Il 28 maggio, nel pomeriggio inoltrato, andammo con una coppia di amici sui colli lussureggianti.
Si camminava sui prati variopinti di erba e di fiori in rigoglio, sorvolati dai palpiti delle angeliche ali di farfalle multicolori, rallegrati dai canti degli uccelli lieti per la giornata calda e serena mandata da Dio come dono prezioso a tutte le creature viventi.
Entrammo a mangiare un boccone nell’osteria di San Pietro gestita da due simpatiche vecchie sorelle. Pane con cacio e un bicchiere di vino. Dopo questa sobria merenda consentita dal pranzo mancato, e meritata dall’amore di cui ci eravamo saziati a metà della giornata, Ifigenia venne a sedersi sopra le mie ginocchia con mosse affettuose, infantili. Mi pareva una sorellina minore da educare.
La situazione era gradevole, però lì dentro non si vedeva il tramonto.
Nel tempo lontano quando ero un bambino e soffrivo le pene inflitte dall’iniqua stagione: il buio alle cinque dei pomeriggi rattristai e incupiti da nuvole nere, il freddo che ammazzava gli animali e gli umani più deboli, la bora spietata, ebbene, a mezzo il verno quando nel cielo non si vedeva nemmeno una stella pur se invocata a lungo, io sognavo che era proprio il maggio odoroso: immaginavo giardini belli, profumati da rose bianche, una luce radiosa che danzava sull’erba, farfalle aleggiare accoppiate sugli orti dorati, vedevo papaveri ardenti punteggiare di segni scarlatti le ampie onde del grano già ricco di spighe più bionde che verdi mosse adagio da un vento caldo di paradiso, il garbino che allieta i freddolosi, sognavo una bambina bruna bruna, quanto la mamma, intelligente e brava a scuola come le zie, un’amica che mi invitava sorridendo ed era felice di giocare con me.
Intanto la bora tremenda soffiava implacabilmente su Pesaro sputando su casa mia vicina al mare tutto il gelo del Nord.
Questo sognavo negli spietati inverni pesaresi degli anni Cinquanta. Il più lungo fu il 1956, quello del “nevone” di febbraio che durò fino a marzo inoltrato.
Il 28 maggio era uno dei dì preferiti perché era già estate e per quasi un mese la forza del sole sarebbe cresciuta ancora con i suoi benefìci meravigliosi.
Fin da bambino quando arrivava di luglio, con lo scemare dei minuti di luce e il taglio violento, crudele del grano, sentivo la morte dell’estate e mi si spezzava il cuore perché pensavo alla mia. Allora più di ora.
Il 28 maggio del 1979 quel mio desiderio infantile di gioia luminosa e amorosa si avverava del tutto compiuto: allo splendore della natura, si era aggiunto il fulgore di una giovane donna rigogliosa bruna e bella, una venticinquenne che voleva essere educata da me e pure giocare con me: figlia e sorella spirituale, collega, compagna, amica e amante preziosa.
“Eh, che bel gioiellino!” esclamò l’amico Fulvio quando gliela presentai.
A Ifigenia che mi riempiva di baci, carezze e parole gradite, domandai se voleva uscire per camminare con me, vedere il tramonto del sole, metterlo a letto, poi fare l’amore sull’erba di un prato celato alla vista di uomini, donne e bambini.
La proposta la fece trillare di gioia.
Ci alzammo, chiedemmo scusa agli amici, uscimmo e ci allontanammo dall’osteria campagnola allungando i passi su un sentiero che procedeva tra l’erba a mano a mano sempre più folta e alta. A un tratto trovammo un’area circolare, come una radura dove spiccavano alcune campanule azzurre. Rimanendo in piedi, potevamo vedere i colli da una parte e la bassa pianura del nord dall’altra, ma dopo esserci stesi al riparo della fitta vegetazione che nascondeva quel talamo tondo, si vedeva soltanto il cielo sereno. E non eravamo visti da alcuno. Replicammo i concubiti di mezzogiorno.
Le farfalle ci festeggiavano svolazzando sopra i nostri corpi con le ali imporporate dai raggi solari che sorridevano teneramente.
I fiori azzurrini piegati dalle membra aulenti di Ifigenia contraccambiavano con il loro profumo l’odore paradisiaco del corpo splendidamente fiorito di lei. Meivdhse de; gai` j uJpevreqen[1], sotto sorrideva la terra.
Poi, seduti sulle vesti leggere, ci fermammo a osservare la volta del cielo sopra di noi che diventava azzurro, mentre il sole, stanco del lungo volo, si era già annidato nel verde ed erano scomparse tutte le ombre diurne, mentre si oscurava ogni sentiero e divenivano sempre più blande e dolci le voci degli uccelli. Una farfalla bianca e fosforescente, improvvisa e inopinata, a un tratto si posò sul grembo di Ifigenia e vi sparse il il suo luminoso candore. Facemmo l’amore per l’ultima volta quel giorno, prima che la via del ritorno sparisse nel buio della notte. Quindi rientrammo nell’osteria.
Eravamo belli: il tempo non aveva ancora marchiato i nostri corpi con i segni della stanchezza e l’anima quella sera si assimilava alla venustà gioiosa dell’aspetto. Nel giro di pochi mesi il nostro amore sarebbe diventato una vescica svuotata dalla fillossera dall’egoismo
Bologna 11 dicembre ore 16, 16 giovanni ghiselli
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