sabato 28 giugno 2025

Ifigenia CXCIV Dialogo con Luciana a Cittadella. A Moena. Il Lusia e Pampeago. La nostalgia di una notte di Debrecen.

Alla fine del mese, presi dieci giorni di congedo e partii per Moena. Mi fermai a Cittadella per salutare l’ex allieva e carissima amica Luciana. Faceva freddo e pioveva. Andammo in un'osteria a parlare. Quando le dissi che avevo scritto un dramma, mi incoraggiò: "Da te me l'aspettavo. Tu puoi realizzarti solo se dai vita ai tuoi fantasmi, ai sogni che ricavi dalle esperienze; sono più reali della realtà, siccome ne contengono il succo, le quintessenze". Le dissi che il mio scopo era politico: cambiare i gusti della gente corrotta. Rispose che nella scuola media di Carmignano, quando avevo venticinque anni, ci ero riuscito; a trentacinque potevo farlo in un liceo di città; a quaranta o a cinquanta nell'intera nazione. “Dovrei arrivare a cento, per lo meno” risposi.

Mi chiese di spedirle una copia della tragedia: era sicura che le sarebbe piaciuta. Partii rinfrancato. Arrivai all’hotel La Campagnola di Moena che era tempo di cenare. Mangiai in fretta, ma poi dovetti rinunciare alla passeggiata attraverso la valle poiché pioveva a dirotto. "Non smetterà mai, mai ", aveva detto Ludwig osservando le nere nuvole acquose da una finestra dell’edificio adibito a carcere e manicomio dov'era stato recluso. L’acqua scura del lago della sua morte ne raddoppiava l’immagine cupa. A letto mi dissi: "Questa è la terza volta che vengo a Moena solo, da quando sto con Ifigenia. La prima, mi angosciava il pensiero della sua fedeltà, soprattutto corporea; la seconda quello della sua verginità e condizione sociale; questa volta ammetto solo questioni di amore e di arte, ossia di spirito, non di imene o di soldi".

Tuttavia mi chiedevo se il cuore e la mente di quella ragazza fossero degni della sua carne o se ne smentissero la venustà. Non sapevo trovare la soluzione e recitai: “Oh! Questa vita sterile, di sogno!” Poi, rassegnato, mi  mi addormentai. 

Il primo marzo del 1981, mentre sciavo sulle nevi del Lusia, pensavo a Ifigenia. Quella ragazza, più di ogni donna, mi aveva spinto ad agire per diventare migliore secondo il corpo e secondo la mente. Mi aveva indotto a scalare montagne impervie, a correre i 5000 metri in 18 minuti e venticinque secondi, mi aveva aiutato a vincere gare davvero olimpiche con gli altri e con me stesso, mi aveva reso un atleta del sesso con le sue magnifiche provocazioni. Perciò dovevo scrollarmi di dosso la rovinosa educazione della pretaglia sedicente cristiana che già aveva distrutto Ludwig II di Baviera, trasformando il suo ardente desiderio di baci in deleteri senso di colpa; e dovevo fidarmi dell'amore di lei che negli ultimi giorni oltretutto mi aveva teso una mano. La crisi che stavo attraversando non era una cosa solo cattiva poiché mi faceva riflettere; però oramai era tempo di uscirne per vivere meglio. 

All'ora di cena le telefonai riferendo questi pensieri. Sembrava disposta bene anche lei. Il due marzo andai sull' alpe di Pampeago, sopra Predazzo. Il sole non c'era e tirava un vento gelato. Avevo cambiato disposizione mentale, e non in meglio. Quando non abbiamo affetti sicuri, né un forte autocompiacimento, né un equilibrio saldo, il tempo atmosferico influisce più che mai sulla mente povera di equilibrio. Sul mezzogiorno, non potendone più dell'aria  fredda e scura, entrai in un rifugio di latta e di legno, riscaldato con una stufa. Quando mi fui seduto con una bottiglia di birra, una radio diffuse il canto antico di  Helena biancovestita: "Summertime, when the living is easy". Era facile e bella davvero allora la vita. Rividi il suo volto ridente nella notte d'estate sotto gli alberi strani tra le cui foglie biancheggiava la luna e comparivano or sì or no le stelle,  vaghe e luminose come occhi di ragazze timide eppure contente di un avvenire lieto, ricco di eventi meravigliosi. Dalla memoria, nel cuore gocciava il ricordo di quei giorni lontani. Per converso pensai che Ifigenia era stanca di me, io ero nauseato di lei, e il nostro rapporto era malato di lebbra. Con Helena  era una gioia vederci, andare a zonzo ogni giorno, era una scoperta parlare delle nostre vite e culture, lontane e diverse; ed era anche possibile lasciarsi andare, sia pure con garbo: giocare come bambini, senza sfiducia e sospetti. Poi era estate, i dì scivolavano lisci, dolci, senza dolore, verso tramonti purpurei, lunghe sere rosate, piene di voli; ogni notte la giornata felice terminava con un’apoteosi. Eravamo in vacanza, tra amici, l’ottimo Fulvio e altri pure bravi e buoni. Ci si voleva bene, ci godevamo la vita. Negli ultimi mesi invece, dovevo misurare ogni parola, siccome Ifigenia era pronta a criticarmi per sospetto che io volessi fare altrettanto con lei.

Confrontando le due situazioni distanti tra loro una decina di anni nel tempo e ancor più nel mio cuore, piansi di nostalgia e mi chiesi quando sarebbe rinata una situazione ricca di affetti e di eventi pieni di gioia. Pensavo alla guerra perenne che avevo dovuto combattere contro avversità dolorose spinto dal desiderio della felicità che poteva essere completa solo con una donna degna di me. Avevo ottenuto qualche successo parziale, anche tre o quattro trionfi, ma la vittoria definitiva[1] mi era sfuggita sempre. Però non avevo fatto del male a nessuno, e i progressi c'erano stati comunque. Perciò non ero fallito del tutto, e non ero cattivo. Finita l'antica canzone, uscii dal rifugio un poco ebbro di birra. Il vento si era addolcito. Guardai il cielo che si rischiarava sopra le montagne, umide per il disgelo e luccicanti nelle piante in attesa di dare alla luce del sole i primi germogli. Rimasi fermo a osservare, finché provai un sentimento di riconoscenza per la natura, per tutte le creature che mi avevano accolto con simpatia, e per la vita stessa che non mi aveva mai rinnegato del tutto.

 

Bologna  28 giugno 2025 ore 10, 58 giovanni ghiselli

 

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[1] Cfr. Tacito, Germania, 37: "triumphati magis quam victi sunt".

 

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