Continuavo a osservare la sala della festa finale, in particolare quei pupazzi da farsa fliacica che seguitavano a ingozzarsi, ruttare e gridare con bocca sgangherata. Ero dispiaciuto per loro che significavano la rovina dei tempi più belli, ma ero contento di non essere finito nel naufragio generale dell’Europa quale vedevo rappresentata in quel raduno di giovani provenienti da quasi tutte le università del nostro continente.
Allora non avevo capito che difficilmente ci si salva da soli ed è quasi impossibile cavarsela in due con le difficoltà persino raddoppiate.
Quando nell’aria manca l’amore, questo non c’è per nessuno.
“Si bene calculum ponas, naufragium ubique est[1]”, se fai bene i conti, il naufragio è dappertutto.
Mi confortai non poco parlando con una ragazza austriaca Jiudith: bruna, forse ebrea, intelligente, carina, educata.
Qualche sera prima era capitata con un ragazzo, Peter, il suo compagno,
nella sala dove studiavo e mi avevano domandato che cosa stessi leggendo.
Il libro e la lettura sono segni di riconoscimento, quasi le uniformi della nostra cittadinanza di studiosi. Noi non siamo borghesi né proletari né ariani, né semiti: siamo appunto studiosi. Magari anche sportivi.
“Faccio il gioco delle perle di vetro, Das Glasperlenspiel” dissi.
Invero stavo rivedendo la mia traduzione dell’Antigone di Sofocle che volevo pubblicare presto. Si erano scusati, ma li avevo invitati a restare se volevano sentire qualche parola sulla ragazza pienamente sororale , quella che poi nell’Edipo a Colono sarebbe diventata filiale con il padre cieco, quanto Cordelia con il lunatico re Lear. I due giovani mostrarono un forte interesse. Mi piacquero subito. Anche lui era una persona gentile. Gente del mio stampo, pensai. Infatti poi mi avevano parlato di Musil, non genericamente come quelli che conoscono solo i titoli e credono sia sufficiente, anzi già una cosa grande. Grande per loro.
Quella sera finale dunque, avendomi visto solo, mi invitarono al loro tavolo. Ho passato lunghi periodi della mia vita da solo: dopo la morte delle zie e della mamma ho vissuto nella solitudine completa tutte le feste più solenni, siccome le mie amanti sposate in quei giorni decretavano l’embargo mio e la propria clausura da mogli infelici con il marito guardiano. Quando mi andava molto bene, si rifugiavano nel garage per farmi una telefonata, oppure nel cesso. Ubi maior minor cessat appunto.
Sentivo lunghi gemiti poi il silenzio della tomba.
Visti tali matrimoni, non mi sono lamentato della solitudine natalizia e degli altri eremitaggi di tali feste tutt’altro che coribantiche, anzi me ne sono compiaciuto.
La visita e l’invito di quei due ragazzi mi fece piacere. La ragazza mi garbava assai.
Disse che in quella festa non sapeva che cosa fare: l’allegria dei più era forzata e il baccano impediva di dialogare. Noi due per farlo, dovevamo alzare la voce. Judith parlava con precisione e ascoltava con attenzione. Dava maggiore importanza a quanto sentiva dire da me che alle parole sue, come fanno le persone intelligenti, fini, educate.
A un certo punto Peter si alzò per recarsi a salutare i suoi compagni viennesi
La profeziai di Judith. La danza pirrica dei Mongoli.
Dopo qualche minuto di conversazione la giovane austriaca mi riempì di felicità e di speranza dicendo che avrei dovuto scrivere dei libri per educare tante più persone di quante potevano ascoltarmi. Aggiunse che stava imparando molte cose mentre parlavo con lei. Le avevo detto in breve delle mie storie d’amore: da Helena a Ifigenia. Disse pure che se ne poteva trarre un film sceneggiato e interpretato da me. Risposi che scrivere mi sarebbe piaciuto, ma quanto a recitare me stesso, lo facevo già abbastanza vivendo.
“Comunque la tua fiducia nelle mie capacità mi rallegra e mi stimola”.
Ne sorrise al lume delle torce brandite da un gruppo di danzatori mongoli apparsi in costume sulla pista da ballo.
Smettemmo di parlare per osservare questa pirrica orientale.
Pensavo: “questa bella giovane mette in conto che io scriva. A quale destino dà voce la ragazza? Forse è profetessa di Calliope la massima tra le Muse che ora sorge spingendomi a fare il dovuto? Lo farò, immagine santa, poiché sono tuo.
La guardavo con simpatia e gratitudine. Sorrise di nuovo.
Intanto i Mongoli continuavano a danzare in modo guerresco. Non erano brutti nemmeno loro. Mi venne in mente Nureev, poi Ifigenia.
Una volta disse: “ il mondo è fatto di belli e di brutti , questa è la reale bipartizione gerarchica dell’umanità”. Non aveva tutti i torti. La assecondai citando Leopardi che si era identificato con Saffo e le faceva dire: “Alle sembianze il Padre, /alle amene sembianze eterno regno/diè nelle genti”. Allora Ifigenia affermò che essere belli è di fatto un vantaggio e noi due lo avevamo su tanti altri mortali.
Ribattei: “tu sì che sei bella, sei una bellezza. Io non sono bello però mi piacciono molto le donne e ho imparato a comunicare questa mia attitudine. Se no, come facevo a trovarti? Comunque-aggiunsi- nella bellezza entrano e contano molto l’onestà, la cultura, lo stile oltre il viso espressivo e il corpo ben fatto”.
Mentre ricordavo queste parole la pirrica dei Mongoli finì e si spense ogni luce.
“Et dilexerunt homines magis tenebras quam lucen; erant enim eorum mala opera”, dissi a Judith che replicò: “Qui autem facit veritatem, venit ad lucem ut manifestentur eius opera quia in deo sunt facta”.
Stavo per dirle “et tu et ego in Deo sumus facti”, e volevo anche accennare una carezza, ma in quel mentre tornò Peter e la invitò a ballare. Probabilmente ci aveva osservati dal tavolo degli Austriaci
Ero rimasto solo come sempre in questa mia vita mortale. Da Judith ero arrivato soltanto l’ultima sera. Tardi, come con tutte le altre, conoscenti, amanti colte e no. Nel senso di còlte, raccolte, e pure di cólte, educate.
Perché tardi son giunto. Ho sempre avuto delle sfasature nei tempi dell’amore.
Contai i miei Búcsú est: dieci. Mi sovvenni del tempo in cui sapevo sedurre le donne europèe. A Debrecen si sentiva davvero l’Europa, come notava Fulvio. Le donne delle varie università portavano là nella puszta le Grazie e le Muse dell’Europa, la bellezza e la poesia, dolcissima coppia. Io volevo essere l’aedo di Debrecen. Fulvio mi aveva indicato questa meta.
Bevvi un altro bicchiere da “l’Ongarese –Bottiglia[2]” che faceva pullulare i ricordi. Gli amori, gli amici. Se non trovavo più Ifigenia, restavano poche presenze umane.
“L’Europa- pensai- sarà degradata, ma resta pur sempre l’erede della cultura dei Greci mediata all’Europa attraverso i Latini.
Quando non bastava il mio inglese, con le finniche impiegavo il latino. Nel 1966 riusciì a rimettere in moto l’automobile, che non partiva e tossiva come Violetta traviata e malata, chiedendo aiuto in latino a un magiaro di un villaggio dell’Ungheria profonda.
E poi: la giustizia di Esiodo, di Solone, di Eschilo, la pietà religiosa e umana di Sofocle, la mente che rende malato l’eroe del “sacrilego” Euripide, l’eroismo guerriero del poeta sovrano, la Paideia etica e politica di Platone, il momento opportuno di Isocrate, il piacere calcolato di Epicuro, la Provvidenza degli Stoici, il Nulla di troppo e il Conosci te stesso di Delfi l’ombelico del mondo. Nei Greci c’era in potenza già tutta l’Europa. Loro mi hanno insegnato ogni cosa: anche a piacere. Ai grandi autori europei devo in gran parte perfino i miei amori.
Cominciarono a cantare i vari gruppi divisi per nazioni. A turno. Ma non politicamente come si faceva noi tra il 68 e il 74. Cantavamo in coro Bella ciao e Bandiera rossa allora. Io credo nella bellezza, nell’arte e nell’amore, ma non senza politica. La presenza della polis è essenziale nella vita di un uomo che non sia un ciclope, un cannibale che mangia gli ospiti a pranzo e a cena.
Venne a parlare con me un’austriaca cui mi aveva segnalato Judith. Le aveva detto che mi piacciono Fassbinder e Wenders. Questa ragazza, Gudrun, una bionda, studiava cinema. Mi chiese se uscivo con lei a fare due passi. Fuori c’era odore di autunno, un’aria quasi fredda e un poco nebbiosa, Gudrun aveva diciannove anni. Pensai alla figlia finlandese perduta e alla possibile adozione di un’altra. L’ aborto perpetrato da entrambi mi aveva tolto la voglia di mettere al mondo una figlia. Rendere pregna una donna non è più il destino di chi ha perduto una figlia attesa dalla donna amata. Già a Ifigenia facevo un poco da padre sebbene avesse solo dieci anni meno di me. Tornato a Bologna, avremmo amoreggiato e saremmo andati al cinema, a teatro, in bicicletta insieme. Avremmo parlato, l’avrei educata e lei avebbe educato me.
Parlammo un poco dei film Falso movimento e Le lacrime amare di Petra von Kant, poi sorrisi alla ragazza bionda e mi scusai del fatto che volevo rientrare: sentivo freddo e rabbrividivo nella mia tunica leggera da sacerdote egizio, magari di Iside che Plutarco etimologizza con oi\da.
Un rimedio ai brividi di freddo poteva essere abbracciare quella fanciulla, stringermela al petto, ma non mi era sembrato il caso. Ogni cosa a suo tempo diceva la madre mia. Ifigenia, la mamma, la nonna già morta purtroppo, le zie, le “sorelle Materassi” secondo la mamma che ne era un poco gelosa. Sarei tornato presto da loro. Le sentivo tutte dentro e sopra di me. Erano presenti, mischiate con l’odore del bosco di Debrecen e con le stelle luccicanti sopra gli alberi immensi che svettavano sopra la nebbiolina autunnale.
Bologna primo giugno 2025 ore 11, 20 giovanni ghiselli
p. s.
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