mercoledì 3 dicembre 2025

Ifigenia 44 e 45. A Pesaro. In casa poi al mare


 

Ifigenia XLIV. la casa di Pesaro terza parte. La telefonata plebea.

 

Al tocco, durante l’ora del desinare, telefonò Ifigenia. Andai a rispondere con una corsa perché non venisse intercettata. Era lei.

Disse che aveva iniziato le vacanze nel migliore dei modi: frequentando gli amici di una sua cugina simpatica. Conosceva ogni giorno diverse persone nuove. Alcune non erano male per niente. Ma sopra tutti aveva trovato interessante un ragazzo che la sera prima l’aveva fermata per strada, davanti alla Standa di via Rizzoli. Sembrava dotato di una gran fantasia oltre che di una buona educazione. Perciò non si era sentita di negargli il numero di telefono quando glielo aveva chiesto con garbo.

“Ti ha domandato con garbo anche di quale colore avevi le mutande?”

“No perché?”

“Perché se gli piacevi davvero, te lo chiedeva, come ho fatto io. Comunque prova a vedere che cosa succede. Se son rose profumeranno”

“Sei geloso?”

“No, perché se mi ami, hai detto quello che hai detto solo per ingelosirmi, se non mi ami vai pure con chi ti pare. Vedi come va e fammi sapere. Ti saluto perché sono a pranzo con le mie zie”.

Riattaccai senza aspettare la sua risposta.

La scena era stata ignobile, indegna di me. Frequentando le persone volgari ci involgariamo. Avevo mantenuta calma e freddezza ma ero agitato come  un raggio di luce lunare che vibra e guizza sull’acqua.

O come una mosca che ci zampetta dentro.

Mi appoggiai a una parete prima di rientrare nella cucina  perché le zie non mi vedessero piegato in due dall’angoscia. Sbagliavo. Di una donna così bisognerebbe disamorarsi, anzi schifarsi subito. Molti anni più tardi, educato dal dolore, ne ho lasciata un’altra appena ha tentato di ingelosirmi.  

Non fu difficile perché non era giovane né bella come Ifigenia nel 1978.

 La gelosia è una piovra dai cento tentacoli, è un’idra di Lerna cui ricresce ogni testa appena tagliata, è un mostro ingordo che si fa beffe del cibo che inghiotte e ne chiede sempre dell’altro. Non dovevo cascarci. Le tre finniche mi hanno lasciato, ma finché sono state con me non permettevano ad altri di  corteggiarle.

“Costei è plebea nell’anima” mi dissi.

Poi, ripreso il controllo di me stesso, tornai dalle zie. Se avessero letto nel mio viso il travaglio interno, avrebbero detto: “Così smetterai  di  preferire la gente strana, e sceglierai una collega brava, illibata di buona famiglia.  Così imparerai a non confonderti con quelle ragazzacce che ti succhiano il sangue e magari te lo avvelenano”.

Mi avrebbero dato il colpo di grazia con queste parole  non tutte prive di senso ma non le dissero quando mi videro rientrare con una maschera ferrea sul volto. Non se la sentirono nemmeno di domandarmi chi avesse chiamato, né di chiedermi perché avessi assunto quel travestimento facciale, persona tragica,  ma avevano capito che soffrivo, perché non erano stupide e di rapporti umani dolorosi si intendevano. Dopo qualche minuto ripresi a sorridere e il pranzo terminò.

 

 

Ifigenia XLV. L’inverno a Pesaro sulla riva del mare. E colpo e contraccolpo e pena su pena si posa. La rosa dei vènti.

 

Dopo pranzo, fatti gli auguri alle zie, mi avviai verso la riva del mare, il confidente antico dei miei dolori e delle mie gioie. Come le montagne a Moena e la grande foresta  nelle estati di Debrecen.

Soffrivo e cercavo di raccapezzarmi. Certo: la telefonata era stata quella di una nemica che voleva inquietarmi forse anche squartarmi.

Rimuginavo cercando una via di uscita. Disprezzavo quella donna che aveva cercato di ingelosirmi, tuttavia avevo paura di perdere la ragazza che mi donava il suo corpo fiorente, saporito, odoroso e mi riempiva di gioia  in alcune giornate.

Le mostruosità di quella vigilia di Natale  andavano confutate e sconfitte con la forza della delicatezza.

Dovevo imparare a impiegarla sempre durante le crisi. L’alternativa era la guerra con la nemica fino alla distruzione di uno dei due, o di entrambi gli amanti avvinti nella morte che avrebbe celebrato il suo trionfo.

Giunsi sulla spiaggia dove mi rifugiavo fin da bambino quando la confusione rabbiosa delle persone di casa mi faceva scappare in cerca di quiete. D’estate mi confortavano i sorrisi del sole riflessi e immillati dal tremolare della marina.

Ma quel 24 dicembre il mare in burrasca era battuto da venti contrari tra loro che spingevano ad accavallarsi grandi onde giallastre che poi si rompevano come mucchi di uova marce sul lido coperto di spazzatura e di bestie affogate, prive di vita e di memoria. Quel giorno la confusione sembrava eccessiva. Si sentiva un fragore come di urla gridate dal mare e dal vento. Mi tornavano in mente le tante liti sofferte fin da quando ero bambino: in casa, per strada, a scuola. Quella sera la mia persona era stata maltrattata ancora una volta e temevo che sarei impazzito di nuovo: “dove i venti soffiano per possente necessità e colpo e contraccolpo e pena su pena ai posa. Dice queste parole la Pizia”. Le avevo lette in Erodoto e mi erano rimaste impresse nell’anima.

Quindi pensai: “travagliosa era mia vita: ed è, né cangia stile”.

Trassi una strana consolazione da queste amicizie celesti.

 La letteratura mi salvava ancora una volta dalla disperazione.

Un compagno di scuola poi collega e amico mi accusava di essere ipersensibile fin da quando si era bambini e, lo fa ancora. “Meglio  ipersensibile che privo di carità e di bello stile, come sei tu”, gli rispondo ogni volta, sine ira.

 

Breve excursus sulla pronuncia dell’Italiano

 

La rosa dei vènti.

Da non confondersi con vénti (20) come si fa a Pesaro. Se si parla in dialetto è un conto, ma impiegando l’ italiano è cortesia farsi capire e usare la dizione corretta. Me lo hanno insegnato la mamma, le zie e il nonno toscani e sono grato a tutti loro. Credo che la lingua aretina sia la migliore d’Italia. Non per niente il ministro della cultura di Augusto Mecenate, e Francesco Petrarca erano di Arezzo. Forse gli Etruschi benestanti per latinizzarsi avevano imparato la lingua di Roma dai maestri migliori  e l’avevano assimilata come si deve. La nonna cresciuta a Pesaro diceva comunque vénti (20), e, se si trattava di vènti, di soffi del cielo, le figlie la deridevano. Sicché ho imparato da loro la pronuncia corretta delle vocali. Dicevo che da ciascun parente si prende quanto ci piace di più. Viceversa non ho preso la pronuncia palatale di Senigallia: loro, i toscani, pronunciavano Giuglia e Sinigaglia come scrivono Dante e Machiavelli del resto. Ho scritto queste parole perché adesso gli impiegati al servizio dell’attuale regime si pavoneggiano pronunciando le parole italiane con dizione romanesca- meloniana spinta,  come i figuranti dei film ambientati nella Suburra. Molti Italiani qorum ego durano fatica a comprendere.

 

La rosa dei vènti

Il frastuono confuso non mi impedì l’individuazione di soffi diversi abituato come sono fin dall’infanzia a osservare e ascoltare le voci e i segni della natura. Il vento più odioso e deleterio era quello balordo e criminale del luogo comune.

Mi diceva: “Se ammetti che l’ami senza riserve, quella accampa pretese di nozze per portarti via tutto quello che hai”.

“Ma io sono studente e povero!” ribattevo ricordando il Duca seduttore di Gilda.

“Sì ma quella è uno squalo e sa che presto o tardi erediterai della roba. Va   dicendo in giro che la tua casa di Bologna è già  sua. Poi ne verranno altre due qui a Pesaro e della terra per giunta, a Tavullia e Montegridolfo, e sarà tutta roba  di lei. Scialacquerà poi ti lascerà. Dunque non ammettere mai che l’ami, che le vuoi bene, che hai buoni sentimenti per lei: questo si ritorcerebbe contro di te. Tiella a distanza con aria superciliosa, sprezzante, se vuoi che ti rispetti; non attribuirle mai importanza, falle capire che dovrebbe quasi darti del lei, data la distanza di educazione e di stile tra voi due.  Che stia al suo posto l’improba avventuriera, la consumata volpe, se non vuoi che occupi e usurpi il tuo eremo di uomo studioso! ”

Da altre parti della rosa dei vènti però giungevano soffi dalle voci diverse e mi rimescolavano il sangue.

Uno era l’uragano della grande passione per Ifigenia la giovane femmina bella, prosperosa mai sazia, mai stucchevole, né annoiata, né noiosa almeno quando si faceva l’amore; un altro era l’alito dolce del tenero affetto per la ragazza che avrei voluto educare quale figlia adottiva,  il terzo era il  fiato  velenoso del sospetto più putrido delle pantegane immonde allineate a marcire lì sulla riva; era il  risentimento per la telefonata terroristica che mi aveva reso più geloso di Otello, più pazzo di Aiace, più torturato di Prometeo sulla rupe scitica. Tornai a casa per leggere parole consolatòrie  in un mio libro buono.   

 

  Bologna 3  dicembre 2025 ore 16, 35 giovanni ghiselli

p. s. Statistiche del blog

All time1878761

Today633

Yesterday892

This month2576

Last month33522

 

 

 

 


Nessun commento:

Posta un commento