Pochi giorni dopo iniziò il nuovo anno scolastico. Ricominciavo in una quarta ginnasio dove insegnavo prevalentemente i rudimenti delle lingue. Dopo i primi tre anni di insegnamento liceale nel triennio, sentivo con pena che questo lavoro ginnasiale non era adatto a me. Eppure dovevo farlo bene senza aspettarmi in cambio le gratificazioni in termini di elogi che avevo ricevuto per un triennio dalle ragazze e dai ragazzi del liceo dove potevo interessarli dando il meglio di me con le parole e con le idee.
In quarta ginnasio dovevo fermarmi a lungo sui tecnicismi del greco e del latino, un lavoro che non mi piaceva poiché non era il mio, non era quello che avevo imparato a fare con anni di sacrifici, di studio continuo. Le nozioni di base che dovevo insegnare le conoscevo già da studente ginnasiale.
Tuttavia dovevo fare bene anche questo, senza borse di studio di nessun genere, tranne la soddisfazione di essere utile a quei bambini: me iustum esse gratis oportet pensai, ricordando Seneca.
I nuovi allievi erano trenta ragazzini da svezzare con spiriti, accenti, contrazioni, distrazioni, legge di Grassmann e simili.
A tale cumulo di nozioni volevo aggiungere delle idee per non annoiare me stesso e gli scolari. In effetti potevo insegnare anche i rudimenti delle lingue attraverso esempi tratti dalle frasi più belle degli autori più bravi. Stavo traducendo e commentando l’Edipo re di Sofocle per mio conto con l’intenzione di pubblicare questo lavoro.
La tecnica linguistica con il passare dei mesi doveva diventare letteratura e filosofia, come la filologia di Marziano Capella nel De nuptiis Philologiae et Mercurii.
Intanto, per impiegare proficuamente il mio tempo libero, leggevo e studiavo i grandi romanzi del Novecento che non conoscevo ancora e consideravo indispensabili a un uomo di cultura, nonché al mio repertorio di affabulatore e scrittore quale volevo diventare. Per giunta vi trovavo espressioni che contribuivano a capire il mio disagio: mi riconobbi nella frase di Musil a proposito di Ulrich che sentiva di essere “come un pescatore che getta le sue reti in un fiume asciutto”. Dovevo uscire dal pantano di inerzia dove mi trovavo, quasi fossi un punitore di me stesso: Heautontimorumenos di Terenzio o piuttosto Totò Merumeni di Gozzano.
Ifigenia al contrario viveva giornate più varie e attive e tornava a essermi cara, preziosa. Oltre la scuola di recitazione ne frequentava una di danza. Era molto interessata a quanto faceva e tornava a essere interessante per me. Così riprendeva potere nei miei confronti.
Dovevo riacquistare la sua ammirazione se volevo evitare un’altra dura sconfitta perdendola. La giovane aspirante attrice diceva che dovevo scrivere: il dramma ambientato nella scuola le era piaciuto, sicché mi chiese di proseguire e di farglielo interpretare appena possibile.
La pièce che piaceva a Ifigenia mi sollevò e aprì la strada al romanzo che state leggendo. Fino al giorno del giugno successivo in cui la mia Musa mi lasciò per un attore famoso, tuttavia non iniziai quest’opera grande e, credo, meravigliosa: una storia d’amore e pure ricca di vita politica e sociale, di educazione nella scuola e non solo, insomma di fatti, pensieri e sentimenti umani dove ciascun lettore può riconoscere qualche parte di se stesso e ritrovare tante esperienze proprie. La pubblicità con il suo martellamento vuole disumanizzarci, io dovevo scrivere pagine che ricordassero ai lettori di essere umani, li aiutassero a non perdere questa coscienza. Ora so che quando si comincia a scrivere un romanzo epico, cercando di renderlo storico e universale oltre che personale, razionale, preciso e nello stesso tempo meraviglioso con una sinergia di logos e mythos, predisponendosi ad anni di sacrifici, di rinunce a ogni piacere non funzionale all’opera intrapresa, ora so che quando si sente la necessità di questo concepimento e parto, si ode un tuono e si vede un lampo che chiamano a tale compito, quali segni del cielo, e non è possibile sottrarsi a questa chiamata imperiosa alla creazione di un’opera che richiede cure assidue ogni giorno come per un figlio bisognoso di ogni cosa, una creatura che si fa pensare sempre, esige l’attenzione piena, richiede tutte le energie necessarie alla sua crescita; si fa sentire anche nel letto quando non riusciamo a prendere sonno e pure quando domiamo. Perfino quando facciamo l’amore. L’entusiasmo di Ifigenia per quanto avevo scritto non durò a lungo. Verso la fine di ottobre notai un calo di interesse nei miei confronti. Il primo novembre, secondo anniversario del nostro inizio amoroso, scalammo insieme parte della dura salita che si inerpica su per il monte detto delle formiche. L’anno precedente, alla prima ricorrenza del natale erotico, vi eravamo saliti chiusi nell’automobile: allora le dissi che se avesse raggiunto quella cima in bicicletta, l’avrei sposata. In quel tempo azzardai tale promessa convinto che non ce l’avrebbe fatta mai. A questo punto invece temevo di essere lasciato e le chiesi di tentare la prova. Segni e contrassegni, prove e controprove: a ottanta anni vivo ancora così. Lo scorso agosto ho affrontato il giro del Peloponneso con il Taigeto. Pedalatore sempre più annoso, fino a quando non ne morirò. Sarebbe una bella morte: degna di me. il più tardi possibile tuttavia. Pensare che a venti anni invece volevo morire al più presto. “Tu non cedere mai”, mi dico oggi, a ogni ora. Ifigenia, non più tanto interessata a me, disse che non ce l’avrebbe fatta. Invece scalò due terzi dell’impervia ascesa nell’autunno che sto raccontando. “Al prossimo anniversario il primo novembre del 1981 compirai l’impresa e non ne morrai come le formiche”, le dissi. Quindi le recitai il distico che avevo letto in cima a una scalinata posta nell’abside della chiesa posta sulla cima del monte: Certatim volitant formicae ad Virginis aram Et simulac volitant victima quaeque cadit Il primo novembre del 1981era caduto già da diversi mesi il nostro sodalizio. Io mi trovavo a Pesaro da solo: la mattina fino a mezzogiorno scrivevo a penna un abbozzo della parte iniziale di questa opera, il pomeriggio andavo al mare prima che dal cielo scendesse il buio precoce. Osservavo i gabbiani che si posavano sulla sabbia umida o volavano sopra l’acqua giallastra nella bruma che calava implacabile mentre un relitto di sole mortificato appariva quale un lampione languente, a corto di gas. Gli uccelli famelici emettevano strida disperate. Di Ifigenia non sapevo più niente, nemmeno se fosse ancora viva o già morta. Oggi so che è l’una e l’altra cosa. E’ viva nelle parole che leggete.
Bologna 23 giugno 2025 ore 16, 51 giovanni ghiselli p. s. Statistiche del bolg Sempre1756090 Oggi700 Ieri1080 Questo mese18378 Il mese scorso14567 |
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