venerdì 20 giugno 2025

Ifigenia CLXVIII Lupi, cani e uomini. La malga Peniola. L’afrodisiaco orrendo della cagnara.

Lupus est homo homini, sive potius homo homini deus si suum officium sciat
 
Ci vestimmo  in modo da non prendere freddo e uscimmo.
Sotto le stelle, le rocce e gli alberi della foresta sentimmo i limiti delle nostre anime recintate da fili spinati: pregiudizi, ignoranza, rancori e dolori che ci rendono stupidi, vili e feroci.
 
Il giorno seguente comprai le necessarie scarpe di gomma. Quindi andammo a fare la passeggiata per la quale si era litigato, ciecamente, la sera prima. Arrivammo alla Malga Peniola situata in fondo a un sentiero situato sopra la strada che da Moena porta a Predazzo.
 
Il marzo seguente ci sarei tornato da solo in una sorta di pellegrinaggio per sovvenirmi di lei.
Non era ancora arrivata la primavera lassù e c’era la neve dove sdrucciolavo mentre soffrivo l’assenza di Ifigenia in modo implacabile e atroce
Davanti a questa Malga c’è una chiesetta minuscola, un luogo sacro dove mi reco ogni anno a trarre auspici, di solito senza chiedere né augurarmi eventi impossibili e implausibili.
 
Ma quella mattina di piena estate  avevo di nuovo la mente offuscata e Ifigenia non era più lucida di me. Eravamo in mezzo alla natura vestita a festa dal dio che la inondava di luce e calore. Noi due eravamo di nuovo pieni di risentimenti reciproci. La ragazza non vedeva niente di bello in quel culmine della vita dell’anno. Si lamentava di essere stanca. Non faceva domande né  diceva parole interessanti. Mi sembrava di camminare con un bagaglio gravoso e opprimente. Mi sentivo quale bestia da soma gravata da un basto pesante.
Mi ero assoggettato a un peso eccessivo costituito da una persona bella, ma tutt’altro che fine.
“Volgare è tutto ciò che non parla allo spirito e non suscita altro interesse se non quello dei sensi”. Parole veraci di Thomas Mann[1].
In un luogo deserto facemmo l’amore pur di fare qualcosa. A un tratto si mise a piovigginare da una nuvola arrivata inopinatamente sopra il bosco.
Mancavano solo minacce di orsi o di cani randagi affamati e infuriati.
Mi venne in mente una volta quando tre bestiacce furiose mi avevano inseguito arrivando vicini ai polpacci miei con le zanne omicide. Mi ero già dato per morto. Ma poi avevo reagito con l’istinto di sopravvivenza e con pedalate furibonde più  delle corse di quegli animali assassini. Il cane può essere amico o nemico dell’uomo.  Come la donna e come l’uomo per l’uomo.
Canis homo homini, ho pensato spesso. Il lupo è meno pericoloso.
Quel giorno, dopo avere rischiato la morte per cani, mi venne in mente una preghiera funebre molto bella:
“Chiamate il pettirosso e lo scricciolo, che volano sopra i boschetti ombrosi, e con foglie e fiori coprono i corpi soli al mondo degli insepolti. Chiamate al suo lamento funebre la formica, il topo dei campi e la talpa, che levino mucchi di terra per tenerlo caldo e quando le ricche tombe vengono depredate non soffra danno:
But keep the wolf far hence, that's foe to men,/For with his nails he' ll dig them up again"[2], ma tenete lontano il lupo, che è nemico degli uomini, altrimenti con le sue unghie li dissotterrerà.
Ho sempre modificato queste parole di Webster sostituendo dog a wolf.
 
 
Nel pomeriggio partimmo. Quando fummo arrivati a casa mia, dopo un viaggio penoso, ci buttammo nel letto senza alcun desiderio. Eppure aleggiava la voglia di un nuovo litigio che generasse altre emozioni cattive quale afrodisiaco orrendo.
La scintilla la diede il telefono alle dieci di sera. Non l’avevo staccato perché potevano chiamarmi da Pesaro.
Mentre tentavamo da seminudi un già difficile approccio, sentimmo suonare. Andai a rispondere ma non c’era nessuno. Erano stati squilli del destino che ci avvisava: è ora di litigare, tempus altercandi,
Infatti, come fui rientrato in camera, la contubernale adirata stava rivestendosi in fretta .
“Aspettavo una telefonata importante da mia madre ma non c’era nessuno” dissi per giustificami. Invano.
“Prima di venire a letto con me, devi staccare o silenziare il telefono” urlò come abbaiando, caninamente appunto.
Il mio antico terrore dei cagnacci furiosi e l’eterna paura dell’autonomia minacciata mi fecero reagire con rabbia
“No, bambolina cara, 'tu devi' a me non lo dici, soprattutto in casa mia e nel mio letto”
“Allora portami subito a casa mia”, ribatté la megera.
“Immediatamente” risposi e ci rivestimmo in fretta e furia.
Aveva un abito rosso che assecondava e valorizzava le sue forme incensurabili. Bella nel corpo era bella, particolarmente bella.  
Però quella sera mi apparve soprattutto cattiva. La vera satanessa. La portai a casa in fretta e la feci scendere dall’automobile senza nemmeno salutarla. Eranno le 10 e cinquanta del primo luglio 1980. Credevo che fosse l’ultimo minuto della nostra storia. Invece mancavano undici mesi e dodici giorni di tribolazioni intervallate da alcune gioie sporadiche e intermittenti.
Mancano ancora il mese di Debrecen dove andammo prendendo  Fulvio con noi, un viaggio in Grecia, l’autunno, l’inverno e la primavera a Bologna con le esperienze di Ifigenia nella scuola di recitazione e la sua sparizione con un vecchio attore gradasso la notte tra il 12 e il 13 giugno del 1981. La stessa notte della caduta del bambino Alfredo nel pozzo di Vermicino.


Bologna 9 gennaio  2025 ore 11, 09 giovanni ghiselli

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[1] Doctor Faustus, capitolo XXXVIII
[2] J. Webster, Il diavolo bianco (del 1612),  I, 2.

Alle soglie del Novecento; voci e visioni della grande letteratura europea

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Edipo a Colono - Traduzione e commento vv.166-187


Coro

Se intendi portare avanti

un discorso con me, uscito da luoghi inaccessibili,

parla dove a tutti è lecito,

 ma prima astieniti. 169

Mi  vengono in mente le parole dell’evangelista- o disangelista Paolo come le definisce Nietzsche- sul fatto che le donne in chiesa non debbano parlare.

Paolo I Ai Corinzi : “Mulieres in ecclesiis taceant, non enim permittitur eis loqui, sed subditae sint, sicut et lex dicit. Si quid autem volunt discere, domi viros suos nterrogent; turpe est enim mulieri loqui in ecclesiaajscro;n ga;r ejstin gunaiki; lalei`n ejn ejkklhsiva/ (14, 34-35)

L’eujfhvmei il favete linguis  rituale vale per tutti gli astanti ma qui è diretto a Edipo l’immigrato, il pezzente vagabondo e cieco

 

 

Edipo

Figlia, verso quale pensiero si deve andare? 170

 

Antigone

Padre è necessario praticare usi uguali ai cittadini,

cedendo in quanto si deve e dando retta.

Questa Antigone si è mitigata rispetto alla ragazza irriducibile della precedente tragedia

Quando  Ismene, la mite sorella,  le consiglia di non correre rischi combattendo una battaglia già persa in favore di un morto:"tu hai il cuore caldo per dei cadaveri gelati" (Antigone, 88), Antigone risponde:

:"ma so di essere gradita a quelli cui soprattutto bisogna che io piaccia" (89) .

Non si può e non si deve piacere a tutti andando contro la propria coscienza.

 

Edipo

Dunque ora dammi la mano. Antigone Ecco ti tengo 173

In entrambi questi verbi c’è il senso di “toccare”. E’ il contatto tattile che certifica, rende certo l’affetto.

 

Edipo

Ospiti che poi io non riceva torti

Per essermi fidato di voi spostandomi 175

Edipo è diventato diffidente dopo tutti i mali piuttosto subiti che fatti come dirà più avanti.

 

Coro

Di certo mai nessuno, o vecchio, ti caccerà

da queste sedi contro la tua volontà.

I luoghi sono vari come le persone: alcuni sono inaccessibili e vietati, altri invece sono praticabili. La discrezione sa distinguerli.

 

Edipo

Ancora dunque? Coro: Vieni ancora avanti 179

Edipo da cieco qual è domanda se può e deve procedere. E’ pronto a eseguire

 

Edipo

Ancora? Coro: Portalo avanti, ragazza, 180

avanti: tu infatti percepisci.

Antigone è la luce degli occhi del padre. Succede a molti vecchi anche non ciechi di trarre luce da figli o dai nipoti nell’imbrunire che scende durante il tramonto della vita.

Antigone

Seguimi dunque, seguimi così

Con i tuoi arti ciechi

Padre, dove ti guido

La cecità dunque si estende a tutto il corpo.

Mancano 4 versi secondo la responsione metrica 

 

Coro

Sopporta, straniero in terra straniera,

o disgraziato, di aborrire quello che 185

anche la città ha mantenuto nell’odio

e di rispettare ciò che le è caro.

L’adattamento agli usi della città che ci ospita è almeno in parte necessario, altrimenti si deve tornare al luogo di origine. Per esempio: a Bologna non c’è il mare e non si mangia il pesce. Questo mi manca dato che da ragazzo vivevo a Pesaro. Però Bologna mi ha offerto molto altro. Allora qui mangio il tonno in scatola e aborrisco le lasagne, però in queste belle serate ho il cinema in piazza con film belli. Al mare ci andrò in luglio agosto settembre: in Grecia poi a Pesaro. Il 28 settembre tornerò a Bologna e il 29 inizierò un ciclo di conferenze nella biblioteca Ginzburg, una al mese fino al 19 giugno. In sintesi: a Pesaro prevale il rapporto con la natura, qui a Bologna con la città, le sue strutture e le sue persone. Per quanto ho visto, Bologna è la città dove si vive meglio in Italia anche se la cucina è pessima. Quando mangio fuori vado in un ristorante greco. Bisogna adattarsi. Senza perdere né smarrire la propria identità ovviamente.

 

Bologna 20 giugno 2025 ore 10, 33 giovanni ghiselli

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giovedì 19 giugno 2025

Il rispetto che mi riguarda. I respect you. Post dedicato a Päivi.

Guido Gozzano scrive:
“Se lei sapesse come sono stanco
Delle donne rifatte sui romanzi!” 
(La signorina Felicita ovvero La Felicità, vv. 257-258)
Io invece non mi sono mai stancato delle donne che mi hanno rifatto suggerendomi romanzi.
Ricordo un episodio con il quale riprendo il post precedente sul tema di maturità relativo al rispetto,

Una sera, un sabato sera dell’ agosto 1974,  dissi  a Päivi l’amante amata che il giorno dopo sarei andato a Szeged con altri studenti del corso estivo per  la Carmen di Bizet cantata nella piazza di quella città trasandata. “Assomiglia a una piazza davanti alla stazione”[3].
Le chiesi se volesse venirci.
Rispose che si sentiva stanca, poi non era granché interessata a sentire di nuovo cantare la storia della zingara e dei suoi amori negati alla vita e volti piuttosto alla morte. La cosa mi spiacque non poco, siccome non avevamo ancora molti giorni di quell’estate precipitosa da vivere insieme, e temevo che, finita la borsa di studio a Debrecen, non avremmo avuto altre occasioni, anzi probabilmente si sarebbe chiusa ogni porta tra noi.
Mi spiacque anche il suo disinteresse per il melodramma, uno dei miei preferiti oltretutto. Una storia mediterranea, abbronzata.
Quindi, per provocarla, quasi per ripicca, le chiesi che cosa avrebbe fatto se, durante la gita, l’avessi tradita.
“Mi dispiacerebbe molto”, rispose.
“Sì - la incalzai - ma tu come reagiresti?”
“Non lo so, forse ti lascerei. In ogni caso non ti tradirei. Perché io ti rispetto”.
Disse I respect you con un filo di voce, senza aspettarsi parole di contraccambio, poiché sentiva il rispetto come un’esigenza sua. O almeno così credetti in quel momento e per qualche settimana successiva, fino a quando me lo lasciò credere.
Quella sera  aggiunse: “so che il tradimento adesso è di gran moda, it is a deed in fashion, ma io non seguo le mode”.
“Fai bene - le dissi - La moda infatti è sorella della morte[5] e le mode di questa età scolorita sono plumbee, fanno affondare. Anche io ti rispetto, non dubitarne, e perdona la mia ipotesi stupida assai, e volgare. Non venendo a Szeged mi dai un dispiacere, ma con la tua risposta mi hai donato una lezione di stile e dignità, mi hai reso migliore. Io non posso tradirti. Io ti amo”.
Allora Päivi mi accarezzò il viso dicendo: “sei aquilino come il tuo naso, sai volare, non sei un camuso  tellurico”. "Già - le risposi - come il cavallo nobile del cocchio alato di Platone: ejpivgrupoς, non simoprovswpoς[6]”.
Questa donna, l’ultimo grande amore della mia vita, in settembre mi avrebbe lasciato.
A questo proposito cito i due versi seguenti (259-260) della poesia di Gozzano citata sopra:
“Vennero donne con proteso il cuore
Ognuna dileguò senza vestigio”.
In seguito ne ho conosciute diverse altre, ma nessuna ha lasciato in me i segni tracciati da lei, anzi i solchi . Da questi è spuntata e cresciuta rigogliosamente una vita migliore di quella precedente l’estate del 1974. Una vita ricca di  studio, di libri letti e scritti, di conferenze, di amicizie, di altri amori anche se non così intensi.

Bologna 19 giugno 2025 ore 20, 51 giovanni ghiselli.

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Ifigenia CLXVII La Malga Panna con una litigata intermittente.

Dopo avere accompagnato a letto il Sole, tornai da Ifigenia che sonnecchiava. Forse sognava una fuga con un attore famoso.
La svegliai e le proposi di cenare. Lo facemmo nella Malga dove alloggiavamo, nel megaron del piano di sotto seduti accanto al focolare spento dove nell’inverno successivo, arrossati nei volti per le fiamme del camino, ci saremmo colpiti senza risparmio.
Il giorno seguente Ifigenia avrebbe detto: “ieri ci siamo sbudellati davanti al fuoco”. Un’espressione efficace questa, quasi eccitante.
 
Quella sera di giugno, invece, nessuno dei due aveva voglia di parlare: la bella ragazza, in agguato e in attesa del successo, ce l’aveva con me perché io non l’avevo agguantato e non potevo farla beata di ozi, vivande e bevande in un ristorante di lusso: uno di quei posti “esclusivi”, come orrendamente si dice, che a me fanno ribrezzo e non ci entrerei nemmeno se invece di estorcermi denaro me ne offrissero tanto. Mi piacciono i posti inclusivi a partire dagli ostelli della gioventù. Mi sento onorato se non mi cacciano per la vecchiezza.
Del resto, se lo facessero, solleverei la bicicletta e la agiterei gridando: “questa è eterna giovinezza!”
Dopo la cena tornammo in camera dove scoppiò una scenata.
Quella ce l’aveva con me perché non l’avevo portata in un posto di lusso, io la disprezzavo proprio per tale sua debolezza da borghese infima.
L’avevo capito nelle gite scolastiche: quelli che si lamentano del cibo e delle camere sono proprio i ragazzi delle famiglie più ignoranti e meschine.
La Pasqua successiva, quando saremmo andati in Baviera per compiere un pellegrinaggio fino al lago dov’era affogato il lunatico re Ludwig II e ai suoi castelli teatrali, non trovai un alloggio dal prezzo contenuto, modesto e adatto a me, e dato il freddo, mi rassegnai a un albergo parecchio costoso. Ifigenia avrà la sfacciataggine di fare questa battuta triviale: “Finalmente mi hai portata in un posto decoroso!”.
Mancavano solo due mesi alla sua fuga dal poverello di Pesaro che state leggendo.
 
Dopo la cena si andò in camera dove scoppiò una cagnara da amanti sciagurati quali eravamo. Speravo di trovare un modo di stare insieme dignitoso se non amoroso. L’intermittenza dei nostri umori buoni e cattivi andava regolata in qualche modo, se c’era verso. Cercavo una paradossale concordia delle nostre dissonanze croniche.
Dissi: “domani, se c’è il sole, facciamo una bella camminata nel bosco”. Solo queste poche parole.
Tuttavia bastarono a ferirla colpendo una delle sue debolezze.
Mi guardò con occhio feroce e fece:
“Io non sono allenata per fare scarpinate massacranti con te”.
Colsi la presenza del componente “scarp” nella risposta piena di malanimo e sospettai che ne sarebbe seguito quanto di fatto avvenne.
Cercai però di rabbonirla: “Non preoccuparti: faremo un giro adatto alle tue forze e consono alla tua volontà”.
A questo punto costei si mise a fare una scena: frugava nella valigia con rabbia ostentata e rauchi mugugni, finché tirò fuori la voce e disse: “Quando siamo partiti non ho preso le scarpe adatte per passeggiare sull’erba”.
“Puoi sempre venire a piedi nudi”, provai a dirle con un sorriso.
Lei allora aggiunse: “Le ho preparate, le ho messe accanto alla valigia, ma poi le ho dimenticate. Si vede che non avevo voglia di camminare dove a te, chissà come mai, piace tanto”.
Mi stavo spogliando per entrare nel letto dove si era stesa ma cambiai idea. Mi ero accorto di quanto fosse inopportuno e innaturale fare sesso in tale disposizione incline all’odio.
Sicché smisi di denudarmi e andai a sedermi vicino alla porta.
Poi dissi: “No, tu non sei la donna congeniale a me. Anzi la tua natura è contraria alla mia. Se restiamo insieme andremo entrambi in malora”.
A questo punto Ifigenia si prese paura di essere piantata lì in mezzo ai monti e, mutando tono e parole della sua recita rispose: “Ecco, vedi: tu non mi concedi mai un briciolo di comprensione. E’ la prima volta che vengo in montagna: come faccio a sapere che cosa devo portare?”
“Te l’avevo detto. Al momento della partenza non te l’ho ripetuto: mi sembrava scortese ribadirlo, come un ammonimento a una minus habens, davanti a tua sorella. Tu dirai che sono troppo sensibile per essere un uomo”
“No, sei delicato piuttosto, e hai fatto bene a non ingiungermi niente in presenza di Donatella”.
“Su questo siamo d’accordo ma resta il fatto che io non posso fidarmi di te”
Dopo queste parole colei si tolse la maschera della ragazza incompresa ma comprensiva, e assunse la parte della donna offesa dicendo: “Tu ora vuoi emozionarti litigando dato che hai bisogno di insultarmi per desiderarmi”.
Cercai di non adirarmi e replicai: “Sei tu che dimentichi, sbagli o cerchi di ingelosirmi poiché vuoi sentirti rimproverare, altrimenti non capisci e non impari: il colloquio razionale, basato sui fatti non è possibile con te. Tu nutri un groviglio di sensazioni che io dovrei districare. “Nihil interest quomodo solvantur” come disse Alessandro del nodo di Gordio. Anche io probabilmente dovrò dare un un taglio alla frequentazione della tua persona, maschera o donna che sia ”.
“Non puoi fare a meno di citare, a quanto vedo”
“Infatti: per me gli autori sono sempre stati di conforto e di aiuto contro la scarsa intelligenza e la malevolenza di certa gente.
Tu cerchi il contrasto con me per vendicarti dei tanti torti subìti.
Forse te ne ho fatti diversi anche io, ma sappi che se non puoi perdonarmi, non ti trattengo”.
A queste parole si prese paura: cambiò tono un’altra volta la mima e prese di nuovo quello della povera vittima del sacrificio umano. Anche il suo nome si prestava a questo ruolo: disse quasi piangendo che io non capivo tante cose di lei che mi amava e “mi voleva un bene dell’anima”. E’ una tipica espressione ipocrita bolognese: l’ho sentita da un paio di amanti mie riferite al marito che tradivano, probabilmente non soltanto con me.
Aggiunse che la fraintendevo perché la guardavo sempre attraverso i libri e la identificavo con personaggi diversi, per lo più negativi, senza vedere mai la sua persona.
“Questo può essere vero”, ammisi provando un poco di pena e pure una certa ammirazione per le sue ultime parole. Si era rifatto vivo anche il desiderio.
Ifigenia se ne avvide, mi sorrise e mi chiese se mi andava di uscire e fare due passi sotto il cielo sereno.
 
Bologna  19 giugno  2025 ore 18, 23 giovanni ghiselli

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La prova scritta di Italiano all’esame di maturità.


 

Se avessi dovuto svolgere il tema di italiano tra quelli proposti, avrei scelto senza esitare di svolgere l’argomento Rispetto, una parola chiave, un fondamento della morale, della pace, della convivenza civile, dell’amore stesso che oggi purtroppo nell’agire dei più è  quasi sparito.

La mancanza di rispetto è avvertibile ovunque. La parola italiana deriva dalla latina respectus dal verbo respicio che al participio passato fa respectus. In inglese respect.

Il verbo latino significa osservare rvolgendo gli occhi, prendere in considerazione, avere riguardo. Un atto molto raro oggi.

Ogni giorno rischiamo di venire colpiti da automobilisti, perfino da ciclisti che corrono guardando il telefonino.

Del resto da giovani si ha comunque poco riguardo.

Mi ci metto anche io: ho mancato di rispetto a genitori, zie, nonni, sorella da bambino perché erano diversi da me. Poi ho seguitato con le amanti cercando di cambiarle volendo renderle simili alla figura ideale di cui avevo bisogno. Ho sbagliato e ho perduto tanti affetti. Ho iniziato a comprendere attraverso il dolore causato dai fallimenti di molti rapporti che con un poco di attenzione e accettazione della diversità avrei potuto conservare.

Ora quale studente pensionato, da eterno maturando dopo tutto, poichè Semper homo bonus tiro est  l'uomo onesto fa  tirocinio per tutta la vita, come ha scritto bene Marziale (XII, 51, 2), oggi dunque, arrivato a 80 anni e 7 mesi, devo riversare nel mio lavoro altre citazioni di autori per mostrare alla commissione che so qualcosa di letteratura oltre che della vita.

Sempre che gli esaminatori se ne intendano.

 Machiavelli nel XXV capitolo del suo libro più noto scrive: “Io iudico bene questo, che sia meglio essere impetuoso che respettivo, perché la fortuna è donna; ed è necessario, volendola tenere sotto, batterla e urtarla”

“Mariolo sì, diceva don Ferrante, ma profondo” (Manzoni, I promessi sposi, XXVII). In questo caso anche poco profondo il mariolo.

Il rispetto gratifica sempre chi lo dona e chi lo riceve. E’ piacevole, morale e pure utile.

Bologna 19 giugno 2025 ore 17, 32 giovanni ghiselli  

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Edipo a Colono vv. 150- Traduzione e commento vv. 150-165.


 Coro

Ahi, di occhi ciechi 150

dunque eri tu dalla nascita futavlmio~?

-Cfr. fuvw “faccio nascere”. Sembra gratuito mentre Sofocle introduce un richiamo alla nascita di Edipo e dei suoi figli secondo il mito che il pubblico ateniese sicuramente conosceva.

E’ un cenno di intesa che l’autore fa agli spettatori.- Di vita infelice

e lunga, per quanto si può congetturare- ejpeikavsai.

Il coro si fa eijkasthv~ conngetturatore. La congettura negativa deriva dalla visione dell’aspetto di Edipo, vagabondo disgraziato. Ma è relativa all’aspetto ed è fallace. Edipo è malconcio ma è una grande persona che assomma in sé tanti significati e alla fine rivelerà una figura di Salvatore. In questa fase viene frainteso e sottovalutato.

Ma non certo per quanto sta in me,

aggiungerai queste maledizioni tavsd  jajrav~-

C’è il pregiudizio superstizioso e maligno che il disgraziato porti pena non solo a sé stesso ma anche a chi lo frequenta e perfino a chi lo vede. Probabilmente perché dà un senso di paura e di colpa.

Varchi un limite  tu infatti, pera`/~: pevra~ è il limite il confine che Edipo ha oltrepassato,

ebbene il limite stabilito dalla persona usuale, ottenebrata nella caverna è appunto quello della spelonca e chi ne esce, se tentasse di liberare gli altri prigionieri ne verrebbe ucciso, come immagina Platone nel VII libro Repubblica (517)

l’ottenebrato non sopporta chi ha la vista mentale lucida.

varchi un limite; ma  non

inoltrarti questa tacito sito boscoso

folto di erba, dove un cratere

pieno d'acqua si unisce a una corrente

di bevande dolci come il miele,

guardatene bene,

 disgraziatissimo straniero.

Il coro descrive questo luogo come sacro quindi proibito a chi non è addetto al rito di libagione cui allude il krathvr, un grande vaso dove si mescolano-cfr. keravnnumi, mescolo appunto)

Nel II stasimo dell’Edipo re il coro canta“:"E se qualcuno incede/sprezzante nei gesti o nelle parole,/senza timore di Giustizia, senza/onorare le sedi degli dei/cattivo lo colga il destino/per la disgraziata mollezza,/ se il guadagno non guadagnerà con giustizia/e non si escluderà dai fatti empi,/ o stringerà come un matto le cose intoccabili tw`n ajqivktwn- qivggavnw, tocco  ” (883-891). Carlo  Diano sostiene che i vv.890-891 contengono"un'aperta allusione alla mutilazione delle Erme e alla profanazione dei misteri"( Edipo figlio della Tyche, in "Dioniso" XV,1952, p.82) 

Allontanati, vattene. Molta

strada ci tiene lontani;- ejravtuei- la lontananza delle strade, dei metodi dipende dalla diversità dei caratteri, dei destini delle persone. Non dobbiamo avvilirci quando non veniamo capiti e ci sottovalutano: lo fanno perché sono diversi da noi e non hanno il metro con cui misurarci. Molti non superano il centimetro. Cfr. don Milani citato sopra.

Si tratta sempre di credere in sé stesso.

ci senti, o tribolato vagabondo? 165

Bologna 19 giugno 2025 ore 11, 57 giovanni ghiselli

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Ifigenia CLXVI Due disgraziati a Moena nella sua veste più bella.

Il 26 giugno arrivammo a Moena.
 
La valle di Fassa in giugno è un giardino colmo di erbe e di fiori, un prato variopinto, con un grande contorno di foreste vive sormontate da rocce illuminate per tante ore. Arrivammo intorno alle quattro nel paese magico, poetico e mitico della mia infanzia solitaria. Salimmo fino alla Malga Panna. Ci diedero una camera matrimoniale con un letto enorme. Proposi subito di fare una passeggiata nel prato che si stende fino alla chiesa sottostante. Ancora non sapevo che Ifigenia non aveva portato le scarpe per camminare nell’erba alta del mese più luminoso dell’anno.  
Disse che voleva dormire siccome non reggeva il ritmo spietato e massacrante che volevo imporle, da tiranno tremendo quale sono.
Una specie di Falaride agrigentino o di Nabide spartano.
“Molte sono le cose tremende, pensai, ma niente è più tremendo di te”. Dissonante in tutto da me. Mi stavo tirando dietro una barella con un’inferma mentale, cattiva per giunta.
Mi chiesi quale nesso ci fosse tra le sue parole di accusa e i fatti: non si muoveva con le sue gambe da molte ore. L’automobile l’avevo guidata sempre io mentre lei dormiva.
Sentivo la necessità di muovermi in maniera anche impegnativa. Avevamo a disposizione diverse ore di luce e volevo goderle tutte: a Moena in giugno non ci ero stato mai e non avevo mai visto dove tramonta il sole quando sale alla massima altezza e va a dormire nel suo giaciglio spostato più a settentrione.
Tale visione nuova mi interessava assai più delle lagne di quella persona fiacca che mi ero tirato dietro e mi disturbava parecchio. Le augurai un buon riposo e uscii da solo, disgustato da tale disinteresse alla bellezza del luogo, della stagione, dell’ora.
Guardavo l’occhio del giorno d’oro spostarsi adagio verso il passo di Costalunga: stava trovando la forza che avrebbe perduto già a metà luglio, di superare tutta la schiena villosa del Sas da Ciamp.
Nel mese più bello, il dio che ci dona la luce e il calore ama volare oltre i suoi ostelli notturni situati nei boschi meridionali dove sparisce d’inverno stanco del volo nell’aria gelata, nella primavera ancora piuttosto fredda si annida  tra i dossi occidentali; nei giorni più belli dell’anno invece arriva a posarsi nel giaciglio che si trova più a nord, sopra lo specchio turchino del lago di Carezza dove può vedere riflesso il proprio volto purpureo come fa a Pesaro quando tramonta nel mare oltre il grattacielo di Rimini e i suoi devoti vanno a pregarlo tutte le sere sull’ultimo molo del porto dove lo benedicono grati chiedendogli la grazia di poterlo vedere per tanti altri giugni quando la terra diventa un paradiso grazie alla sua generosa presenza. Non ho mai potuto osservare l’eroica luce del sole nel mese di giugno senza rivolgergli pensieri e parole di gratitudine e amore.
Per vedere fino all’ultimo minuto il santo viso di Elio che calava verso il Rosengarten dovetti attraversare il prato di Sorte e salire su un’altura. L’erba mi arrivava alla vita.
Vidi un ragazzo che correva in tuta e scarpette senza zavorra
“Te beato - pensai - felice te, o fortunate asulescens per la tua libertà, e disgraziato me che mi sono addossato un peso molesto e avverso! Il mese di giugno è una festa nel nostro emisfero; qui a Moena è un tripudio della natura nel suo pieno rigoglio, ma la perfida si mette a letto in una stanza buia, cimiteriale, a metà del pomeriggio, al culmine di questa orgia santa. Vuole darmi fastidio e purtroppo ci riesce. Devo fuggire via da costei se non voglio ricadere nella paura di vivere che mi venne inculcata da bambino e mi ha interdetto ogni gioia per anni.
“Felice te!”, ripetei vedendo quel fortunato giovane correre senza tirarsi dietro una barella con un’inferma. Aspettai che si fosse allontanato e mi diedi alla corsa anche io. Non potevo condividere i costumi malati di quella malata di mente. Sarebbe stata una comunione di mortifera.
Moena mi rendeva inflessibile: da bambino avevo dovuto opporre tutta la mia resistenza a chi mi voleva o mi vedeva debole, malato e deficiente. L’essere bravo il più bravo a scuola e in bicicletta contraddiceva tale vulgata che sarebbe state ripresa da diversi compagni di scuola malevoli, poi da tanti colleghi invidiosi.
“Tali nemici li ho fronteggiati e retti a lungo - pensai - ma le amanti ostili non devo sopportarle”.
 
Bologna 19 giugno  2025 ore 10, 33 giovanni ghiselli

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mercoledì 18 giugno 2025

Edipo a colono versi 138-149 Traduzione e commento.


 

Eccomi, quello sono io: alla voce infatti vedo, 138

come si suol dire.

Alla voce vedo viene tradotto male:  “vedo quello che sento” o anche peggio “vedo con le orecchie”

Traduzioni che tradiscono il testo di Sofocle e il buon gusto. Può stare “dalla voce vedo” Scegliete voi.

 

Coro

Ahi, ahi,

tremendo a vedersi, tremendo a sentirsi. 140-

Edipo raccoglie in sé molti significati dell’essere uomo. Ricordo di nuovo l’Antigone già citata “niente è più tremendo dell’uomo” (332-333)

Molte tragedie vertono sulle vicende di famiglie piene di persone tremende: i Pelopidi di Micene e i Labdacidi di Tebe.

 

 

Edipo

No, vi prego, non guardate uno fuori legge a[nomon.

L’essere a[nomo~ estraneo alla legge può essere infamia come santità: dipende dal tenore delle leggi.

Gesù il Cristo e Giovanni il Battista sono stati “giustiziati” quali fuori legge e la maggior parte di quanti oggi sono dentro le leggi non appartengono ai loro seguaci anche se si professano cristiani.

 

Coro

Zeus protettore, chi è mai questo vecchio? 143

Edipo è inquietante per una persona normale.

 

Edipo

Niente affatto uno di prima sorte tanto da considerarlo

felice, o custodi-e[foroi- di questa terra 145

A Sparta gl Efori erano custodi della Costituzione.

Platone nella Lettera VIII (254b) scrive che Licurgo introdusse a Sparta il Consiglio degli anziani e il freno  dell’Eforato  come prevenzione contro la tirannide e quale salvaguardia del potere regio.

“f£rmakon ™p»negken t¾n tîn gerÒntwn ¢rc¾n kaˆ

tÕn tîn ™fÒrwn desmÕn tÁj basilikÁj ¢rcÁj swt»rion

Nei paesi dorici  più in generale gli efori erano magistrati

E lo mostro: infatti non mi trascinerei così

con  occhi  altrui

sono gli occhi di Antigone naturalmente, la figlia perfetta che aiuta il padre anche con la mente e il cuore

149 e non mi appoggerei grande -mevga~- come sono a piccoli sostegni.

Nell’ Edipo re, Giocasta richiesta da Edipo che indaga quale fosse l’aspetto di Laio, risponde:

“Grande mevga~ , fiorito da poco di bianco nel capo

e non era molto lontano dalle fattezze tue" (742-743).

 

A questo punto Edipo comprende che cercando l’assassino di Laio potrebbe trovare se stesso. Eppure non smette di indagare perché una vita senza indagine non è vivibile per l’uomo.

Socrate nell' Apologia  scritta da Platone dice:" oJ de; ajnexevtasto" bivo" ouj biwto;" ajnqrwvpw/"(38a), la vita senza indagine non è degna di essere vissuta dall'uomo. E così sia.

Bologna 18 giugno 2025 ore 18, 46 giovanni ghiselli

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Ifigenia CLXV Cittadella e Carmignano di Brenta. Antonia, la mia amica più cara. Intrecci di sentimenti.

Il 25 giugno andammo a Carmignano di Brenta. Volevo salutare Antonia la mia migliore amica, quindi proseguire per Moena. Intendevo presentare a Ifigenia alcune realtà molto importanti della mia vita. Volevo che uscissimo dal nostro vivere idiotamente cioè nella ijdiwteiva, vita privata, chiusi nel nostro particolare fatto soprattutto, spesso perfino esclusivamente, di sesso.  
Ero andato a prenderla verso le dieci.
Come la vidi con una valigia grande e gonfia non le domandai se avesse preso quanto sarebbe stato necessario in montagna: glielo avevo detto la sera prima e mi sembrava una segno di sfiducia e una scortesia, quasi una violenza verbale, incalzarla con le domande che si pongono alle persone delle cui capacità mentali si dubita.
Lo facevano con me le due zie più attempate che mi consideravano intelligente - in quanto bravo a scuola - e pure deficiente siccome incapace in quasi tutto il resto.
Il fatto è che volevo vivere come pareva bene a me mentre a loro la mia vita appariva vissuta male, in certe circostanze,
L’ho pagata con tanta solitudine, ma ho fatto quello che mi garbava in quanto adatto a me e funzionale ai miei progressi.
 
Arrivammo a Cittadella nel primo pomeriggio. Ci fermammo per prenotare una stanza nel grosso motel dove avevo passato in solitudine i pomeriggi e le notti del venticinquesimo anno di vita, bramando e sognando una donna giovane, bella e vivace: invano.
Le scolare non erano donne, bensì bambine, e le colleghe non mi si addicevano punto siccome erano in cerca di un fidanzato da sposare per passare insieme una vita triste, orribile: senza colore.
Consideravo tale approdo un porto delle nebbie.
Allora mi confortava il ricordo bello di Helena, ceca amata durante la primavera di Praga e la speranza della successiva amante a Debrecen in luglio. Avrei in effetti incontrato la prima, in ordine temporale, delle mie finlandesi, e avremmo fatto una scorpacciata di sesso, ghiotti e famelici come ne eravamo entrambi. Fu un rapporto simpatico ma piuttosto terrestre che celeste.
L’amore celeste, figliolo di Venere Celeste, l’avrei incontrato solo nel 1971 con Helena, la finlandese augusta. Ma questo l’ho già raccontato[1].
 
Noi due compagni di viaggio dunque eravamo seduti su una panchina di ferro situata tra la strada rumorosa e il motel Palace che ci stava alle spalle alto e incombente. Oggi nemmeno lui c’è più.
Ifigenia era muta. Le domandai perché. Muta metu pensai, ricordando l’Ifigenia di Lucrezio.
“Tu per me sei l’uomo ideale, mentre io per te sono soltanto un esperimento. Non è così?”
Faceva una scena. Voleva mettermi alla prova. Stava giocando una partita a scacchi. Mi diede fastidio. Ma decisi di stare al gioco.
“Ma no, cosa dici? La nostra situazione non è ancora completa: non siamo del tutto armonizzati, ma, vedrai che ci arriveremo. L’armonia per ora invisibile è più forte di altre già visibili. E’ discordia conciliata. Del resto la sintonia più bella è proprio quella che deriva da elementi discordanti [2]”.
Parole generiche e quasi imbarazzate.
Quindi aggiunsi una terza citazione per non mentire dicendo che lei era la donna della mia vita
Ad pulchritudinem tria requiruntur: integritas, consonantia, claritas” Tu bella sei bella, quindi i tre requisiti della bellezza eterna, dell’arte cui aspiriamo entrambi, possiamo spremerli o mungerli dalla tua persona e nutrircene”. Ero stato quasi offensivo, ora lo comprendo.
Ifigenia, cresciuta alla mia scuola, replicò con un’altra citazione: “Non basta un anno e nemmeno un biennio a mostrarci un uomo: voi siete tutti stomaci e noi tutte soltanto cibo; ci mangiate avidamente e quando siete pieni ci rigettate. Prima la mungitura poi la macellazione.
“Brava: Emilia nell’Otello di Shakespeare! Se vuoi possiamo ricordarlo in inglese”
“Lascia perdere!”, disse e fece un gesto di ripulsa.
Aveva studiato inglese a scuola, ma non sapeva parlarlo; me ne accorsi il mese successivo quando sarebbe venuta a Debrecen con me e Fulvio.
Intanto sopra di noi gravava il mortorio opprimente di un cielo innaturalmente grigio. Piovigginava anche e faceva freddo.
Sicché pensavo: “ero più contento nel giugno rovente, apocalittico del 1970, quando scalavo il monte Grappa sulla mia bicicletta da solo, mangiavo e dormivo da solo, e studiavo per preparare i ragazzini di terza media all’esame finale del loro triennio.
Ma in quel tempo mi aspettavo l’amore di una donna della mia levatura. Ero un ragazzo non alto, tuttavia capace di piacere a diverse donne. Anche a me stesso. Sentivo con gioia l’attrazione esercitata sulle femmine umane e la contraccambiavo. Diverse giovani donne mi trattavano bene, mi corteggiavano. Perciò ero felice, nonostante la solitudine della mia vita da anacoreta. Avevo il cuore pieno di attese e speranze pur nel mio eremitaggio. Almeno cinquanta amanti promettevo a me stesso. Non una di meno e non invano. Non mi lamento. Tra Bologna, Debrecen e qualche altra università ci sarebbe stato un intreccio di simpatie più o meno corrisposte.
Invece quel giorno freddo e triste Ifigenia si lamentava. E mi disturbava.
A metà pomeriggio andammo a casa di Antonia che ci accolse bene: parlò con noi e ci ascoltò amichevolmente.
Non era mai noiosa perché si prendeva a cuore le persone ed era intelligente. La suvnesi~ piena di benevolenza la autorizzava a dire anche quanto era a[rrhton, indicibile per i vezzeggiatori falsi come Giuda.
L’anno seguente, quando andai a trovarla da solo dopo che Ifigenia fu sparita cercando un ingresso nel mondo cui aspirava, disse che quella ragazza fin dal primo momento mi aveva frequentato con atteggiamento teatrale ed era quasi sempre in posa mettendosi in mostra per farsi notare. Nel suo sguardo non si vedeva un’anima pura e commossa, come si nota nel volto di una persona dalla buona sostanza morale. Nella relazione con me aveva voluto fare una lunga scena nella scuola dove era supplente precaria e si sentiva a disagio. Del resto durante il nostro rapporto preparava le esibizioni che sperava di ripetere sulle scene. Io avevo perduto la speranza del suo amore quando avevo capito la teatralità integrale di quel personaggio in cerca di palcoscenico.
In ogni caso la consapevolezza raggiunta aveva accresciuto le mie qualità umane concluse l’amica nel solstizio estivo dell’anno seguente.


Bologna  18 giugno 2025 ore 15, 33 giovanni ghiselli
 
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[1] Nel romanzo Tre amori a Debrecen che si trova nella biblioteca Ginzburg di Bologna disponibile al prestito.
[2] Ho utilizzato due frammenti di Eraclito (27 Diano e 22 Diano)

Ifigenia CLXIV L’onomastico e la corsa. Tutti gli atti del destino sono collegati tra loro: confatalia.

Il 24 giugno è il giorno dell’onesto Giovanni,  il Precursore di Cristo  che di lui disse: “non surrexit inter natos mulierum maior Ioanne Baptista (N. T., Matteo, 11, 11). Il Battista  apostrofava molti tra Farisei e Sadducei con queste parole: “Progenies viperarum” (3, 7).
Ebbene tutti gli anni in questo giorno di mezza estate sento il dovere di rendere onore a tale magnifico profeta che ispirò mia madre Luisa quando ripeté risoluta, a quanti proponevano altri nomi inappropriati a suo figlio, le parole dette da Elisabetta a chi andò a circoncidere il bambino di otto giorni e voleva venisse chiamato Zaccaria come il padre di lui: “Nequaquam sed vocabitur Ioannes” ( N. T., Luca, I, 60).
In greco: “Oujciv, ajlla; klhqhvsetai  jIwavnne~
A ogni onomastico mi domando: “sono io veramente Giovanni?” Ho la grazia di Dio? Merito questo nome?
Più procedo nella vita più lo credo. Ho avuto l’aiuto divino in tutti i campi dove ho impiegato e ancora impiego i talenti ricevuti.
Questo è il ringraziamento che ogni mio onomastico rinnovo al mio eponimo, ai miei genitori e a tutti i miei consanguinei.
 
La corsa del 24 giugno 1980
Il 24 giugno del 1980 dunque corsi i 5000 metri davanti a Ifigenia per rendere onore al mio santo, e per  farmi ammirare dalla mia unica amante non più apprezzata granché, tuttavia ancora abbastanza desiderata.
Bella era pur bella.
Bella era anche la serata estiva: calma, purpurea, piena di voli, come è quasi sempre il mio giorno onomastico che prende il nome dall’onesto precursore e battezzatore ed è uno dei giorni più belli dell’anno.
Quella sera rimossi il decadimento della mia donna.
La rivedevo com’era nel mese della conoscenza: il novembre del ’78 quando mi consolava del buio precoce, del freddo, della retrocessione nella scuola e della solitudine antica, entrando in camera mia alle cinque dei pomeriggi già privi di luce, con i capelli violacei screziati di candidi fiocchi, lo sguardo lucente, l’anima aperta e fiduciosa di imparare tanto sulla propria vita, sul nostro destino mentre parlava con me prima di fare l’amore  e dopo.
Come entrava, i cristalli di ghiaccio che aveva addosso sembravano chicchi di riso lanciati da mani festose sopra la sposa giovane bella e felice. Ringiovaniva e imbelliva anche me. Mi aiutava a bonificare la palude dell’inconscio che stagnava dentro di me e si era allargata dopo la degradazione subita nel lavoro. Anche l’Es di Ifigenia andava bonificato. All’epoca leggevo Freud. Wo Es war, soll Ich werden”, dov’era l’Es deve subentrare l’Io.
Invero soltanto a un anno e mezzo da quel novembre magico la ragazza si era già sviata su una strada scoscesa. Ma quella sera di giugno feci finta che questa caduta non fosse iniziata e volai verso il traguardo dove la ragazza mi incitava, vestita di bianco, adorna sulle spalle e nel petto delle chiome brune che si arrossavano rispecchiando l’ amaranto del cielo.
Arrivai sul traguardo in 18 minuti e 39 secondi  e pensai che lo dovevo a lei. Un giorno avrei scritto un capolavoro raccontando la nostra storia. Erano i guizzi estremi di una fiamma lontana che stava perdendo calore e luce. Non c’era verso di impedirlo. Una serie di cause arcane e concatenate ci stava portando alla fine.
Gli atti del fato sono collegati tra lor
o suneimarmevna, li chiama Plutarco
( Peri; eiJmarmevnh~, 569 F) atti del fato collegati,  confatalia,  Cicerone icordando lo scolarca stoico Crisippo (De  fato,  30).
La conclusione di questa storia, come ogni evento, era già predisposta da tante cause precedenti non solo quel giorno, ma le nostre vite intere e quelle di tutti i nostri antenati: era un esito predestinato ab aeterno come quelli dei miei amori precedenti.
L’unico modo di farli vivere ancora era raccontarli con parole ornate e ricche di immagini,
 
Bologna  18 giugno 2025 ore 11, 22 giovanni ghiselli
 
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