venerdì 5 dicembre 2025

Ifigenia LXIII Bisogna avere sofferto molto per arrivare a gioire tanto.


Quel tempo è stato radioso. Allora sentivo una spinta erotica enorme, una sollecitudine benevola, educativa per una creatura vivente e separata da me di breve intervallo; avevo  un interesse  che prevaleva sui mostri feroci annidati nel mio passato infelice: più forte del mio narcisismo, preponderante sui  gravi sentimenti di colpa che avevano spesso mortificato la mia volontà di un rapporto cordiale con gli esseri umani dopo le ore di scuola. Finite queste, ogni volta che cercavo di uscire dal chiuso recinto della mia angusta persona, ero andato a sbattere il naso, simile  a becco di uccello  rapace, contro lo specchio dove mi osservavo ghignando con soddisfazione maligna.

 

 Invece Ifigenia, fornita di ali grandi e robuste al pari di Nike, mi portava con sé oltre il vetro piombato dove mi vedevo riflesso, e mi apriva la prospettiva dell’umanità, della bella natura dalle trecce verdi , del cielo sereno. Quella ragazza in certe situazioni era stata per me come il sole di giugno che ristora e rallegra il nostro emisfero.

La mia compagna illuminava, colorava e caricava di significati buoni tutto quanto vedevo e ricordavo. Con lei al mio fianco la mia vita tribolata veniva redenta da questo risultato finale: se avessi sofferto di meno, non avrei gioito altrettanto. Si rinnovava il miracolo terapeutico operato da Elena, l’augusta signora finlandese bella e fine del 1971. 

 Benedetta sarà sempre da me tra le donne.

 Arrivato vicino agli ottanta, ho fatto un viaggio ciclistico in Grecia senza essere in perfetta salute. Dopo di una tappa di 100 chilometri, tutti controvento, sono caduto per terra più morto che vivo.  

Un’età immonda la mia? No, non bestemmiare lettore! Ne ho già passati più di quelli di Mozart e Leopardi  sommati insieme. Oggi sono  81  suonati e non tutti malvissuti a dire il vero.

Che caduta fu quella del 2024! Ero steso davanti all’ingresso del sito meraviglioso di Olimpia. Se morivo lì,  magari entravo nel paradiso degli atleti e del loro cantore. Stavo per lasciarmi andare all’agonia, l’agone finale,  ma Alessandro comes e carissimo  amico, mi ha teso una mano e mi ha fatto rialzare. “Coraggio mi ha detto: fra un paio di giorni dovremo scalare il Taigeto e tu non sei un rinunciatario!”

“No, di certo!” ho gridato. “Se non ce la farò, mi getterò giù da una rupe piuttosto che sopravvivere a tanta disfatta”.

 L’amico mi ha rimesso in piedi, ma  la spinta a procedere, ad affrontare la lunga salita del Taigeto con rinnovato vigore  l’ho trovata invocando ripetutamente la migliori tra le mie amanti belle e fini: Elena Augusta, la figlia di Zeus, la donna  circondata da una alone sacro già nel suo nome.

 

 

Sabato 13 gennaio dopo la scuola ci fermammo un’ora al bar Diana dei Greci. Non è facile stare seduti un’ora con un’altra persona pur giovane e bella senza venire rosi dal tarlo della noia. Facendo l’amore, o dello sport, o pur solo camminando è diverso.

Quel sabato la conversazione languiva. Eravamo stanchi della settimana di scuola, dall’inverno già lungo alle spalle e non vicino a terminare , stremati dal freddo feroce che da dicembre rattrappisce i sensi, oppressi dal buio che avvilisce l’anima. Quella mattina la mia povera testa doveva essere stata indurita dal gelo siccome non riusciva a sviluppare pensieri speciali né parole ornate per comunicare con lei. Sicché ci separammo avviliti. Mi dicevo che se tale paralisi si ripeteva, era finita. Avevamo bisogno di emozioni per sentirci vivi. La mancanza di queste è già tediosa quando ci si trova da soli ma è insopportabile quando si è con l’amante che diviene inamabile in certi frangenti.

Se l’annoiavo un’altra volta colei mi piantava magari per andare con un delinquente purché non fosse un uomo  tedioso dalla testa svigorita dalle membra impacciate. Dovevo correre ai ripari rialzando il fervore del nostro rapporto. Se l’avessi perduta sarei caduto nella desolazione.

Negli ultimi tempi studiavo spinto soprattutto dall’amore di Ifigenia, stimolato dalla volontà di fare bella figura con lei. Avevo iniziato a  scrivere la traduzione e il commento dell’Edipo re cercando di mostrare in questa tragedia una pietra miliare della cultura europea. Provavo a essere creativo, tentavo di scrivere qualche cosa di nuovo al di là del solito imbalsamare Sofocle quale il classico supremo. Il poeta di Colono era già un maestro capitale per me e volevo estendere questo mio proficuo apprendistato al maggior numero possibile di persone. Nell’Edipo re tovavo me stesso e l’intera vita: l’amore sano e malsano, il potere e la ribellione al potere, la contaminazione, la lotta, la religione, l’empietà e tanto  altro, tutto espresso con una forza e una densità che non avevo trovato  in nessun altro autore.

Per quanto riguardava la cura del corpo, Ifigenia non solo mi tratteneva dall’ingozzarmi come le bestie ognora prone e obbedienti al ventre, ma esigeva che mi tenessi sempre in esercizio: sapevo che per piacerle dovevo scalare con forza e agilità tutti i passi dolomitici tanto per cominciare, poi passare al Parnaso, all’Olimpo e magari alle Ande. La mia gioventù doveva apparirle folle, artistica, eterna. La mia volontà ferrea e priva di ruggine.

Di mentecatti e impotenti dediti gioco delle carte o a quello dell’oca non giuliva ma triste, stolidamente ludici intorno al mercante in fiera, appassionati di calcio o bocciofili, una donna siffatta non voleva saperne. Con il suo plendidissimo aspetto Ifigenia mi invitava e invogliava a non infiacchirmi nella mente acuta e nel corpo asciutto, sempre scattante.

Ci riprendemmo brillantemente e compimmo il mese di gennaio con 71  tripudi, come mi fece notare fiera e contenta la mia amante che li contava perché ogni mese fosse fecondo di  piacere e gioia più del precedente.

Il desiderio non era  stato più contumace dopo la sciagurata seduta del 13 nel bar Diana.

Il 31 notai che le ombre dell’inverno avevano già ceduto parecchio terreno all’alzarsi del sole. Quella sera il primo tra tutti gli dèi, il santo volto di luce, la fiamma che nutre la vita, come lo chiama Sofocle[1], rimase a illuminare il mio studio fino alle 17: una borsa di studio ricca di ben 52 minuti rispetto al dì più corto, al giorno più buio dell’anno.

Un altro premio  dopo quello costituita da Ifigenia ottenuto in ottobre. E le tre magnifiche finniche dell’Università estiva di Debrecen dove tutto era santo.

 

Avvertenza: il blog contiene una nota con il greco non traslitterato.

 

Bologna 5 dicembre  2025ore 18,20 giovanni ghiselli

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[1] nella Parodo dell’ Antigone  di Sofocle, il coro dei Tebani  esprime gratitudine alla luce del Sole per la vittoria sugli Argivi:" raggio di sole, la luce/più bella apparsa su Tebe dalle sette porte/tra quelle di prima" (vv. 100-102). Più avanti  la protagonista, condannata a morte, lo saluta e rimpiange quale "lampavdo" iJero;n-o[mma" (vv. 879-880), santo volto di luce.

 Nell' Edipo re  il sole è" pavntwn qew'n provmo"" (660),  il primo fra tutti gli dei, e "th;n..pavnta bovskousan flovga"(v. 1425), la fiamma che nutre la vita.

 


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