Dovevo e volevo scrivere la storia delle mie storie d’amore dunque, tale che fosse anche una storia della scuola, del costume, della cultura e della politica italiana e magari pure europea. Per alcuni eventi disponevo di appunti,
altri invece dovevo ricostruirli
avvalendomi Era necessario che mi impegnassi a lungo, cominciando dal reperimento degli appunti, i commentarii sulla mia lotta contro il dolore, durante l’ eterna ricerca della felicità. Le prime note risalivano alla metà degli anni Sessanta ed erano sparse tra diari e libri; perciò non mi trovavo nel vuoto di cose interessanti da fare, non rischiavo di sparire nell’abisso del caos dove si sarebbe persa la mia stessa identità; anzi, avevo bisogno di tutte le ore libere per realizzare il grande progetto: raccontando gli amori falliti a causa della pochezza morale mia e delle amanti o della scarsa congenialità e attrazione reciproca, avrei dato un insegnamento ai lettori, allargato la cerchia delle persone influenzate da me, e avrei indagato me stesso giungendo a conoscermi meglio. Se il mio demone buono avesse reso ricche, strane e non prive di effetto le mie parole, forse avrei anche potuto riconquistare Ifigenia, rivitalizzare l’amore mortificato dall’uso. Con lei o con un’altra più simile a me. Se fossi tornato ad amare dopo avere compreso, non mi sarei più lasciato ingannare da lusinghe ingannevoli, né attirare da scopi fallaci. Avrei saputo digerire e assimilare la rinnovata felicità senza farne indigestione e poi rigettarla con disgusto. Intanto, lasciandomi quando aveva bisogno di me, Ifigenia mi aveva confutato, speravo per sempre, l'iniqua teoria, inculcatami in testa da gente stupida, cattiva e disgraziata, secondo la quale solo la donna vergine non è disonesta in partenza e indegna di essere sposata, mentre l’uomo può avere frequentato pure prostitute e cinedi rimanendo un grand'uomo, come Giulio Cesare16 per esempio, o Alessandro il cosiddetto Magno. Due personaggi che hanno sporcato di sangue la terra con innumerevoli stragi. Grandi solo nel male dunque. Nel novembre del 1978, quando era entrata per la prima volta in camera mia e si era spogliata sorridendomi senza malizia, irradiandomi della sua luce, Ifigenia mi aveva fatto sentire la gioia di vivere, la felicità di essere riamati dalla vita cui avevo sempre proteso gli acuti tirsi dei desideri e la delicatezza dei sentimenti, ricevendone fino allora un contraccambio solo mensile e peregrino. Quella ragazza venticinquenne, radiosa, era lo stesso sole incarnato che si era degnato di entrare nel mio appartamento, di stendersi nel mio letto, e mi aveva offerto di fondermi con la sua luce sovrumana. Il 15 marzo del 1981 il dio era oscurato da nuvole grosse e buie, ma io avevo la confortante coscienza che dietro le nubi acquose il suo volto santo c'era pur sempre, e presto o tardi sarebbe riapparso ancora più bello e radioso. Potevo indurre l’immagine visibile della Mente dell’ universo a farsi vedere di nuovo. Queste furono le riflessioni della mattina.
Avvertenza: il blog contiene 1 nota: Catullo su Giulio Cesare.
16 Catullo lo chiama"Cinaede Romule (...) impudicus et vorax et aleo (29, 5 e 10), Romolo invertito (…) libidinoso vorace e biscazziere, e anche, sia pure, forse, con ironia Caesar magnus (11,10), Cesare grande. Un altro magnus, uno dei tanti. A proposito di cinaede, devo avvertire il lettore che oggi ricevono critiche più severe gli eterosessuali degli omosessuali. Il sesso insomma torna a essere peccato, e il maximum scelus amoroso è quello eterosessuale. Oggi sarebbe inconcepibile un’allegra brigata di eterosessuali fieri di essere tali. Io non sono mai stato particolarmente bello però da sempre mi piacciono molto le donne e non l’ho mai nascosto. Per questo sono piuttosto malfamato che famoso. Ogni mia impresa egregia è posposta al “crimine” di avere corteggiato diverse donne e di averle persuase ad amoreggiare con me, pulzelle o maritate o separate che fossero.
Pesaro 3 luglio 2025 ore 17, 54, giovanni ghiselli
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Giovanni Ghiselli
Già docente di latino e greco nei Licei Rambaldi di Imola, Minghetti e Galvani di Bologna, docente a contratto nelle università di Bologna, Bolzano-Bressanone e Urbino. Collaboratore di vari quotidiani tra cui "la Repubblica" e "il Fatto quotidiano", autore di traduzioni e commenti di classici (Edipo re, Antigone di Sofocle; Medea, Baccanti di Euripide; Omero, Storiografi greci, Satyricon) per diversi editori (Loffredo, Cappelli, Canova)
giovedì 3 luglio 2025
Ifigenia. CCXIV. La ricerca delle fonti per l'opera che mi aspettava. -Autori di stragi chiamati “magni”.
Ifigenia CCXIII. I primi amori. Due bambine brune degli anni Cinquanta. La gara di corsa a Moena.
La mattina del 15 marzo 1981, appena sveglio, cominciai a meditare. Era domenica: ne avevo tutto il tempo, anche troppo. Dopo due anni, quattro mesi e mezzo, quello era il primo giorno non lavorativo che avrei passato a Bologna senza vedere né sentire Ifigenia, con ogni probabilità. Mi ero talmente abituato a vivere con lei e per lei, a ricevere le sue visite, le telefonate, le richieste, che se davvero non l'avessi più vista, ascoltata, potuta aiutare, avrei sofferto il vuoto finché non mi fossi assuefatto al nuovo stato di monaco. La mia decantata vitalità, che l'amica Antonia aveva definito "faustiana", invero era dipesa quasi tutta da quella ragazza dal primo novembre del 1978. Eppure, sparita lei fisicamente, avrei potuto leggere più di prima, correre gli stadi più di prima, magari in tempi migliori; avrei avuto modo di pedalare non solo su per la Croara, il Monte delle formiche, il Grappa e il Pordoi, ma pure il Gavia e lo Stelvio. “Stelvio e Gavia per me pari son” gridai ricordando che l’aveva detto Anquetil. Poi il Parnaso, l’Olimpo e il Taigeto E scrivere un capolavoro dovevo. Un epos grandioso, un romanzo con la visione realistica e pure mistica di un'epoca intera. Non avrei sprecato con il vizio e nell'ozio il talento che la bella donna aveva riconosciuto in me; non avrei sciupato nell'inerzia, stando seduto a mangiare o steso a boccheggiare, il fisico che a lei una volta piaceva, e forse le sarebbe piaciuto di nuovo se non l'avessi lasciato andare in tanta malora. Non avrei mai abiurato il culto della santa bellezza rivelata e consacrata dall'amore di quella ragazza bella. Non mi sarei più abbassato a tresche con femmine deformi o cretine. L'amore di Ifigenia era diventato un altro culmine della mia vita dopo quello di Elena Augusta : di lassù potevo osservarla intera, comprenderla con una visione d’insieme, e raccontarne le quintessenze che riguardano tutti. Avrei scritto una grande storia d'amore partendo dalle emozioni di bambino per le bambine coetanee, poi, di femmina umana in femmina umana, sarei arrivato al 14 marzo del 1981.
Il ricordo dell’emozione più antica risaliva all'estate del '55: avevo 11 anni non ancora compiuti, mi trovavo a Moena. Mi impressionò fortemente una citta mia coetanea una bruna bruna, snella, vivace, vestita di bianco. La vedevo affacciata a una finestra: abitava al piano sottostante il mio nella casa di via Nazario Sauro. Non conoscevo il suo nome. La sentivo cantare un motivo con parole su una paloma bianca come la neve, come la neve. La pensavo quale creatura variopinta, policroma: candida, come la paloma e il suo vestito, nera come i suoi capelli lunghi e lisci, azzurra come gli occhi che purtroppo non mi guardavano punto. Fu il primo anno che a Moena non passai le mattine aspettando, invano, la posta della mamma mia spensierata e leggera, oppure irata e furente. Impiegavo il tempo cercando un'occasione per conoscere quella bambina preziosa e farmi guardare e parlarle. Un giorno avvicinai suo fratello, un bimbo di sei o sette anni. Lo invitai a giocare, e quando la madre, una donna di occhi e di capelli nerissimi 13 lo chiamò in casa, gli chiesi se potessi salire anche io. Disse di sì; anzi ne fu proprio contento poiché uno “più grande” lo degnava della sua compagnia. Con questo stratagemma odissiaco entrai nel loro appartamento. La sorella però purtroppo non c'era, e, quando giunse, non mi rivolse lo sguardo. Ci rimasi male assai, ma non desistetti. Ce la mettevo già tutta in quel tempo. Qualche giorno dopo, verso la fine di agosto, mi accorsi con strazio che in quell'amore non contraccambiato avevo pure un rivale meno negletto di me: un ragazzotto di 13-14 anni che abitava al primo piano della nostra casa di via Damiamo Chiesa. Paloma dimorava al secondo, io con la zia Giulia al terzo. Li osservavo dalla finestra: parlavano volentieri quei due, senza nascondere qualche complicità. Con mio strazio. Dovevo superare lui agli occhi di lei, ma ero piccolo io, minuto e malvestito. Quello era grande, massiccio, anche un po' prepotente: prendeva spesso a calci i bidoni della spazzatura e gridava. Mi pareva un adulto rozzo, quasi bestiale. Cosa potevo fare contro tale ciclope? Un pomeriggio, mentre uscivo dalla casa a tre piani, li vidi sorridersi davanti al portone. Allora mi venne in mente un'astuzia da condannato a morte14: mi avvicinai, chiesi se sapevano l'ora, feci una o due osservazioni insignificanti, quindi sfidai quel Carnera a una gara di corsa in un circuito che andava da via Damiano Chiesa fino alla fontana del Turco, poi dopo una svolta a sinistra si entrava in mezzo a un campo dei cavoli, delle patate in fiore, e delle farfalle bianche. Il giro si chiudeva davanti a casa nostra dopo altre due svolte a sinistra Volevo mettere in lizza la mia agilità alata contro la brutalità greve semibestiale dell’aborrito ragazzo. Quel bruto non poté rifiutare. Mentre si parlava dei termini della sfida, feci in modo che si avvicinassero e volessero partecipare anche altri bambini del rione, villeggianti e moenesi. Più numerosi fossero stati gli agonisti, più bello, famoso e fatato il mio trofeo. Ne vennero una decina, tutti maschi. Flavio, detto strullo dalle mie zie, fu proclamato giudice. Bisognava correre per un chilometro e mezzo circa. Paloma osservava gli agonisti stabilire, concordare le regole e spiegarle al nostro arbitro che sorrideva a tutti e augurava la vittoria a ciascuno di noi. La guardavo di sfuggita: mi sembrò pallida e più bruna, più bella che mai. Speravo che fosse in apprensione, se non per me, almeno per il risultato. I capelli li aveva nerissimi, come la madre sua e la mia, gli occhi azzurri anche questi come la mia mamma; i bambini del resto non danno agli occhi l'importanza dovuta: trovano maggiore significazione nel naso, nelle guance, nelle labbra, e, appunto nelle chiome; forse perché sono parti più concrete, afferrabili, accarezzabili. Da me per altro soltanto nei pensieri e nei sogni, ché la mamma mia non si lasciava carezzare. Trovavo quella bambina così attraente che ne tremavo, sia vedendola brillare nel sole, sia ricordandola al lume della luna affacciata sul balconcino. Speravo di rendermi degno di tanto splendore vincendo la competizione che avevo voluto. Pensavo che se mi avesse approvato, avrei potuto gettarmi dentro i crepacci della Marmolada senza morire né farmi male. Le ali, mi sarebbero spuntate. Né le vipere che mi terrorizzavano avrebbero potuto nuocermi, né i lupi, né gli orsi dei boschi, né i preti maliziosi, né le zie sempre pronte a sgridarmi, proprio nessuno. E della posta che non arrivava, non mi importava un fico. Finalmente avevo trovato una ragione per non soffrire dell'amore non contraccambiato dalla mamma. L'interessamento di Paloma dovevo meritarlo. Sapevo che nessuno ammira nessuno per niente, e sapevo pure di valere qualche cosa correndo. In fondo da allora poco è cambiato, sebbene siano passati decenni. Il tempo infatti non è una cosa concreta, e l'arte deve svelare il significato dei cambiamenti di cui è foriero. Esso porta a ciascuno la formazione della sua identità che si viene scoprendo e consolidando negli anni. Finché l'uomo muore e poi, forse, come affermano molti saggi, l'opera ricomincia, o continua a vivere in un'altra figura di forma diversa: "Cuncta fluunt, omnisque vagans formatur imago" 15 tutto scorre e ogni immagine si forma fluttuando .
Flavio dunque diede il via e la gara iniziò. Il mio rivale in amore correva davanti a tutti: si era piazzatoin prima posizione, sgomitando e facendo valere la mole. Aggirata la fontana con la testa del Turco, infilammo lo stretto sentiero che attraversava l'orto con i cavoli e le patate, in fila indiana: io seguivo il grosso rivale come un ombra, ché l'avversario da battere era lui. Gli altri infatti rimasero presto staccati. Non si impegnavano come noi due che avevamo in mente una dama da omaggiare. Quel grossolano del resto non era portato alla corsa: quando sbucammo in via Damiano Chiesa sul rettilineo d’arrivo sentii che ansimava molto più in fretta di me, e lo superai senza difficoltà. Anzi, allungai pure un poco il percorso, per stare alla larga dalle sue mani invadenti che infatti allungò per ghermirmi, farmi cadere e grattare il ventre sul duro pavimento. Ma non riuscì ad acchiapparmi. Lo avevo superato rimanendo alla larga dalle sue mani da Orango. Sicché tagliai il traguardo per primo. Flavio esultava, Paloma per niente. Se fosse stata meno stupida e vana, quella brunetta avrebbe compreso chi era tra noi due il più capace, poiché avevo voluto e vinto la gara; chi il più onesto, siccome non avevo imbrogliato; chi nella vita avrebbe combinato qualche cosa di egregio se ero stato io, piccolo, minuto, e malvestito, anche debole andavano dicendo le zie a chi le ascoltava, a prevalere su un ercole meglio tenuto e pasciuto di me. Non osai avvicinarmi a lei: speravo che venisse a dirmi qualche cosa; almeno:"bravo! Come ti chiami? Di dove sei?" Le avrei risposto:"Mi chiamo Giannetto, sono di Pesaro, l'ho fatto per te. Chiedimi cose più difficili, molto più difficili: per te tirerò giù le stelle dal cielo". Credo che se mi avesse rivolto un sorriso, quel giorno mi avrebbe commosso più che se oggi mi sorridesse l'intero universo, o Dio stesso. Invece andò dallo sconfitto, e con un'espressione fine, che contrastava con il ceffo sudato di quel gaglioffo da baraccone, disse senza ironia:"Bravo, siamo arrivati secondi". Quella vittoria dunque non mi diede frutti però mi diede piena coscienza del mio talento di corridore. Nel 1980 a Debrecen avrei vinto di nuovo una gara podistica di millecinquecento metri nello stadio dell’Università di Debrecen suscitando applausi ed elogi da parte di tanti studenti europei. Quindi Ifigenia intonò l’epinicio. Smisi di adorare Paloma, però mi accade ancora di ricordare il volto bianco incorniciato dai capelli neri di lei, quando osservo la luna alzarsi dagli alberi scuri di una tacita selva. Partendo da quell'immagine bruna dunque sarei arrivato all'icona di Ifigenia che mi aveva lasciato la sera prima. Ho continuato a sentirmi attirato dalle ragazze brune a innamorarmi di loro. Fino a Päivi che era rossa ma Elena, l’Augusta ottima e massima tra tutte, era bruna. Arrivato alle scuole medie Lucio Accio poche settimane più tardi mi innamorai di Marisa che oltre essere bruna e carina era la più brava della sezione femminile. Studiavo anche per prendere voti non meno alti dei suoi. Li confrontavamo. Non ho mai potuto accarezzare nemmeno lei, ma con Marisa almeno potevo parlare. Un passo alla volta nell’apprendistato amoroso. Tuttavia non bisogna procedere troppo adagio: veloce cade e precipita presto il destino di noi mortali. Troppo breve è la vita umana pure se centenaria. Siamo creature effimere, della durata di un giorno: “sogno di ombra è l’uomo” scrive Pindaro nel quinto epodo della Pitica VIII. L’estate scorsa al mare la sorella di Marisa mi ha addolorato dandomi la notizia della sua morte recente. Le aveva detto di me che ero molto bravo a scuola. “Non più di Marisa. Mi dispiace molto. Sono sempre stato un fervido ammiratore di tua sorella” ho risposto. Se lo avessi saputo in tempo sarei andato al funerale e avrei accarezzato la bara. Dedico questo capitolo all’antica compagna nelle scuole Lucio Accio e Terenzio Mamiani. Marisa è stata una delle persone più importanti della mia vita. Quando passo sotto casa sua distante meno di cento metri dalla mia, lancio dei baci con un gesto della mano
Note 13 Cfr. Leopardi, Operette morali, Dialogo della Natura e di un islandese. 14 Cfr. M. Proust, Dalla parte di Swann, trad. it. Einaudi, Torino, 1978, p.32.
15 Ovidio, Metamorfosi XV,v. 178.
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