Salìi sul tram e tornai nel collegio dove indossai il mio decennale vestito di lino bianco. Quindi andai alla festa conclusiva del corso.
Dalla scala che scende nella grande sala, lo spazioso centro dell’Università che per me era stata per anni l’ombelico del mondo, vidi quel mevgaron pieno di gente immersa in un’atmosfera satura di un’allegria nervosa e spiacevolmente chiassosa. Mi diedi a osservare i volti cercando qualche faccia bella come quella di Helena che mi era apparsa nel 1971, otto anni prima: grande mortalis aevi spatium.
Vedevo però visi stravolti di giovani ossessi e vecchi ubriachi. Alcuni ridevano con rabbia o urlavano beceramente, altri piangevano sommessamente, poi si asciugavano occhi, ciglia e guance con i tovaglioli inzuppandoli. Altri ancora divoravano torte dolci e salate con ingordigia smisurata, da cormorani.
Quanto mutati da quelli che cantavano lieti sull’erba ai raggi miti e silenti di Artemide casta! A quel prato rispondeva la finestra dove si affacciava Helena, la diva mia, aspettando il mio arrivo. Ci arrivavo di corsa, felice.
“Felìcita! Oh veramente Felìcita, Felicità” ricordavo[1]
Da allora era passato già tanto tempo, una grossa porzione della rapida vita mortale. Eppue quel paradigma celeste fondato sull’esistente troneggiava ancora sull’anima mia.
Notai un giovanotto grasso e pelato: la pancia straripava dalla camicia e dalla cintola in giù. Le fauci erano enormi, dilatate dal vizio bestiale.
Inghiottiva pogácsok e cioccolatini senza pause. Quando non ce la fece più, lambì la bocca con lingua vibrante da serpente strapieno, ruttò e stramazzò sul tavolo con il grugno che eruttava di tutto.
“Ecco il mostruoso costituito da uomini retrocessi a bestie: gli eterni nemici della bellezza e della cultura, latori del caos. Come i Ciclopi, non conoscono leggi, non fanno vita politica, non si curano l’uno dell’altro.
Quando arrivai a Debrecen nel luglio del 1966 stavo per avviarmi su quella strada. Però ne sentivo talmente il dolore da capire che se non ritrovavo la mia via, la methodos del cammino giusto, sarei morto. Avevo bisogno di una mano per farcela. Me la diedero Fulvio, Danilo, Alfredo, Claudio, Luigino, tutto l’ambiente di allora e l’atmosfera del tempo seguentie quando si diffusero la benevolenza, la solidarietà, l’educazione al rispetto. Andò avanti così per cinque o sei anni. Nel ’71 Helena mi disse che amava l’umanità con amore umanistico. Ne fui incoraggiato: sentivo di fare parte dell’umanità e avevo intuito che l’amore umanistico della bella signora finlandese si sarebbe diretto alla mia umanità.
La sera dell’ultima festa del 1968 Claudio ci rivolse una domanda retorica: “è finita Debrecen questa sera?”
Rispondemmo in coro, con una formula coniata nel 1966: “macché finita : si sta bene a Debrecen, bisogna tornarci!”
“Sicché ci vedremo ancora qui alla festa della conoscenza il prossimo luglio, dopo undici mesi di esilio” fece Bruno.
Allora intervenne Silvano: “non dimentichiamoci di presentare in tempo la domanda per la borsa di studio”
“Sì” precisò Alfredo “ chiederemo lezioni di lingua e letteratura ungherese non senza vittu e aloggio”.
Poi guardava me reputato uno specialista e non solo perché stavo preparando la tesi sulla poesia ungherese del Novecento e avevo dato un esame di filologia ugrofinnica in giugno.
Vittu è parola finlandese che significava molto per noi maschi di allora. In latino, lingua nobile e antica è cunnus. In greco, lingua ancora più antica e nobile è su`kon, come in italiano al postutto.
Nascita copula e morte: le tre grandi tappe.
Ci si riprometteva dunque di tornare per la terza volta, “anzi ogni estate –aggiunsi- prima che la Moira funesta di Morte crudele ci colga”.
Il giorno successivo alla festa del congedo, durante l’ultima colazione nella mensa già semivuota, Claudio diceva alle cameriere, tristi perché eravamo in partenza. “A vìszontlátásra jövore!”, arrivederci all’anno prossimo!
Quelle ragazze anziane ridevano contente e rispondevano: “A vìszontlátásra, szervusztók, csokolom fiúk! , arrivederci, ciao, un bacio ragazzi!
E Claudio, sempre nell’idioma magiaro che conosceva bene, diceva alla caposala, una sessantenne più o meno: “ciao ragazza, bel seno!”.
Lei sorrideva e camminava più che mai pettoruta, tutta contenta.
Andò così fino al 1972, poi sempre meno cordialmente, simpaticamente, umanamente. Le stragi perpetrate per anni hanno raggiunto lo scopo voluto di renderci diffidenti, paurosi gli uni degli altri, ciascuno chiuso nel suo angusto, meschino privato egoismo. Io non ne sono stato capace: ho continuato a vivere, studiare e lavorare per gli altri, per i figli degli altri.
Viviamo sempre più isolati, oppure come bestiame d’allevamento, racchiusi in recinti dove conduciamo una vita connotata e decisa da macchinari manovrati da mostri. La tecnologia che dovrebbe essere solo un qualche sapere oggi è reputata più della nostra umanità.
Io chiedo aiuto agli autori classici che mi diedero conforto al dolore quando avevo ventanni, e ogni volta che di mattina e di pomeriggio li prendo in mano per studiarli, li prego: venite anche ora[2], aiutatemi ancora!
Bologna primo giugno 2025 ore 10, 36 giovanni ghiselli
p. s.
Questo è il link per seguire da lontano la conferenza su Omero che terrò lunedì 9 giugno dalle 17 alle 18, 30 nella biblioteca Ginzburg di Bologna. Presenterò i primi quattro canti dell’Odissea con la Telemachia.
E’ tutto gratuito ma è gradita la prenotazione per il conteggio dei posti.
https://meet.google.com/wwe-depo-vzp?authuser=0&hs=122&ijlm=1747908475519
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