lunedì 16 giugno 2025

Ifigenia CLVI. La fantesca seduttiva e l’attesa del treno alla stazione di Trento. L’insufficienza di tutto.

Sabato primo marzo Ifigenia volle venirmi incontro sulla via del mio ritorno alla stazione di Tento. Saremmo passati per il lago di Garda. Volevamo vedere la venusta Sirmio di Catullo e trarne auspici per le nostre vite, amorose e lavorative piuttosto travagliate.
Doveva arrivare alle 13 e qualche minuto. Era una giornata piena di sole potenziato dalla neve sui monti. Partii da Moena alle undici con il disappunto di perdere le ore più luminose e calde per andare da una che che non mi convinceva, né mi piaceva del tutto. Cercavo di consolarmi pensando: magari la primavera l’ha fatta rifiorire, e  vederla e toccarla dopo una settimana di pausa mi emozionerà.
Arrivai prima del treno come avevo calcolato per non farla aspettare.
Detesto fare aspettare perché i ritardi mi hanno sempre reso infelice.
Mi aspettavo che dal contatto rinnovato dopo il divorzio pur breve rinascesse qualche scintilla. Speravo che quella sera si sarebbe fatto del sesso abbondante se non altro.
Vero è che c’era stato un segno non buono riguardo al mio interesse carnale per Ifigenia. Una sera, tornato tardi dalla passeggiata sotto le stelle avevo trovato chiusa la porta dell’albergo. Sicché avevo suonato ed era venuta ad aprirmi una cameriera giovane, mora, carina, con la vestaglia aperta tanto da lasciare scoperte le cosce brune, agili, sode, fino alle mutande: una visione meravigliosa, paradisiaca quasi quanto quella del cielo stellato.
Ebbene l’avevo osservata con attenzione e simpatia non dissimulate, poi le avevo detto: “grazie signorina e complimenti” .
“Di che?”
“Di tutto. A domani”
Poi, salito in camera, l’avevo pensata con desiderio.
Un fatto nuovo che un anno prima non sarebbe accaduto.
Ero stato tentato di accarezzare almeno su una guancia la seduttiva fantesca.
Il giorno dopo provai a lanciarle un’occasione di fare del bene a me e a se stessa. Mentre bevevo il caffè nel bar dove serviva quella ragazza incantevole l’avevo indotta a chiedermi l’indirizzo di Bologna decantando le meraviglie della città. Quindi, da gesuita quale talora mi ritrovo a essere, ammaestrato dalle zie, le avevo dato il recapito della scuola per non sentirmi fedifrago. Tanto, anche se fosse venuta a cercarmi là, avrei trovato il modo di ghermirla, sognavo e speravo.
Intanto però aspettavo nella stazione di Trento. 
Un luogo triste. Si trova alla base di una collina bassa e spelacchiata, tuttavia causa di ombre umide e cupe. Sopra vi sorge e si impone alla vista un tempietto neoclassico  circolare e colonnato, un monumento all’irredentismo fautore di guerre e di stragi. Quando il treno arrivò, Ifigenia non ne scese: o l’aveva perduto oppure stava procedendo verso il Brennero per assecondare un ferroviere cuccettista che l’aveva attirata.
Il treno successivo da Bologna arrivava alle cinque. Mi vennero in mente gli appuntamenti mancati da mia madre. Quando ero bambino e l’amavo al di sopra di ogni altra donna, avvisava che sarebbe arrivata il tal giorno con il tal treno. Il nonno Carlino, “il su’ babbo”, mi portava alla stazione: eravamo entrambi felici di vederla. Però tra quelli che scendevano dal treno la madre mia non c’era.
Quando tornavamo a casa il nonno gridava “fiasco!” probabilmente perché gli piaceva il vino. Io rimanevo sconsolato e desolato. Le zie dicevano: "che ti importa? Noi siamo qui”. Ma per me non era lo stesso: la mamma era più giovane, più bella e meno imperiosa di loro, meno severa con me. Con se stessa per niente. Una volta Ifigenia mi disse che ero attirato dalle donne giovani siccome mia madre era infantile. Un’osservazione non sciocca.
La mamma quando gliela riferii rispose: “ma fai stare zitta quella vera fallita!” Eva contro Eva, pensai, ricordando un bellissimo film che la mamma mi aveva portato a vedere quando ero piccino.
Nel marzo del 1980 avevo trentacinque anni suonati e non ero più disposto a subire maltrattamenti da chicchessia. Dunque decisi di andare a sciare sulla vicina Paganella. Sarei tornato al treno successivo e se non fosse arrivata nemmeno con quello, tanti saluti! Sarei andato subito a Bologna e avrei telefonato alla fantesca dalle cosce stupefacenti.
  
Poco prima delle 17 ero di nuovo alla stazione di Trento. La attendevo per accoglierla, posto che fosse arrivata, con un sorriso non privo di spregio.
Questa volta arrivò, bella e guardata dagli uomini, come al solito. “Però, non è il mio tipo pensai”. Bella sì, ma poco fine. Helena, Kaisa e Päivi erano altre persone, altri gevnh, razze spirituali diverse: studiose, educate, capaci di amare, di parlare e di stare zitte:  amorem amoenitatemque  exercentes [1].
Si scusò dell’errore grossolano: il treno per venire da me partiva dalla stazione occidentale mentre lei lo aspettava in quella centrale.
Ma forse era una menzogna. Aggiunse delle falsità dolciastre.
 
Avevo imparato da Freud che gli atti mancati non sono mai casuali. Ne ero convinto perché l’avevo verificato vivendo. Probabilmente colei voleva andare da tutt’altra parte. Incosciamente si dice, e di fatto il suo Io veniva spesso invaso dall’Es. Né era propensa a bonificare il pantano dell’inconscio, a estendervi la parte cosciente poiché era convinta che l’attore bravo deve assecondare l’istinto.
Quello recitativo non le mancava, però non aveva la potenza espressiva dello sguardo e del tono di tutta la persona.
 
Di questo però non facemmo parola, quel giorno. Dissi invece che avevo impiegato benissimo il tempo dell’attesa andando a fare un’altra sciata a Fai della Paganella dove iniziano piste meravigliose che giungono fino ad Andalo. Ifigenia raccontò che aveva parlato con Lucia denominata “la fedelissima”.  Non sapevo di che avessero chiacchierato, né glielo domandai. Provai comunque un’allegrezza scellerata pensando che quelle due, una già avvelenata dal desiderio di successo, l’altra ancora da scoprire, solidarizzavano sotto l’immagine della mia persona, celebrata in qualche modo da entrambe. Ma probabilmente avevano fatto solo del pettegolezzo comaresco, magari non senza intrighi.
Di fatto nessuna delle due studiava sul serio e volevano fruire dei miei lavori sudati sui libri, fino a quando sarebbe servito.
Ifigenia poi disse che a Verona era salito sul treno un uomo distinto e l’aveva corteggiata fino a chiederle l’indirizzo: invano. Non feci alcun commento e pensai: “Troppo tardi, ojyev, come dice Dioniso a Cadmo[2]: quando occorreva, tu non hai voluto sapere di riservatezza e rispetto”.
Ci fermammo sul lago di Garda. Non c’era un filo di vento e il Benaco non sorgeva con flutti e fremiti marini come favoleggia Virgilio[3].
Non era tempo di favole: fremevo di sdegno e disgusto piuttosto.
La faccia di Ifigenia era ottusa e inespressiva. Ero certo che il suo fascino non fosse sufficiente per sostenere la sua ambizione.
Arrivati a Bologna tentammo un contatto carnale. Come fummo nel letto però, non riuscivo nemmeno a desiderarla con forza. Quella sera lontana, nel talamo grande dove avevamo gridato di piacere e di gioia, nel giaciglio martire cui una volta si era spezzata una gamba incapace di reggeri i nostri tripudi festosi e sacri, la sera del primo marzo, dopo una settimana di astinenza, facemmo l’amore una volta sola senza fatica, mentre la seconda avvenne con stento e con sforzo. Dovetti pensare ad altro. Non eravamo arrivati nemmeno alla sufficienza. Spensi la luce. Mi girai verso il muro. Poi lo toccai con un dito per avere la certezza di essere ancora vivo . Ifigenia  piangeva.

 
Bologna 16 giugno 2025 ore  9, 50 giovanni ghiselli
p. s
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[1] Cfr. Plauto, Miles gloriosus, 656, in grado di praticare l’amore e la piacevolezza.
[2] Cfr. Euripide, Baccanti, 1345
[3] Cfr. Virgilio, Georgica II, 160

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