Perciò quella mattina stessa partii per Pesaro. Desideravo rituffarmi nella mia solitudine antica. Poco tempo dopo però fummo invitati insieme a due matrimoni.
Il primo fu quello di Pinuccia nella campagna bolognese.
L’ex compagna di allegre serate di due anni prima, era anche una cara amica e non nutriva risentimenti di nessun tipo: sicché ci presentò al marito come la coppia più bella di Bologna. Le sono ancora grato. Ma il suo complimento riguardava soltanto l’apparenza: di fatto eravamo due amanti ormai stanchi, già avviati sulla strada dello sfacelo in agguato su un trivio fatale. Mancava meno di un anno all’exitus predestinato da sempre.
Era settembre: si avvicinava l’umido equinozio che offusca il sole, sbiadisce i colori e stringe il cuore. Dopo il tramonto, una bruma cinerea calava sui campi arati. Dentro di noi stagnava un’aria non meno grigia.
Cercavo qualche parola per non rattristrarmi troppo.
Ifigenia disse: “Gianni, l’estate che muore fa pensare alla fine di tutto. Anche noi andiamo là dove finisce “ogni altra cosa, dove naturalmente va la foglia di rosa e la foglia d'alloro”.
Mi piacque questa citazione di Leopardi e le risposi: “tu non sei una povera foglia frale, sei una magnifica ragazza: parlando e facendo l’amore, noi due sconfiggeremo la morte. Quando sono vicino a te questo imbrunire della giornata e della stagione non mi dispiace”.
“Neppure a me, e sai per quale motivo? Perché noi abbiamo la decadenza nel sangue”.
“Sì, è vero Ifigenia e ce ne compiacciamo siccome crediamo che dalla nostra putredine rinascerà la vita”. Ci tenevamo su con le parole e con l’aspetto. Lei era bella, io ero per lo meno “un lepido moretto” ben conservato.
Il secondo matrimonio cui partecipammo era celebrato nella chiesa di Moena. Si sposava una mia cugina acquisita, nipote acquisita di mia zia Giulia che da maestra all’estero aveva sposato un collega moenese.
L’equinozio era passato e nella valle di Fassa faceva già freddo. Ifigenia anche questa volta era venuta sprovvista dei vestimenti adatti al tempo e al luogo, perciò rabbrividiva, non senza disturbarmi. Nemmeno quel giorno era contenta di essere venuta lassù con me, né io ero lieto di avercela portata, sebbene la sua presenza al mio fianco fosse sempre un ornamento maestoso, parecchio elogiato da tutti.
Questo ci faceva piacere e non litigammo. La nostra attenzione del resto era attirata da alcune visioni che misero in secondo piano i contrasti.
Ifigenia, oramai intenzionata a lasciare l’insegnamento per fare l’attrice, osservava i visi e le movenze dei moenesi magari pensando che un giorno avrebbe potuto interpretare la parte di una forosetta fassana con i propri capelli trascolorati da una tinta rossiccia; io invece mi giravo per guardare il paesaggio nel crepuscolo quale appariva dalla porta della chiesa aperta sul lato destro verso il prato di Sorte che si oscurava sotto il cielo limpidissimo, e il bosco cupo. Volevo trovare una similitudine scrivibile o raccontabile.
Mi venne in mente il presepe che viene smontato dopo l’epifania quando tutte le feste sono già consumate e le candele con le statuine polverose vengono messe in un ripostiglio per il Natale successivo quando forse qualcuno tra i familiari sarà uscito di scena. Un altro exitus. Uno dei tanti.
Un’ora più tardi, mentre si era per strada andando verso la cena nuziale sotto un cielo annuvolato e completamente annerito, il paesaggio mi parve un’enorme teatro quando, finito lo spettacolo, vengono spente le luci e la gente va via.
A mia volta avevo deciso di scrivere e volevo allenarmi a trovare immagini per rendere del tutto chiaro ma nient’affatto ordinario e pedestre il mio stile.
Bologna 23 giugno 2025 ore 11, 52
giovanni ghiselli
p. s
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