Il giorno
seguente facemmo un’altra pace provvisoria e precaria.
L’intermittenza sentimentale del nostro rapporto era la conseguenza del terreno
sismico dove lo avevamo fondato malamente quasi due anni prima.
Tanti mesi
di scosse iniziate presto.
Il 2
luglio dunque ci incontrammo per caso in via Ugo Bassi. Mi sentivo già scapolo
e guardavo le donne. Ero in forma: snello, abbronzato, con le gambe - il mio
forte - lasciate in buona parte scoperte da calzoncini corti e mi capitava di
venire contraccambiato da sguardi di simpatia. Talora ci scappava anche un
sorriso: l’eterno, meraviglioso, richiamo dei sessi che infonde gioia se
reciproco. Non c’è niente di meglio al mondo.
Mentre non
c’è cosa più amara che l’indifferenza delle donne convesse ai nostri sguardi
che le vezzeggiano.
“Ma sì -
pensavo - posso fare benissimo a meno di quella. Ce n’è tante di femmine in giro
anche attraenti non meno di lei e non così fastidiose”. Un pensiero che sarebbe
stato spesso contraddetto dagli incontri degli anni seguenti.
A un tratto
la vidi. Si avvicinò con aria giuliva e disse: “Ciao bello, che cosa fai qui?”
Rimasi di stucco: non sapevo come reagire.
Lo capì e
volle togliermi dall’incertezza dando segni di sicura benevolenza.
“Ti sei
perduto nella nostra città, amore mio?”
“Oggi recita
la parte della persona ilare e
innamorata” pensai e stetti al gioco. Le accarezzai la faccia e risposi: “Non
mi sono perduto. Temevo di avere smarrito te. E ti cercavo”.
Quindi mi
diedi a canticchiare: “Io cerco la Titina, la cerco e non la trovo…”
“Io invece
cerco te” fece lei . Così, attorialmente, ancora una volta raccapezzammo i cocci del
nostro rapporto.
Il resto
del mese andò bene tra noi siccome ci vedevamo poco: io stavo a Pesaro per lo
più, Ifigenia a Bologna seguendo le lezioni del suo maestro alla scuola di
recitazione.
Era il
frequentarci nell’ozio che ci faceva litigare.
Il 19
andai nella valle di Fassa con Fulvio e
le nostre biciclette smontate e sistemate nella sua automobile. Avevamo deciso di scalare il Pordoi da
Canazei alla cima, la nostra cima Coppi: 12 chilometri circa di salita
pedalabile invero con rapporti da andatura non troppo lenta.
Fulvio mi
superava in discesa ma in salita non teneva il mio passo, sicché dovevo
gareggiare con me stesso: ridurre ogni giorno il tempo impiegato. Già da
bambino avevo una forte volontà agonistica che significa sentire il bisogno di
primeggiare sempre e non cedere mai là dove si ha del talento.
Fin dalla terza elementare avevo individuato i
miei due talenti: le lettere e la bicicletta e volevo utilizzarli, potenziarli,
avvalermene nella vita.
Al primo
tentativo impiegai un’ora e un minuto usando il 25. Non ne ero contento. Quindi
giurai che il giorno dopo ci avrei riprovato con il 21 per scendere sotto l’ora
per lo meno. Arrivai in 48 e 28. Me ne vantai con Fulvio e dissi: “lo dovevo a
me stesso”.
“Sei un
fanatico e un tiranno di te stesso” fece l’amico che ha sempre cercato di
calmare le mie frenesìe.
Un’altra
volta scalammo il San Pellegrino, nove chilometri di salita da Moena, senza
tornanti e con pendenza maggiori.
A metà
percorso fui inseguito da due cani feroci che mi costrinsero a uno scatto da
ghepardo per salvarmi la vita.
Dovetti
aspettare Fulvio al passo, ma l’amico mi distanziò in discesa. Mia sorella che era a Moena e ci aspettava in
paese, quando arrivai diversi minuti dopo l’amico, mi canzonò con un
pesaresismo simpatico e pure nobile come
ogni cosa antica: “ Fulvio in discesa ti ha dato le seppie”. Significa:
ti ha battuto sonoramente. Le seppie doveva essere stato un cibo da poveri
nella nostra città, non so quando.
Mi venne
in mente una volta che venni sconfitto in una partita di tennis, uno sport per
il quale ero negato: troppo poverello, in tutti i sensi, sono io per tale sport. Di gran
moda da qualche tempo. Una volta i
borghesucci che volevano sentirsi simili ad Alessandro Magno e ad altri
principi guerrieri andavano ridicolmente a cavallo nei maneggi. Oggi il tennis
va per la maggiore. Chi cerca un’identità gregaria deve sempre imitare chi
vince. Io da bambino mi specchiavo in Fausto Coppi, non perché vinceva giri,
tour e altre corse, bensì per il fatto che staccavo tutti in ogni salita come
faceva lui.
Ebbene, quello della brutta partita mal giocata era un bel giorno di primavera avanzata,
nel 1960 più o meno, e gli uccelli tripudiavano tanto sugli alberi quanto nel
cielo.
Dissi al
rivale che stava infliggendomi una sonora sconfitta: “Maurizio, senti gli
uccelli quanto cantano oggi?” “Io sento
le seppie” rispose salacemente l’antagonista e compagno di scuola nella ginnasio Terenzio Mamiani di Pesaro.
Da quel
giorno fatidico non giocai più a tennis: non era sport per me.
Bologna
11 gennaio 2025 ore 10, 49 giovanni ghiselli
p. s.
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Già docente di latino e greco nei Licei Rambaldi di Imola, Minghetti e Galvani di Bologna, docente a contratto nelle università di Bologna, Bolzano-Bressanone e Urbino. Collaboratore di vari quotidiani tra cui "la Repubblica" e "il Fatto quotidiano", autore di traduzioni e commenti di classici (Edipo re, Antigone di Sofocle; Medea, Baccanti di Euripide; Omero, Storiografi greci, Satyricon) per diversi editori (Loffredo, Cappelli, Canova)
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