A mano a mano che i rapporti umani personali e politici decadono, cresce l’interesse per la natura.
Mezz’ora più tardi arrivai a Moena. Erano quasi le cinque e la mano santa del dio aveva lasciato tutta la valle di Fassa dopo la carezza della buona notte, però le cime dei monti continuavano a baciare le lunghe dita della luce mentre i larici e gli abeti dei boschi supremi, non più aggravati dal gelo, sembravano alzarsi in punta di piedi nel tentativo di cogliere gli ultimi raggi sfuggenti che si attardavano oramai quasi soltanto sulle rocce somme rendendole belle ed espressive come il volto di una donna intelligente e buona: una incapace di fare del male. Provai un moto di compassione verso la meschinità delle persone che cercavano di danneggiarmi.
Il paesaggio che aveva già confortato la mia infanzia trenta anni prima mi diceva che potevo e dovevo essere lieto: l’inverno era quasi finito e la primavera era già prossima a respingerlo, a cacciarlo via per tanto tempo, se alle cinque della sera quel colore di femmina umana, quel rosa vivo, quasi carneo, poteva resistere ancora agli attacchi del buio che, certo, avanzava, ma senza la forza e l’impeto travolgente che aveva avuto nei tre mesi precedenti quando, passate le quattro, il cielo si accieca lugubramente, le campane suonano a morto perché in quel tempo la gente lascia più spesso e meno malvolentieri la terra, come mi disse un becchino cortese del cimitero di Sansepolcro quando nel gennaio del 1978 accompagnai la nonna Margherita all’eterno riposo, pieno di gratitudine verso la carissima avia, non solo e non tanto perché mi aveva lasciato quasi un quarto della sua terra e avrebbe voluto lasciarmela tutta se avesse potuto, quanto per l’affetto più che materno, con il quale mi aveva sempre aiutato e per la stima che mi aveva confortato a diventare quello che sono, chiunque io sia.
La notte deforma ogni cosa. La prova di coraggio del bambino nel bosco
Con il calare del buio che toglieva i colori alle cose la pena recrudescente non veniva domata da pensieri lieti che pure avrei potuto nutrire nell'anima partendo dai fatti.
A Moena potevo riposarmi per diversi giorni deliziandomi nel notare la crescita dell'altezza del sole e dei minuti di luce; a Bologna mi aspettava pur sempre un'amante bella e giovane, un lavoro che mi motivava, e una collega che mi piaceva. Ma l'angoscia mi impediva di goderne. Non riuscivo a pensare con ottimismo. Un intermittente acciecamento mentale non mi lasciava la perspicacia necessaria per capire con mente lucida.
Mi fasciava gli occhi uno straccio che mortificava la santa natura.
Le rupi non più toccate dal sole, caduto del tutto, avevano cambiato aspetto: grigie com'erano, aguzze in cima e corrose nei lati parevano i denti cariati di un vecchio mal vissuto; le piccole alture rotonde, spelacchiate e divise da solchi sembravano gobbe di megere infernali o crani spaccati a randellate da crudeli sicari, l'erba dei prati fangosa e giallastra era il crine di un'anziana cartomante tosata dopo che aveva previsto sciagure. La punizione doveva significare a quella strega che aveva letto solo la propria sciagura. L'oscurità della sera mi deformava ogni cosa. Il senso di colpa mi segnalava ogni aspetto triste del mondo. Ifigenia aveva ancora bisogno del mio appoggio ma non mi sentivo di essere la colonna in grado di darglielo. Per giunta stavo alimentando una passione sciagurata diretta a un'altra donna che mi adulava per il proprio utile, probabilmente. Andai all'albergo La Campagnola dove avevo prenotato una stanza. Si trova sulla strada del passo San Pellegrino. Dalla finestra vedevo la valle di Fassa con le luci già accese: sembravano tanti lumini cimiteriali. Mi lavai, rilessi e ritoccai alcune battute del mio dramma sulla scuola, traendone qualche conforto, poi cenai frugalmente. Dovevo comunque fare del moto per non diventare deforme anche io. Quindi uscii per una passeggiata notturna. Scesi nel paese, passai sul ponte sopra l'Avisio, quindi iniziai l'ascesa dell' opposto pendio, l'occidentale, dove si trovano disseminate via via la chiesa, il cimitero, le case della frazione di Sorte, e dopo un altro chilometro la Malga Panna. Di lì inizia il grande bosco che arriva fino al passo di Costalunga e al lago Carezza dove si specchia la mole turrita del Latemar. Un percorso che mi era noto fin da bambino.
Sfuggito alle zie rimaste sedute alla Malga, arrivavo da solo al limite della selva che mi faceva paura: la trovavo inquietante per la varietà delle luci e dei colori: ombre giganti si alternavano a chiazze di luce che potevano coprirsi o scoprirsi secondo i capricci del vento. Pensavo alle donne irrequiete di casa mia. Quindi mi veniva in mente che a loro tenevo testa, e mi azzardavo a muovere alcuni passi nella foresta. Sul margine coglievo alcuni lamponi e li mettevo in bocca: succosi erano sotto la vellutata secchezza. Più avanti vedevo dei funghi ma questi non osavo assaggiarli: mi avevano avvertito che potevo morirne. Non procedevo subito: immaginavo la cupa foresta brulicante di fastidiose formiche punzecchiatrici, con gli alberi attraversati da lesti, graziosi scoiattoli, il cammino però insidiato da serpi, da lupi affamati, da orsi famelici, bestie avide di cibo e assetate di sangue. Poi però prendevo coraggio osservando gli uccelli: questi erano liberi e volevo esserlo anch'io. Per questo dovevo disobbedire alle zie imperiose e rischiare. Restare per almeno mezz'ora lontano da loro. Mi addentravo tra le ombre fitte, rabbrividendo, eppure dicendomi che non dovevo cedere. Mettermi alla prova dovevo, e vincere la paura. Quando giungevo a una radura, mi fermavo un momento per adorare il sole, poi tornavo indietro, di corsa, graffiandomi con i rovi irti o con i rami penduli, con i tronchi scagliosi; ferendomi se cadevo sui sassi. Fuggivo immaginando di essere inseguito da chissà quale mostro.
Quando sbucavo fuori da quell'intrico periglioso gridavo: "Ce l'ho fatta!"
Avrei ripetuto azzardi siffatti nei campi vitali dell'amore e del lavoro diverse volte in vita mia. Non sono mai stato prudente, come mi rimproverava la zia Giulia. Posso dire però che fino a oggi me la sono cavata.
Il 24 febbraio del 1980 dunque salivo di nuovo per il pendio di Sorte: passai accanto alla chiesa, di fianco al cimitero posto al margine del prato, salutai con il segno di un bacio i vecchi Moenesi conosciuti da bambino che ormai da tempo riposavano lì, poi mi incamminai verso Sorte, pensando che non avrei calpestato gli asfodeli se ci fossero stati. Così trasognato giunsi al paesino. Proseguivo percorrendo l’unica via in direzione della Malga panna. Era tutto buio e come sentii abbaiare un cagnaccio infuriato da dentro una stalla trasecolai e fui tentato di fuggire retrogrado giù per la discesa. Ma compresi che la belva era assatanata per il fatto di essere rinchiusa e probabilmente incatenata. Superato dunque il terrore dello sbranamento, l’orrenda morte per cane, bestia temuta fin da bambino, ogni tanto mi voltavo indietro, non più per il sospetto di essere inseguito da quel cagnaccio forse tricefalo debitamente rinchiuso, bensì per vedere se dai monti orientali del San Pellegrino o del Lusia spuntava la luna.
Il cielo era tutto sereno: le stelle brillavano come diamanti sul collo di una bellissima donna bruna. Mi diede conforto il ricordo delle creature belle, fini e miti che avevo incontrato. Magnifiche borse di studio. Helena dai capelli corvini dal seno ubertoso, materno. Mi ero sentito adottato e valorizzato da tale mater et magistra.
Speravo che la grande foresta già palestra del mio coraggio puerile e la luna vicina a spuntare da tacita selva, a gettare la propria luce sui boschi e sui prati, mi avrebbero dato un aiuto risolutivo della pena residua. Chiedevo soccorso alla natura sollevando la testa, osservando la purezza del cielo, i suoi lumi che gli alberi mi indicavano con le cime appuntite che vellicavano stelle e pianeti quando un soffio leggero di vento le faceva ondeggiare.
Seguivo i segni di quelle dita giganti cercando risposte ai miei dubbi. Le stelle più basse apparivano e sparivano tra gli abeti e i larici come le lucciole in mezzo alle spighe del grano quando sono ancora più verdi che gialle.
Recitavo e citavo sperando che la mia erudizione sofferta si trasfigurasse, che la congerie di nozioni diventasse educazione e forza e bontà, che sul mucchio di parole imparate si elevasse finalmente un’immagine di bellezza che confutasse per sempre la mia insicurezza, la mia infelicità non ancora debellata. Infatti riprendeva sempre la guerra.
Bologna 15 giugno 2025 ore 17 giovanni ghiselli
p. s.
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