Il quattro marzo era un giorno ventoso, e così freddo da scorticare le capre. Era una pena salire con la seggiovia e scendere con gli sci, sempre agghiacciato dal vento che soffiava vortici duri di gelo sulla mia povera faccia e sui visi cagnazzi 6 degli altri sciatori, lividi come le pietre dei monti. Mi sforzavo di cacciare via i pensieri cattivi, di ripararmi dalle loro trafitture impietose. Ma quelli, sempre vivi 7, continuavano a pungermi, senza concedermi un momento di tregua. Per contrastarli, mi domandavo: "Cosa starà facendo adesso nella sua scuola per aspiranti attori la zingara dionisiaca amata mihi quantum amabitur nulla? 8: sarà interpellata, starà seduta sul banco oppure appoggiata a una parete? Beati voi banchi e pareti che reggete il peso soave di quella ragazza!” 9 Mi sforzavo di rinvigorire i sentimenti amorosi stanchi e malsicuri attingendo espressioni dal repertorio di frasi belle imparate. Ciò nonostante i pensieri malvagi non cessavano di pullulare, non smettevano di brulicare nel cervello, quale sciame di insetti molesti o groviglio di vermi schifosi. Mormoravo: "Ifigenia non è la mia donna ideale: non è luce per me 10 , né io lo sono per lei. Di corpo è bella assai ma il suo viso è poco espressivo. Ed è proprio l'intensità dello sguardo che mantiene vivo a lungo l'interesse erotico e umano!". Il pungiglione velenoso di quelle bestie immonde superava la resistenza delle parole dei maggiori autori accrescitori dell’anima mia, scendendo a fondo nella mia povera carne, trapanandola senza pietà. Il pomeriggio si fece vedere il sole che colorì il cielo, la terra e la mia faccia, dandomi grande conforto. Pensavo: "Ifigenia è viva e composita come questa natura. L'una e l'altra sono fatte di splendidissimo sole e di nuvole fosche, di vento aspro e di sorridente bonaccia. Del resto la pena e la gioia circolano dentro tutti noi come i giri del cielo. Non rimane fissa per i mortali né la notte stellata, né la sorte cattiva, né la salute, ma rapidamente mutano ". La sera le riferii soltanto il meglio di ciò che avevo pensato. Disse: "Tu sei intelligente gianni. Io ti amo". "Anche io" conclusi. In quel momento ero sincero. Se era capace di apprezzare la mia intelligenza, non poteva che amarmi. Quella notte il cielo era tutto sereno e le stelle brillavano con speciale vigore sopra la valle di Fassa. Uscii e scesi verso Moena. Arrivato in paese mi fermai qualche minuto per osservare l’acqua del fiume Avisio. Sono cresciuto sul mare e l’acqua mi ha sempre attirato. E’ la forza della simpatia che mi attrae non solo verso quella tremolante o liscia o infuriata della marina ma pure a quella dei fiumi che mormora fluida e mi suggerisce parole. Siamo composti di acqua in non piccola parte e osservandola ritroviamo qualcosa di noi, di connaturato, di antico, forse addirittura di prenatale. Compiuto questo pensiero, attraversai il paese e cominciai a risalire la china dall'altra parte lungo la via da dove il pomeriggio del giorno prima avevo osservato un cielo umido e sporco, quasi fangoso. Sotto il firmamento pulito, la terra era diversa, e io mi sentivo un'altra persona. Dopo il cimitero, il viottolo non era più illuminato da lampadine, sicché, camminando, potevo contemplare le stelle senza disturbo: erano splendidissime come la mia compagna vivace. Passato il paesino di Sorte, c'è un chilometro di buio solitario e scosceso. Dalle ultime baite si udivano ululati cupi e rauchi ringhi di cani feroci, le bestie che mi hanno sempre fatto paura per averne subito più volte gli assalti. So che contraccambiano l’orrore e la paura che ho di loro ma questa coscienza non basta a pacificarmi con tali guardiani ostili alla mia umanità innocua nei confronti della roba da loro custodita con rabbia aizzata dai loro padroni contro chiunque si avvicini. Altre volte percorrendo quel sentiero ripido e tetro, avevo pensato con orrore ai miei fallimenti sentimentali, all'isolamento affettivo e sociale in cui mi trovavo, all'ora della mia morte senza conforto di donna e di figli. E avevo avuto paura. Ero anche fuggito retrogrado. In quel momento invece non retrocedevo: non mi terrorizzavano i latrati frenetici, e non mi spiaceva punto la mia solitudine stabilita da sempre, a me congeniale, connaturata con me come l’acqua del mare, dei fiumi e delle fonti. Oramai pensavo che la mia morte da solo magari steso nel letto di un ospizio sarebbe stata la più eroica di tutte le fini possibili, la più adatta a me, la più bella. Sbranato dai cani però no: questo era orribile assai. Sicché procedetti avendo visto i loro covi serrati, la strada non imporporata dal sangue fatto scorrere da quelle perfide zanne, e resomi sicuro del fatto che pur latrando e raspando quei bruti non potevano uscire per uccidermi. Sentivo una forza lietificante, una luce di amore e di giustizia che mi consolava dei fallimenti parziali e mi rendeva sicuro del bene che avrei fatto durante il resto della mia vita mortale. E pure da morto. La questione della verginità e della condizione economica di Ifigenia, di qualsiasi donna, diventava ridicola e falsa. Poteva riguardare i pregiudizi di gente in vari modi depressa, malvissuta e i ministri perversi di una religione capovolta, non me, non Dio, né Gesù Cristo e sua madre. Una splendida ragazza madre. Helena e Päivi, le due donne più amate durante la relazione con me erano ragazze incinte. Dovevo usare il metro dell'intelligenza e dei sensi per misurare la mia compagna, non i luoghi comuni. Queste erano le riflessioni giuste, poiché mi davano forza e coraggio. Gli ululati, che pure si facevano più rumorosi e frequenti, non mi impaurivano. “Tacete maledetti lupi, chiusi a chiave nel vostro girone di bruti”, pensai. Vedevo le fiaccole vive del cielo, osservavo le montagne scure, slanciate e profumate, pensavo alla figura, alla pelle di Ifigenia. In me c'era un'anima viva che si sentiva armonizzata con la santa natura. Bologna 28 giugno 2025 ore 18, 58 giovanni ghiselli
6 Cfr. Dante, Inferno, XXXII, 70-72:"Poscia vid'io mille visi cagnazzi/fatti per freddo; onde mi vien riprezzo,/e verrà sempre, de' gelati guazzi". 7 Cfr. Sofocle, Edipo re, vv.481-482:" ta; d j aijei;zw'nta peripota'tai ", maquelli, sempre vivi, gli volano addosso. 8 Amata da me quanto nessuna mai lo sarà. Cfr. Catullo, 8, 5. 9 Cfr. Shakespeare, Antonio e Cleopatra, I, 5:"O happy horse, to bear the weight of Antony!", beato cavallo che porti il peso di Antonio! 10 Cfr. Iliade, XVIII, 102. |
Già docente di latino e greco nei Licei Rambaldi di Imola, Minghetti e Galvani di Bologna, docente a contratto nelle università di Bologna, Bolzano-Bressanone e Urbino. Collaboratore di vari quotidiani tra cui "la Repubblica" e "il Fatto quotidiano", autore di traduzioni e commenti di classici (Edipo re, Antigone di Sofocle; Medea, Baccanti di Euripide; Omero, Storiografi greci, Satyricon) per diversi editori (Loffredo, Cappelli, Canova)
sabato 28 giugno 2025
Ifigenia CXCVII. La sciata diurna e la passeggiata notturna.
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