora sono signore tutte sopra i settanta. Forse sono addirittura amiche celesti, come Fulvio e altri cari defunti. Come tanti miei consaguinei e pure gli auctores accrescitivi della mia vita. Sono tutti comunque dentro di me i defuncti, quelli che hanno compiuto la loro vita e hanno aiutato me a riempire di cose buone la mia.  

 

Helena, Kaisa e Päivi mi salutavano con tanto di lacrime. Anche io ero commosso ma non piangevo mai in pubblico perché le donne di casa mi avevano detto che un bambino, un maschio, non deve farsi vedere piangere mai. Poi me lo aveva confermato Tacito una dei miei autori preferiti: “Feminis lugere honestum est, viris meminisse "[1].

 In compenso piangevo spesso da solo, magari davanti a uno specchio come avevo visto fare dal principe  del film di Visconti, uno dei miei modelli.

 

Congedandoci dicevamo: “spero di incontrarti ancora da qualche parte. Ti amerò sempre”. Era una scena, quanto quella dell’esodo che chiude i drammi, siccome sapevamo bene, io e ciascuna di loro, che il tempo molto bello del nostro amore, un mese fatale passato con gioia in quella lontana università incantata in mezzo a una foresta magica, era finito e non sarebbe tornato mai più. Ne avevamo coscienza fin dal prologo o addirittura dall’antefatto della nostra commedia, un dramma non volgare né falso bensì recitato e pure vissuto con bello stile dal primo all’ultimo giorno.

Spero di averlo reso scrivendo. Credo di sì.

L’ho raccontato in un libro: Tre amori a Debrecen. Non dovete comprarlo: potete trovarlo in prestito nella biblioteca Ginzburg di Bologna.

 

Bologna  3 giugno  2025 ore 16, 56 giovanni ghiselli

p. s

A proposito della biblioteca Ginzburg vi ricordo che lunedì 9 giugno dalle 17 alle 18,30 terrò una conferenza sull’Odissea di Omero. Potete venire o seguirla da lontano

 

Questo è il  link

https://meet.google.com/wwe-depo-vzp?authuser=0&hs=122&ijlm=1747908475519

 

E’ tutto gratuito ma è gradita la prenotazione- 051-466307  per il conteggio dei posti.

 

 

 



[1] Germania  27, 1. Alle  donne sta  bene piangere, agli uomini ricordare.

 

 

Ifigenia CLVI. La telefonata canzonatòria “Giannetto monta in gondola”.


 

Il 21 agosto, di mattina, andai a telefonare. Le dissi che sarei arrivato a Bologna la sera del giorno seguente.

“A che ora?” domandò con voce impostata da attrice che deve apparire commossa. Poi, senza aspettare che rispondessi, aggiunse: “vieni prima che puoi, non ne posso più di stare senza di te, tesoro mio, mia vita, mio tutto!”.

Se avessi potuto accogliere questa dichiarazione d’amore con animo non ulcerato e prevenuto, sarei stato felice.

Invece “Tuo un corno!” pensai. La ferita della promessa tradita doveva essere molto profonda: le sue parole mi sapevano di canzonatura al povero bischero, di recita da mima volgare, avvezza a circoli dozzinali.

Ero irritato e risposi: “Ancora non so dirti a che ora arriverò. Questa sera scade la mia borsa di studio e domani anche  il visto, sicché partirò di mattina, ma il tempo che ci vuole per arrivare a Bologna non so prevederlo con precisione: il viaggio è lungo circa mille chilometri e ci sono due frontiere da attraversare con tanto di controlli”.

Stavo per dire “ ispezioni quasi anali” per contraccambiare il suo modo offensivo di canzonarmi, ma tacqui. Una battutaccia da pesarese del resto.

“Pero la frontiera più chiusa –pensai-sarà la barriera mentale frapposta tra noi due. Che commediante! Mi tiene in ansia per un mese promettendomi un espresso, mi manda un telegramma chiedendomi di aspettare una lettera, io soffro ogni giorno per tre settimane non vedendola arrivare, inseguo ogni postino che vedo, pronto a dargli una grossa mancia,  e oggi vuole farmi fretta su una questione di ore. Oltre che falsa è pure cretina! Se mi avesse detto: “ho voluto provare un’avventura con un ganzo qualsiasi, ma non mi è piaciuta, e ora, se  ti vado ancora bene,  vorrei tornare con te”, avrei potuto accettare il tradimento in nome della sincerità. Magari sarei tornato in collegio per corteggiare la tedesca bendisposta e pareggiare i conti. Ora non mi va  nemmeno questo perché dopo dovrei simulare anche io”.

 Insomma ero pieno di risentimento.

Nemmeno questo dissi. Invece dissimulai tutto dicendo: “ basta che tu stia  in casa dalle sette di sera. Quando sarò arrivato a Trieste, ti telefonerò”.

“Fai presto tesoro, riprese, ti prego, ti prego, ti prego! Non ne posso più della tua assenza!”

“Buffona e mascalzona”, pensai.

Quella continuava: “Anzi, ascolta:  ti vengo incontro, se vuoi;  domani appena avrò ricevuto la tua telefonata  che aspetterò con ansia, dalle cinque ante meridiem, non post, correrò a perdifiato fino alla stazione, prenderò il primo treno diretto a nordest e ti verrò incontro a Venezia. Vuoi amore? Poi magari facciamo un giro in gondola. E mentre il gondoliere ci volte le spalle facciamo l’amore. Almeno tre volte: la nostra sufficienza. Vuoi amore?”.

Mi venne in mente: “Gianeto, monta in gondoa che mi te porto al lido, mi no che no me fido”. Cercavo di volgere in burla il fastidio che mi dava quella donna.

Il fatto è che se avesse avuto un po’ di rispetto e di premura quando ne avevo necessità e la supplicavo, non avrebbe avuto bisogno  di recitare tale farsa da mima volgare offensiva della la mia sensibilità e dell’ intelligenza. Questo  pensavo.

 

Invece risposi dissimulando, ossia senza rinfacciarle la simulazione

: “ Ascolta, ifigenia: domani pomeriggio, immagino dopo le sei, ti telefonerò da Trieste e tu vienimi pure incontro, mi fa piacere, però vediamoci alla stazione di Padova dove so bene come arrivare, mentre avrei dei problemi a trovare piazzale Roma o  a parcheggiare nei dintorni di Venezia:  non saprei nemmeno dove. Quanto al giro in gondola, lo faremo un’altra volta, quando sarò più riposato”.

Poi soggiunsi : “Comunque ho voglia di vederti anche io.  Devo avere delle spiegazioni da te!”

Ifigenia fece finta di niente ripetendo parole che non rispondevano punto alle mie: “Ti amo tanto!”. Ne avevo abbastanza.

Ripresi la Bártok Béla in discesa: “la via in su e quella in giù sono la medesima”, pensai ripetendo Eraclito.

“La medesima via della pena” aggiungevo.  

Il dolore della fine di quell’amore, della perdita di Ifigenia risuonava e mandava l’eco dei patimenti sofferti da bambino nei mesi di agosto dei primi anni Cinquanta quando a Moena ogni giorno aspettavo invano che arrivasse la mamma o almeno una sua cartolina con saluti e baci. La sorgente di quell’angoscia sul Danubio si trovava già a monte dell’Avisio nella valle di Fassa  situata sotto i gioghi del Catinaccio, il Rosengarten, Giardino di rose, dai quali cercavo di trarre conforto interrogandoli siccome vedevo in loro forme divine e umane che per  umanità mi rispondevano sempre incoraggiandomi a proseguire sulla strada della mia vita: questa non dipendeva da nessun altro che dal buon Dio e da me stesso. Allora mi dicevo che potevo fare a meno della mamma, arrivato a quasi 35 anni mi dissi che non avevo più bisogno dell’amore di Ifigenia.

Giunto sul Danubio, ne osservavo il fluire e ogni tanto alzavo gli occhi sul Gellert. Il fiume e il colle mi ripeterono le medesime parole di conforto sentite da bambino: poche, semplici e vere.

Un contravveleno dopo la telefonata tossica

L’amore era caduto nel pantano delle menzogne  fangose che Ifigenia mi aveva sciorinato al telefono più di una volta durante quel mese vissuto tanto male.

Pensavo che sarebbe presto scemato anche il fervore erotico che da novembre a metà luglio ci aveva saldati insieme come due parti di uno stesso organismo. Decine e decine di volte ogni mese. Ifigenia teneva il conto dei  basia deinde centum, dein mille altera, dein secunda cetum: roba da Guiness dei primati diceva, non senza fierezza.

La messe così abbondante non era frutto soltanto dell’attrazione fisica ma anche della simpatia reciproca tenuta viva dalla volontà e capacità di gioire e soffrire per le medesime cose. Ebbene, se come probabile, avevamo perduto l’intesa reciproca, non avremmo più raccolto tanti sapidi frutti ma spighe ammuffite piene di noia, di amarezza, forse pure di lacrime. Mi chiedevo fino a quando la bellezza di lei avrebbe stimolato il mio interesse se i suoi significati si riducevano a poca cosa, se la sua luce si affievoliva e spengeva.

Del resto anche io, se non ricevevo altre energiche spinte verso nuove esperienze e letture, avrei dovuto iterare il racconto di quelle passate in una ripetizione maniacale, tediosa, da uomo già sulla via del tramonto, insoddisfatto e frustrato, certo non l’ideale per una giovane donna.

La diffidenza che si era insediata tra noi avrebbe reso viete le conoscenze  fatte nel  buon tempo della  nostra sintonia; per giunta i miei amici storici non le piacevano e preferiva non frequentarli.

Sicchè, se volevo raccontarle qualche cosa di nuovo dovevo leggere in continuazione, acciecandomi e imbolsendomi nell’isolamento del mio studio, chiuso come in una prigione.

D’altra parte  i compiti eventuali che Ifigenia  mi avesse assegnato, non  avrei potuto farli con l’ entusiasmo dei  mesi passati insieme, dato che colei aveva perduto o almeno smarrito il forte ascendente che aveva avuto su di me nel tempo dei tripudi

Ero stanco di rimuginare. Era suonato il tocco. Sicché attraversai il ponte Elisabetta e andai a desinare al Karpatia. Mangiai un piatto di carne,  poi  mi diedi a camminare per Pest. L’estate morente cadeva dal cielo basso, oppressivo, piovigginoso, scivolava lungo i muri opachi, quindi finiva  sui marciapiedi  e nelle vie dove la nera polvere  impastata con  le gocce rade ma grosse, diventava fango e lordura.

Provavo un’angosciosa stanchezza e un senso di nausea morale.

Bologna 3 giugno  2025 ore 16, 30  giovanni ghiselli

p. s.

Statistiche del blog

Sempre1742118

Oggi1454

Ieri1449

Questo mese4406

Il mese scorso14567

 

 

 

 

 

Ifigenia CLV I fuochi d’artificio a Budapest. Una festa di popolo. Isabella e Silvia. Il dialogo conclusivo.

 

Finita la cena al ristorante Silvanus di Visegrád, ci portarono a Budapest perché vedessimo i fuochi d’artificio che ogni anno il 20 agosto, calata la notte,  vengono lanciati dalla base del monte Gellert verso il cielo da dove cadono nell’acqua del Danubio in forma di carte bruciate.

Quando arrivammo nella capitale, per le strade c’era aria di festa e la popolazione si dirigeva da tutte le parti verso il fiume che separa la pianura dalla collina, cioè  Pest da Buda.

L’autobus ci portò fino alla Keleti Pályaudvar, la stazione orientale. Ne uscimmo ed entrammo nella schiera lunga e fitta che percorreva la Rákóczi út in direzione del ponte Erzsébet. Arrivati, scendemmo sulla riva lapidea del fiume, camminammo un poco controcorrente, poi ci sedemmo sui duri gradini dell’argine.

I margini del Danubio erano pieni di popolo. Tali feste mi piacciono: sono sentite dalla gente. Non hanno fini di lucro e non ci si va per consumare. Conservano qualche cosa di antico e di religioso. L’acqua scorreva così lentamente che non si vedeva se andasse verso il ponte Elisabetta o quello delle Catene e l’isola Margherita.

Alle dieci in punto si spensero le luci della fortezza con tutti i lumi di Buda, poi quelli di Pest. Quanti fumavano spensero le sigarette. Il momento era sacro. Alla base del Gellert si accesero dei riflettori che lanciarono in alto fasci di luce rosa, verde e rossa. Quindi cominciarono i fuochi. Salivano quali punti luminosi nel cielo, poi si aprivano, si colorivano come un boccio che diventa un fiore dalle ampie corolle, o come una bambina neonata che diventa una donna bella.

Dopo la fioritura stupefacente, però, la luce si affievoliva e cominciava a declinare nel fiume dove concludeva la breve parabola della sua vita in forma di carta nera, bruciata, fumosa.

“Potrò evitare questa caduta alla bellezza delle persone incontrate nel mio cammino e agli spettacoli meravigliosi della natura-pensai-trovando le parole migliori e scrivendole bene” .

Un bambino gridò: “ mamma: Guarda quante stelle nuove vanno su e giù!”

“Il bambino, come il poeta, nota le somiglianze” pensai.

A un tratto il Gellert si accese per una cascata ignea  che rischiarò Buda e il fiume con entrambe le sponde. Mi voltai per vedere le facce delle persone-“Fra cento anni, pensai, nemmeno uno di noi sarà più qui  sulla sponda del fiume né altrove.

 Se saprò raccontare il bene ricevuto e dato con le parole migliori disposte  con ordine,qualche cosa di buono e di bello si salverà dall’orrido precipizio.”

 

Su uno scalino poco sopra il mio c’era  Isabella seduta in maniera composta e dignitosa. Con le mani teneva la gonna, lunga e larga, aderente ai polpacci. Se si fosse posizionata in maniera diversa avrei potuto vederle cosce e mutande. Sarebbe stata una provocazione lanciata alla  casta diva nel cielo e, in senso diveso, alla libidine mia  qui sulla terra.

La cascata di luce le illuminava il volto bello e pulito. Le rivolsi un sorriso di stima e simpatia. Quando mi ebbe visto, la corteggiai elogiando la sua pudicizia elegante e rara. Sapevo che con gli elogi si possono sedurre anche le vestali.

“Seduta così compostamente-le dissi non senza un po’ di ironia-fai onore alla tua dignità di donna e rispetti il tuo uomo”. Invero cercavo di stuzzicarla. Rispose con un sorriso. Osservavo i suoi occhi lucenti nella girandola conclusiva dei fuochi. Attraverso lo sguardo di lei  vedevo le profondità  dell’anima di quella ragazza: non era il fondo del mare  insondabile, spesso latente anche perché talora coperto di sugna, oppure abitato da mostri, bensì la conca sassosa di un piccolo lago alpino, del tutto visibile per la limpidezza dell’acqua diafana e incontaminata al pari del cielo sopra le montagne dopo l’aurora di una giornata che si annuncia serena, quando il sole emergendo dalle pallide rocce le colora di rosa, come fece il 30 luglio del’ 71 con gli alberi strani dell’orto botanico dell’Università di Debrecen, quando Elena cantava Summer time per significarmi che in quel momento vivere era facile e bello per noi due che ci amavamo, però avevamo poco tempo davanti e dovevamo assaporare quel momento, assimilarlo ai nostri corpi e alle anime nostre perché non sarebbe tornato mai più.

Come vedi ho raccolto l’invito Elena mia. Ho amato te più di tutte perché potevo farlo senza temere  un ridicolo fidanzamento o l’orrore di un matrimonio funesto e tragico ben più di un funerale.

Anche tu non  mettesti  mai nel mio conto questo esoso balzello né altri.

 

 

Corrumpere et corrumpi saeculum vocatur.

 

Spenti i fuochi mi incamminai con Isabella e Silvia verso il collegio di Buda dove eravamo alloggiati.

Silvia Virág dopo ventitré anni passati nella D.D. R. e due a Budapest dove si era sposata con un ungherese dal cognome joyciano, non sapeva quale fosse il male minore tra la repubblica democratica tedesca, pseudodemocratica secondo lei, e l’Ungheria già sulla strada del ritorno al capitalismo.

Mi domandò  come andassero le cose da noi, sempre politicamente parlando.

Risposi: “Non bene. Da noi ci sono sperequazioni offensive della povertà e della santa giustizia che viene presa a calci ogni giorno con piede empio.

Quanto alla libertà di parola, di critica, di giudizio, essa è mal tollerata da quando i partiti, più o meno tutti, hanno messo fine al confronto dialettico siccome soggiacciono  al potere economico o sono collusi con la mafia. La nostra sovranità del resto è limitata non meno della vostra. I servizi segreti e chi li dirige prendono ordini dall’estero, dalla potenza egemone in Occidente. La cultura è in uno stato pietoso, la scuola si sta degradando.

I servizi sanitari ancora si salvano, ma sono meno buoni che qui in Ungheria da quanto ho potuto constatare.

Insomma l’indifferenza politica e l’ignoranza stanno prendendo la sovranità sul popolo oramai spossessato di ogni capacità di pensiero critico, di ogni mira diretta al buono e al bello. Il regime ha operato un genocidio culturale diffondendo il disangèlo, la cattiva novella dell’egoismo ottuso e vorace e quello della prepotenza di chi detiene il potere. Attualmente l’ ideale della maggior parte degli italiani è uno stipendio cospicuo per consumare il più possibile di quanto viene reclamizzato dalla pubblicità onnipresente e capace di deformare le menti umane con le sue petulanti, insistenti menzogne.

Questa è la vera scuola di corruzioni di chi non ha la difesa della cultura”.

“E tu gianni come reagisci?” domandò Isabella che lo sapeva ma voleva farlo sapere anche a Silvia.

“Io studio i classici antichi e moderni per trarne argomenti con cui educare i miei giovani a non seguire le mode: l’egoismo, la corruzione attiva e passiva, il consumo frenetico, le droghe, il sesso privo di sentimenti buoni e di gioia.

Da noi è di moda il vizio:”Multi illic vitia rident et corrumpere et corrumpi saeculum vocatur[1], molti là ridono dei vizi e sia corrompere sia essere corrotti si chiama lo spirito del tempo .

Io non voglio corrompere né corrompermi come la maggior parte dei nostri politicanti, né ammazzare o venire ammazzato come i terroristi.

A scuola voglio educare, non comandare e tanto meno essere comandato da presidi autoritari o da colleghi più attempati e  non poche volte più ignoranti di me.

 Mi difendo dalla volgarità e dalla prepotenza con l’aiuto dei miei autori   che mi hanno insegnato a pensare criticamente, a parlare esprimendo idèe e sentimenti con parole efficaci,  a rifuggire dalla ciancia infarcita di  ignoranza, a prendermi cura dell’anima e del corpo per mantenerli sani e potenziarli sempre”

“Ci riuscirai”, disse Silvia, e Isabella annuì.

Camminavamo per la Bártok Béla út, in salita e piuttosto in fretta siccome il nostro collegio era a Buda, alquanto lontano dal fiume, e volevamo arrivarci prima che ci chiudessero fuori.

Per rispamiare la lena tacevamo. Sicché meditavo sul passato e sul futuro della mia vita mortale. Pensavo che mi sarebbe piaciuto avere una compagna riservata, gentile e affidabile come Isabella, capace di parlare politicamente come Silvia, e pure bella quanto Ifigenia che però era poco assennata e non sufficientemente educata. Le mie fatiche, umanamente spese, non erano bastate.

La mia amante non era una donna politica, né riservata, né affidabile, nemmeno abbastanza gentile, però era una femmina umana di rara bellezza corporea. Mi chiedevo se questa bastasse a contrappesare il bene con il male. Ne dubitavo poiché mi aveva reso infelice.

Poi il suo viso, in particolare gli occhi e lo sguardo non erano speciali come il corpo. Profecto in oculis animus habitat"[2], certamente l'animo abita negli occhi.

 

Prima di salire in camera bevemmo una birra nel bar ancora aperto del collegio, parlammo un altro poco, quindi andammo a dormire. Ciascuno nel letto suo.

Avvertenza: il blog contiene 2 note e il greco non traslitterato

 

 

Bologna 3 giugno 2025  ore 11, 36 giovanni ghiselli       

p. s

Statistiche del blog

Sempre1742041

Oggi1377

Ieri1449

Questo mese4329

Il mese scorso14567

 

 

 

 



[1] Cfr. Tacito, Germania, 19,  2

[2] Plinio, Naturalis historia, 11, 145.

figenia CLIV Torna il sole di un avvenire buono mentre ricordo il passato. L’arteria femorale mai baciata e sempre rimpianta.

I

Poco dopo apparve  nel cielo la santa faccia di luce che nutre la vita.

 “E’ arrivato un rimedio dal bel volto” pensai.

Ancora una volta il dio luminoso mi infuse forza e coraggio e la volontà di essere egregio.

L’acqua cominciò a scintillare, l’aria tornò a brillare, la musica della giostra divenne allegra e confortante, gli zingari dionisiaci, l’odore del pesce diventò  invogliante, da ripugnante che era. Il castello sfavillava alto sul colle nobile e antico, incastonato sulla cima come un gioiello.

Sul Danubio passò un battello bianco. Diffondeva musica cara al mio cuore: le danze ungheresi di Brahms suonate spesso nella terra magiara e pure sull’acqua dolce dei fiumi.

 “La piccola nave è bianca e snella come una donna giovane che nuota nuda e canta”, pensai. “Ifigenia una sera d’inverno mi cantò l’alleluja del Messia di Händel.

 Snella , formosa e leggera. E pure canora. Sole, infondimi la forza e la bellezza  della  tua luce. S’io meritai di te assai o poco”.

 

 Marina-Marisa

Dalla giostra provenne la musica della canzone “Marina” che suscitò ricordi di fatti lontani.

Nella seconda parte degli anni Cinquanta, quando facevo le medie Lucio Accio e il ginnasio nel liceo Terenzio Mariani di Pesaro, questa canzone mi faceva pensare a Marisa di cui mi ero innamorato.

Era la più brava della sezione femminile, studiosa, intelligente e competitiva. Bruna era e bella. Per certi versi era simile a me, però non mi contraccambiava. Ci sfidavamo solo. A chi prendeva voti più alti pur in classi diverse.

Allora il sistema delle raccomandazioni non era onnipresente e pervasivo come adesso, e la scuola selezionava parecchio in base all’impegno e alle capacità. Il latino alle medie era più serio e severo che adesso nei licei classici. Si doveva tradurre dal latino e in latino. Molti non ce la facevano e andavano all’avviamento al lavoro. Dal ginnasio, poi, la selezione diventava più dura di una decimazione e non risparmiava i figli dei maggiorenti della città che dovevano passare in scuole private come Poggio Mirteto dove i diplomi venivano venduti e comprati per denaro.

 Il Mamiani fermava chi non studiava. Anche se era figlio di un giudice o di un notaio o di un primario dell’ ospedale San Salvatore.

Io avevo i genitori separati e questo fatto, era molto raro all’epoca, non deponeva a mio favore. Mia madre non lavorava. Il cibo non mancava perché la nonna materna Magfherita aveva 70 ettari di terra con i mezzadri che la lavoravano, ma i soldi non erano tanti e ben pochi ne venivano spesi per me. In casa avevo solo i manuali adottati.

 Tuttavia ero molto bravo a scuola. 

La selezione più severa la facevano le prove scritte di greco e di latino.

 L’ ambiente scolastico dunque mi si confaceva.

Marisa e io  eravamo i due più egregi ed ero innamorato di lei senza essere contraccambiato. Del resto non glel’ho mai detto, nemmeno quando ci si incontrava da vecchi oramai.

La canzone  che aleggiava sul  Danubio e sulla mia testa faceva: “Mi sono innamorato di Marina, una ragazza bruna ma carina”. Trovavo irrazionale e assurdo, contrario ai miei gusti e alla mia natura quel “ma”.

Eppure tale assurdità si legge anche nel Cantico dei cantici: “bruna sono ma bella”[1]. Io pensavo e tuttora penso che la donna ben fatta e bruna incarni la bellezza mediterranea ricca di colore, vitalità,  sensualità.

La bruna Marisa era rimasta intoccabile, ma in seconda liceo  vinsi un premio per i prima trenta studenti dei  classici d’Italia. Un viaggio in Jugoslavia. Conobbi una gelataia di Lubiana, castana di capelli.

Questa Slovena fu la mia prima borsa di studio incarnata.

Poi mi sono rifatto anche nel campo dell’amore con le more: Elena e Kaisa erano brune brune di capelli e Ifigenia era molto bruna e bella assai in tutto il corpo irreprensibile.

Dopo avere pensato questo, mi dissi:

“E’ ora di procedere: devo lasciarmi guidare dal ricordo dei successi: quid agi oporteat bonis successibus  instruendus”

 

Il sole aveva sbaragliato le nubi. Mi tolsi la maglietta per  l’abbronzatura che va ripassata, come le lezioni. Mi guardai il petto e i fianchi. La vita da torero. Narcisetto. Sì ero snello come il giorno di Päivi cinque anni prima, come il mese di Elena dopo ben 8 anni: magro, abbronzato con tutti i capelli e i baffi neri, niger tamquam corvus, con i carismi dell’uomo piacente, se non proprio bello, invecchiato benissimo. Sentìi una grande energia anche dentro di me.

 “Devo costruire qualcosa, assorbire la forza del sole, la bellezza del mondo e viverla, attuarla in una poēsis più espressiva di una pictura, una creazione educativa che sopravviva ai miei momenti di grazia. Salvare la bellezza dalla caducità. Intanto lasciar cadere i rami malati: non sostenerli con un vano dispendio di energie. Disperdere le debolezze e i vizi nati da antichi dolori che non hanno più ragione di esistere”, pensai.

 

Quindi mi allontanai dalla piazza camminando lungo la sponda del fiume secondo corrente, finché la riva divenne del tutto pulita. Giunto nel tratto mondo, lo riconobbi come quello del bagno del 1974. Un’estate, quella, piena di destino come un’opera  d’arte capace di fare epoca: mi aveva dato il viatico per la lunga strada dello studio serio, teso a imparare, a ricordare, a educare parlando e scrivendo. Päivi mi aveva reso studioso del vero e del bello. La bambina non nata mi aveva chiesto di compensarla mettendomi al servizo educativo delle figlie e dei figli altrui, parlando e scrivendo.

 

Tornai nel gruppo debrecino. Ci portarono sulla collina del castello e del ristorante Silvanus dove cinque anni prima avevo cenato con Päivi, avevo ricevuto la rosa e il titolo augurale di Magister dalla studentessa Josiane di Strasburgo, giovane molto e carina, gallica o germanica che fosse.

L’Ister osservato da quella collina appare incurvato tra i monti e ameno quanto il lago di Como guardato dalla Madonna del Ghisallo, o il lago di Pusiano visto dal Cornizzolo, alture  dove salivo in bicicletta cronometrandomi  dopo una giornata spesa negli esami di maturità, al Parini, al Beccaria, gli ottimi licei milanesi.

Dovevo continuare a impegnarmi sul serio anche nell’ascesi somatica, acquistandone forza e voglia di vivere, voglia di fare, di attuare il meglio delle mie possibilità.

Il vento sollevava le tovaglie rosse dei tavoli, i capelli e le gonne delle ragazze. Dalle loro cosce tornite esalava un’aura, un presentimento di paradiso. Pensai a quelle mai baciate di Josiane  e me ne rammaricai. 

Ero avviluppato in una rete di fedeltà a Päivi che non me l’avrebbe contraccambiata e non avevo ancora imparato come si deve La montagna incantata, altrimenti avrei osato chiedere alla ragazza francese: “Lascia che io posi devotamente la mia bocca sull’Arteria femoralis che batte sulla parte anteriore della tua coscia, o perfino: “Laisse - moi toucher dévotement de ma bouche l’Arteria femoralis qui bat au front de ta cuisse”.

 Almeno l’indirizzo avrei potuto darglielo e chiederglielo dopo il suo cortese interesse. Tanto più che una matita l’avevo e il foglio me l’aveva dato lei con la rosa bianca e la scritta “Magister, tibi”. Non mi sono mai perdonato tanta sventatezza.

 Ma temevo di fare uno sgarbo a Päivi presente e attenta alla scena.

Avevo già lasciato perdere Josiane per Elena tre anni prima. Questa che era incinta di un altro meritava ogni riguardo. Anche a Päivi, incinta addirittura di me, dovevo la mia premura.  

Quella sera al Silvanus non sapevo che poco tempo dopo la finnica rossa mi avrebbe piantato senza cortesia né civiltà. Fennis mira feritas, avevo pensato, anche se i Fenni di Tacito sono i Germani del nord est, non i finnici. Però suona bene.

 Il mio dogma, perfino religioso o superstizioso talora fanatico, della fedeltà in amore, poche volte è stato ricambiato.

Dovevo disincantarmi. Ifigenia non mi aveva scritto. Era il caso di trovarne le cause e trarne le debite conseguenze.

Ne avevo  a bastanza di inganni, di fregature dovute ai miei errori. Quell’estate non avevo corrisposto a Silvia, l’interessante tedesca di Berlino per mantenermi fedele a Ifigenia che quasi sicuramente aveva tradito le promesse fatte a me. Dovevo imparare da queste esperienze come stanno davvero le cose. Senza dogmi né pregiudizi ciechi.

Il vento scuoteva anche i capelli rossissimi, avvelenati di una turista attempata. Sembrava volere strapparli siccome innaturali. “Questo fiato del cielo porterà via pure i rami rinsecchiti e prosciugherà le paludi infette, i miasmi velenosi ancora residui nell’anima mia”, pensai.

 

Bologna 3  giugno 2025  ore 10, 47 giovanni ghiselli  

p. s.

Statistiche del blog

Sempre1742032

Oggi1368

Ieri1449

Questo mese4320

Il mese scorso14567

 

 



[1] Primo pema. La sposa.

figenia CLIII. Non è possibile entrare due volte nello stesso fiume. Eraclito poi Sofocle.

I

 

Il 20 agosto ci portarono a Visegrád, sul gomito del Danubio, dove il 20 agosto di cinque anni prima avevo passato uno dei pomeriggi più intensi e belli della mia vita con Päivi[1] e gli amici, ancora tutti presenti e vivi in quel tempo remoto Allora avevo visto quel luogo come la pianura iperurania della verità scesa sulla terra con le idèe  entrate nelle cose.

 

Nell’agosto del ’79 non c’era più nessuno di loro e tutto il paesaggio aveva perduto quella chiarezza epifanica. La luce del sole era assente, l’aria grigia, l’acqua torbida, la riva melmosa, gli alberi vizzi. Mi mancavano le care persone cui la corrente risanatrice dell’Istro illuminato donava salute, forza e bellezza. Non c’era più Päivi incinta di me. Aspettava una bambina che non sarebbe  nata mai.

Potamw`/ ga;r oujk e[stin ejmbh`nai di;" tw`/ aujtw`/ [2].  

Allora sembrava che l’amore, la paternità, l’amicizia e la gioia riflesse senza interruzione dal mobile luccichio dell’acqua veloce, fossero doni per sempre, invece in poco tempo quella rapinosa corrente mi aveva portato via tutto: “oujde; qnhth`" oujsiva" di;" a{yasqai kata; e{xin[3], né si può toccare due volte una sostanza mortale nella medesima situazione.

Quel giorno felice, il 20 agosto del 1974, dell’amore e della gioia di vivere avevo  dunque visto soltanto alcuni frammenti trascinati dalla corrente verso il mare nero del nulla.

Quasi tutti quei presunti amici erano solo dei conoscenti occasionali, la donna creduta della mia vita era la ganza irrequieta di un’avventura mensile e la figlia un feto a perdersi nella corrente come le bottiglie vuote che cinque anni più tardi si dondolavano sull’acqua muovendo  i colli che non rivelavano nulla poiché i loro cenni affermavano, e subito dopo negavano tutto  quia fluminum  instabilis natura simul ostendit omina et rapit [4] pensai.

Il medesimo luogo osservato con animo non più giovanilmente esaltato era squallido.

Mi trovavo sulla corriera che seguendo il corso dell’Istro ci  portò in una piazza situata sotto la collina del castello di Visegrád sulla riva destra del fiume. In quell’agorà c’erano tavoli, seggiole e zingari, non dionisiaci, non musicali come quelli che suonavano il cembalo nei ristoranti di Debrecen.

Mangiavano pesce fritto avvolto in una carta gialla unta che poi lasciavano sui tavoli o gettavano in terra, incuranti della decenza. C’era anche una giostra triste, semivuota, osservata da bambini  verdi e muti, come ramarri chiusi in una teca di vetro situata in uno solaio buio e freddo, esposto a nord, mai battuto dal sole, nemmeno nel mese di giugno quando la luce è altissima. Il fritto mandava odore di sugna bruciata. Il castello sopra la piazza mi fece venire in mente quello di Kafka:  sembrava un’accozzaglia di pietre prossime a sgretolarsi.

Attraversai la strada per osservare l’acqua dalla riva. Era lurida. C’era una spazzatura varia di carte, cocci, bottiglie, pezzi di ferro, e nefandezze innominabili, inverecondamente distese sulla ghìaia o affondate nel fango.

“Pensoso di cessar dentro quell’acque/la speme e il dolor mio”?[5]

No, sicuramente no: intanto perché la speme era spenta, poi quelle acque facevano schifo.

Avvertenza: Il blog contiene 5 note e il greco non traslitterato

 

Ricordi e progetti sulla riva sporca del Danubio inquinato. L’Edipo re di Sofocle.

 

Con cupa meraviglia mi chiesi come cinque anni prima avessi potuto togliermi le scarpe per camminare a piedi nudi sopra tale immondizia. Allora tutto mi sembrava bello assai e molto pulito perché avevo incontrato una donna capace di darmi i compiti che dovevo fare in modo egregio per migliorare, ed elevarmi fino al livello di lei, l’amante psicologa che sopravvalutavo siccome aveva detto quello che volevo sentirmi dire da una persona che mi piaceva.

 Il suo viso mi appariva plasmato dall’intelligenza e dalla forza della volontà. Il suo sguardo non era melenso come quello dei più. La consideravo straordinaria, semidivina. Allora  non tenevo conto del fatto che la sua metà umana era sol povera carne mortale come la mia.

Notai una bottiglia di plastica rosa e una di vetro verde che si incrociavano simboleggiando la mia crocifissione. Vicino all’acqua camminava un vecchio iracondo, barcollante, forse ubriaco. Mi guardò minaccioso, sputò e imprecò.

Sulla riva c’erano anche stracci immondi,  unti di liquido osceno, scatole di plastica e di latta. Sull’acqua ondeggiavano dei preservativi.

Pensavo alla figlia abortita e mi vennero in mente alcuni versi di Sofocle che descrive la situazione di Tebe inquinata da un mivasma non ancora individuato, e desolata dall’epidemia che accumula cadaveri di donne uomini, bambini uccisi dall’empietà.

 

La città infatti, come anche tu stesso vedi, troppo/già ondeggia e non è più capace di sollevare il capo dai gorghi del flutto insanguinato/E si consuma nei calici infruttuosi della terra,/si consuma nelle mandrie dei buoi al pascolo, e nei parti/senza figli delle donne; e intanto, il dio portatore di fuoco,/scagliatosi, si avventa sulla città, peste odiosissima,/dalla quale è vuotata la casa di Cadmo,e il nero/Ades si arricchisce di gemiti e lamenti" (Edipo re, vv. 22-30).

 

Eppure cinque anni prima ci eravamo seduti lì a prendere il sole, poi ci eravamo spogliati e avevamo fatto il bagno dentro quell’acqua. No, non la medesima acqua. Bucce di angurie, cartacce luride a altre porcherie innominabili, deiezioni gettate giù  da ogni parte vi galleggiavano. Alzai gli occhi. Nella luce morente del tramonto vedevo colline giallastre di vegetazione morente. Nella primavera precedente con Ifigenia eravamo felici perché facevamo l’amore più e più volte stimolati non solo l’uno dalla persona dell’altro ma anche dal progetto di promuovere una rivoluzione culturale, un cambiamento di gusti e costumi, intanto in noi stessi, poi nel nostro ambiente, quindi in un ambito sempre più in grande.

“Sarò il maestro di un popolo intero”, pensavo e speravo.

Mi chiesi che cosa era rimasto delle gioie e dei progetti del tempo dell’amore. Avevamo passato due anni tendendo trappole all’amante sempre meno amabile e amato.

Dileguate le amanti, in me  tuttavia restava  qualcosa di quanto mi avevano infuso: la volontà di salvare dal precipizio del nulla i significati estetici, morali e politici di quelle storie e degli ambienti in cui si erano svolte. Da Elena Schejbalova di Praga, nella primavera del ’68,  a Ifigenia la primavera del’ 79, undici anni più tardi con tanti cambiamenti di tutto.

Da una quercia enorme era caduto a terra un ramo grande. Mi avvicinai per osservarlo: era marcio. “Se non fosse stato fradicio, non sarebbe caduto”, pensai. “La quercia però è rimasta in piedi, il ceppo resiste. Anche tu devi eliminare i tuoi rami bacati-mi dissi: “l’egoismo, il narcisismo, l’esibizionismo istrionico. Conserva e potenzia invece il meglio di te, l’essenziale: la volontà di imparare per educare  i ragazzi, il desiderio di scrivere per rendere migliore chi ti leggerà. Devi arrivare alla densità e intensità di significati che ammiri tanto in Sofocle.

Questi amori a tempo determinato devono servirti a creare un’opera che duri a lungo, molto a lungo. Altrimenti  non valeva la pena di prolungare molte di quelle frequentazioni. Con Ifigenia sarebbe ancora possibile?. Ma ne vale la pena? Non credo”.

Dalle nuvole a un tratto sbucò un raggio di sole che mi fece alzare gli occhi al cielo.

 

Bologna  3 giugno 2025 ore 10 giovanni ghiselli

p. s.

Statistiche del blog

All time1742007

Today1343

Yesterday1449

This month4295

Last month14567

 

 

 

 

 

 

 



[1] Cfr. Tre amori a Debrecen in prestito nella biblioteca Ginzburg.

[2] Nel medesimo fiume entrare due volte infatti non è possibile  (Eraclito in Plutarco, Sulla E di Delfi, 392b)

[3] Plutarco, ibidem

[4] Cfr. Tacito, Annali, VI, 37, poché la natura instabile dei fiumi nello stesso tempo mostra i presagi e li trascina via.

[5] Leopardi, Le ricordanze, 108-109.

Ifigenia CLII. Le nuotate a Tihány e a Pesaro. Lo Starnberger See e la croce della morte di Ludwig II.

 

Quando la seduta degli assaggi fu tolta, per smaltire il troppo di quel bere accompagnato da pasticci salati che rilanciavano la sete, scesi di corsa lungo la china del colle fino alla sponda del lago e, nonostante piovesse, mi denudai quasi del tutto sul lido deserto, riposi gli indumenti sotto la tettoia di un bar chiuso, quindi mi tuffai in mutande nell’acqua melmosa. Mentre costeggiavo il promontorio mi sovvenne un’altra nuotata del genere fatta nello stesso luogo, ma sotto la luna, nell’agosto del ’71 quando la finnica Helena mi aspettava in un bar, forse con trepidazione e orgoglio perché io ero stato l’unico dei cento gitanti a sfidare il freddo e un accidente tuffandomi nel lago dopo l’abbondante bevuta di vini e la scorpacciata di debreceni paros, coppie di grosse e grasse salsicce.

 

  Sulla spiaggia di Pesaro, prefigurando Elena,  mi aspettava la mamma bruna, formosa e snella anche lei. Io allora, nei primi anni Cinquanta ero un bambino invece minuto, grande solo di occhi e di naso, insomma mi sentivo brutto davanti alla mamma e per ottenere la sua ammirazione, per piacerle, dovevo compiere qualche cosa di egregio, mostrarle delle capacità che i miei compagni non avevano, sebbene fossero più grossi di me. Qualcosa di speciale di soltanto mio, e non scolasticamente, ma fisicamente: da atleta. A scuola infatti poteva essere bravo anche un  disgraziato mezz’orbo  e bruttino, ma per le imprese sportive ci voleva la potenza del fisico. Se non l’avessi acquisita e manifestata, la mamma bella e bruna mai mi avrebbe voluto mai un poco di bene. Elena nemmeno e neppure le altre. Un monachello infelice sarei stato, e solo per tutta la vita . Una vita storpiata e soffocata. Perciò se mi guardava la mamma, mi buttavo nel mare e ruotavo le braccia nell’acqua, vi battevo sopra le gambe  con tutte le forze, finché mi bastavano i muscoli e il fiato. Se la mamma non si era distratta e quando tornavo, nell’asciugarmi, mi diceva “bravo!”, ero felice.

“Ce l’ho fatta!”  pensavo, come quando  Elena mi disse: “sto imparando ad amarti” dopo avermi ignorato.

Il 19 agosto del’ 79 invece sulla riva non c’era nessuno: gli altri erano andati dentro un Etterem a cenare.

“Non c’è Cristo o santo Francesco che mi trattenga-avranno detto- il Gulasch non me lo lascio scappare, la zuppa di pesce nemmeno”.

 

Passate le sette, il cielo nuvoloso e basso sul lago era già quasi buio. Nuotavo in solitudine nell’acqua fredda e scura, eppure dentro di me brillava la gioia pensando che a quel nuotare, come a correre, a pedalare sui monti e pure a studiare mi avevano stimolato le donne e se ero diventato bravo, sano e tutt’altro che brutto,  lo dovevo a loro. Ce l’avevo fatta. Ne avevo già conosciute diverse: non solo le  brune  predilette ma anche diverse bionde e almeno una rossa. E altre ce ne sarebbero state e meravigliosamente le avrei conosciute. Ricco sarebbe stato il catalogo.. “Almeno cinquanta” avevo giurato.  Ero di ottimo umore.

Ti domando lettore: tale contentezza  era stupida smargiasseria  oppure gratitudine santa? Dimmelo tu.

 

 

Ludwig II di Baviera.

 

Un salto in avanti. Lo Starnberger See . Le due fiaccole: quella delle nozze e quella del funerale

Le due nuotate nel Balaton mi sarebbero tornate in mente la sera del 17 aprile 1981 quando,  seduto con Ifigenia  sulla riva dello Starnberger See, entrambi senza proferire verbo, guardavamo la croce di ferro che indica il luogo sacro dell’annegamento rituale di Ludwig, bellissimo principe di Baviera, diventato re, poi decaduto a mostro pazzo e deforme. Vedevamo un cigno aggirarsi sull’acqua dove era annegato il sovrano lunatico degradato a farmakov~  che morendo sfuggì ai suoi aguzzini riconsacrandosi re.

 

 Contemplavamo l’ultimo spicchio di sole che si inabissava tra colli scuri sovrastati dal cielo purpureo mentre  si colorava di sangue l’acqua increspate dal lago e noi due  spiavamo con rapidi sguardi obliqui ciascuno il volto dell’altro, divenuto cupo, sospettoso e ostile dopo due anni di incomprensioni, malizie e menzogne.

Allora mi sovvenni dei  bagni nel lago ungherese, dell’amore di Elena, delle gioie ricevute e date con Ifigenia nei mesi felici del nostro primo inverno, e mi si strinse il cuore.

A un certo punto su un colle davanti a noi si accese una fiaccola e io ruppi il silenzio dicendo: “viximus insignes inter utramque facem"[1]. Intendevo la fiaccola chiara delle nozze del  novembre 1978 e quella fumosa del  lungo funerale  che offuscò tutte le nostre gioie poi le  fece annegare.

Come Ludwig II di Baviera. Eravamo andati a vederne i castelli per commemorare lui e il tempo buono del nostro amore dopo avere visto il film di Visconti che ci commosse e ci aveva perfino riconciliati per qualche ora.

 

Bologna  3  giugno  2025 ore 9, 14 giovanni ghiselli

p. s.

Statistiche del blog

Sempre1741989

Oggi1325

Ieri1449

Questo mese4277

Il mese scorso14567

 

 

  

 

 

 



[1] Properzio, IV, 11,  46.