lunedì 2 giugno 2025

Ifigenia CLI. La trasfigurazione di Isabella.

Isabella sorrise, sedette e bevve il bicchiere di vino che le portai.

Quindi contribuì alla mia educazione. Mi consigliò  di non mettermi sempre in posa. Disse che facevo scene in continuazione, alcune anche belle, per carità, però correvo il rischio di perdere la persona che ero lasciando troppo spazio, tempo e battute ai personaggi che recitavo inventando o citando. Anche a lei piaceva recitare, ma solo su un palcoscenico, mentre io lo facevo continuamente, come un attore fanatico in preda a deformazione professionale. Fui tentato di replicare con la battuta più ovvia in quel momento: “All the world’s stage and all the men and women merely players[1].

Ma non mi parve il caso, non con la buona, acuta Isabella, e mi tolsi la maschera.

Quindi risposi: “tu non hai torto, ma io ho avuto forti ragioni per diventare attore o scimmia di me stesso, o zingaro dionisiaco, come preferisci.

 Sono diverso dalla gente ordinaria e ho dovuto difendermi per non essere costretto a rinnegare la mia identità. Quando, intorno ai ventanni, provai ad assimilarmi ai più non solo avevo abiurato la mia natura ma la mia stessa vita. Così come sono, non vengo accettato dai più. Del resto ho dovuto comprendere che non posso sopravvivere diverso da quello che sono. Allora scelsi la solitudine: smisi di aggregarmi a quelli che giocano a carte, chiacchierano di nulla, seguono tutte le partite di calcio, si rimpinzano di dolci o di lasagne, si lasciano comandare le feste e conciare per queste. Con il tempo mi accorsi che la mia stranezza, il mio essere a[topo" , fuori luogo, estraneo ai luoghi comuni, non dispiaceva a tutti, anzi ad alcuni rari e strani come me poteva piacere. Soprattutto alle donne migliori, quelle come te, Isabella cara. Per farmi riconoscere da loro, per attirarle ho dovuto rendere espressivi i miei gesti, il volto, lo sguardo. Ogni mio movimento, ogni sillaba mia doveva significare buon gusto, intelligenza, sensibilità. Del resto cerco tuttora di rappresentare me stesso, le parti migliori di me, quindi piuttosto che recitare le mie scene, le vivo intensamente: le traggo da dentro, non da fuori: le sento, le soffro, le godo. Comunque terrò conto della tua critica: imparerò a recitare meglio, a fare scene che non appaiano recitate”.

“Bravo!” -disse Isabella- spero di incontrarti di nuovo più avanti per vedere come avrai realizzato questo proposito di immedesimazione e straniamento al tempo stesso. Insomma pathos non senza ironia, Stanislavskij e Brecht”.

 

La buona Isabella mi stava facendo del bene e da questa opera buona ricavava una bellezza rinnovata e potenziata

“Se tu ti strasfiguri, non mi meraviglio”, stavo per ricominciare ricordando di nuovo Dante, ma volli censurarmi e tacqui.

Piuttosto mi diedi a osservarla. I capelli neri ancora umidi  aderivano al volto abbronzato, ma lasciavano apparire il luccichio di orecchini chiari, sottili, leggeri, simili a sistri d’argento che non suonavano più, eppure rimandavano agli occhi di quella ragazza  i quali mi parvero quali astri che si fanno vedere in una notte d’autunno là dove le nuvole inquiete dopo la sera piovosa cominciano a disaggregarsi e tra gli strappi del buio lanciano quaggiù la loro luce intermittente eppure viva e brillante, come se l’acqua del dì tenebroso avesse reso pulito il cielo togliendogli l’orrenda lordura indistriale che rende malata la terra e inebetisce le stelle.

 

 

Bologna 2 giugno 2025 ore 18, 27 giovanni ghiselli

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[1] Shakespeare, Come vi piace, II, 7. Tutto il mondo è un palcoscenico e tutti gli uomini  lee donne soltanto attori

Ifigenia CL. A Tihány, sul Balaton. Isabella. Citazioni dantesche.

Ifigenia CL. A Tihány, sul Balaton. Isabella.  Citazioni dantesche

 

Il 19 agosto ci portarono a Tihány sulla riva settentrionale del Balaton. In programma c’era l’assaggio dei vini tratti dalle vigne coltivate sui colli che orlano quella parte del lago. C’era anche la possibilità di una nuotata ma il cielo era grigio e piovoso, l’aria quasi fredda. L’autunno che due giorni prima avevo visto in agguato sulle alte chiome delle querce del bosco di Debrecen aveva fatto un salto dal confine scitico verso ovest minacciando giorni poco lieti a noi borsisti in procinto di tornare nelle nostre dimore. La speranza di trovare  calore e colori più vivi avvicinandoci a casa pareva annebbiarsi come l’aria sul lago. Voi giovani che mi leggete ora  siete stati condizionati a pensare che il calore è il male globale, una tragedia da fine del mondo, e forse riterrete insana la mia convinzione che il calore con la luce dà gioia e favorisce la vita, la ristora del freddo agghiacciante e  dallo scontento del buio tartareo che patiamo con sofferenza lunga per mesi e mesi.

Guardatevi dalle manipolazioni, ragazzi!  

 

Ma torniamo sul Balaton già raffreddato in agosto.

Per difendermi da quel cattivo tempo che mi raggrinzava e intristiva, entrai nel borkósztoló, la bettola dove offrivano il tokai di quei colli. Nel vino avrei potuto cercare qualche vestigia della luce e del calore solare dileguatosi dalla terra, dall’acqua e dall’aria.

Ricordai questi versi di Dante:

“guarda il calor del sol che si fa vino

giunto all’omor che de la vite cola”[1].

Pensavo di trarne qualche ristoro per il  cuore che si stringeva al pensiero dell’appressarsi dell’equinozio umido che offusca il nostro emisfero. Il tokai in effetti mi diede una strana consolazione, ma  trassi invero maggior conforto da un atto di delicatezza che mi offrì Isabella, la ragazza napoletana che avevo accompagnato nella clinica dentistica.

Entrato con un leggero ritardo, vidi i tavoli già in gran parte occupati. Del resto non sapevo con chi sedermi. I miei amici erano già partiti. Passeggiavo in mezzo alla sala aspettando un invito che però non arrivava. Mi tornò in mente il primo pranzo nella mensa del collegio quando Fulvio mi chiamò. Allora eravamo nel  ’66. Nell’agosto del ’79 invece nessuno mi tendeva la mano. Questa seconda volta non avevo bisogno di un aiuto che mi salvasse dalla disperazione, ma solo di un invito che mi avrebbe tolto dall’imbarazzo. Se quella chiamata non  fosse giunta, non mi sarei afflitto ma sarei uscito dalla bettola. Però nemmeno il cielo troppo freddo e scuro mi invitava. Sicché sedetti a un tavolo vuoto e bevvi paio di bicchieri non grandi, anzi piuttosto piccini. Non mi guardavo intorno per non dare uno spettacolo miserando di me stesso.  Isabella però si accorse della mia aria da bevitore di assenzio e si avvicinò  per chiedere se volevo unirmi alla sua compagnia: nel loro tavolo era rimasto appunto un posto libero. La ragazza partenopea  disse che avrebbe gradito la mia presenza. Diedi un’occhiata nella direzione che mi indicava e vidi due ragazzi che non mi erano punto simpatici, né io a loro. Perciò risposi che le ero assai grato di essersi accorta della mia difficoltà ma preferivo rimanere solo che accostarmi a quei due. Allora Isabella mi diede prova di finezza d’animo e nello stesso tempo di intelligenza. Disse: “Gianni, siccome sei solo e ti trovi in  difficoltà o per lo meno in imbarazzo, come  arguisco dalla tua faccia cupa dove del resto non manca una dose non piccola di posa attoriale, se ti fa piacere, se questo ti aiuta, rimango qui con te. Non ho dimenticato quanto sei stato cortese con me”.

“In questa terra che il Danubio riga, soglion valore e cortesia trovarsi”, risposi “e non tanto in me quanto in te”.

Dopo la citazione [2] alla ragazza letterata, aggiunsi altre parole alla persona perbene: “ tu sei buona, Isabella. Sei stata l’unica ad avere notato il mio imbarazzo, a esserti accorta della mia difficoltà. Ti prego di restare seduta qui: mi faresti piacere, mi daresti una mano”.

 E le feci il complimento più bello che un uomo della mia età di allora potesse fare a una ragazza di quindici anni più giovane: “Se mai dovessi mettere al mondo una figlia, vorrei che diventasse una ragazza buona, intelligente, carina e premurosa  come te Isabella”.

 

Nota

 [1] Cfr Dante, Paradiso, VIII, 65 e Purgatorio XVI, 116

 

giovanni ghiselli 2 giugno  2025 ore 18, 02 giovanni ghiselli

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[1] Purgatorio, XXV, 77-78.

[2] Cfr Dante, Paradiso, VIII, 65 e Purgatorio XVI, 116