Gianni. Sei intelligente tu. Hai un'anima. Quando ti sento parlare così, mi
assale la brama del tuo letto, anzi quasi quella delle nozze (16) con te, e mi rimorde molto
avere sciupato l'amore, la stima che tu avevi per me. In quanto hai detto
c'è della verità. Però bisogna aggiungere che, nonostante le emozioni
malate e passeggere per gli altri due, noi siamo rimasti insieme, e non
abbiamo perduto tempo, anzi, abbiamo fatto diverse cose importanti, e ne
stiamo facendo ancora. Non mi riferisco soltanto ai nostri
concubiti, comunque sempre belli, numerosi e sacrosanti. Io ho scritto
un dramma, breve se vuoi, magari di interesse ristretto al popolo non numeroso
dei licei classici, o, se preferisci, alla gente grama del ginnasio dove
lavoro, ed è fallito pure là dentro. Ma questo non vuol dire che sia
brutto e non significativo dei tempi; forse ho avuto fretta a concluderlo,
oltretutto in anticipo rispetto ai gusti ora in voga, come hai detto
tu stessa. Ma presto riprenderò a scrivere: intanto a commentare l'Edipo
re con il mio metodo comparativo e con una prospettiva europea,
un lavoro al quale tu mi hai incoraggiato e hai contribuito non poco,
quindi porrò mano a un'opera grandiosa un epos dove entreranno le mie
esperienze, i miei studi, le mie gioie, i dolori, la politica,
la storia e perché no, il cielo e la terra (17). Dovrò Anche questo a te e
al nostro rapporto variopinto per la varietà infinita dei suoi aspetti.
Perciò vorrei che non finisse presto, anzi che non finisse mai.
Ifigenia. Ho capito. Tu scrivi. E io quali capacità posso acquistare, o
accrescere, se la nostra storia continua?
Gianni. Tu ora stai preparando un esame non facile. Da me, quanto meno,
ricevi un metodo, un ritmo e una disciplina di studio. Quanto
più impàri, tanto più si allarga la tua umanità, la tua stessa
vita, e mi restituisci moltiplicato tutto quanto ricevi. Quei due non
ci hanno offerto il loro amore, è vero, però nemmeno noi glielo abbiamo
chiesto. Io almeno non l'ho fatto.
ifigenia. Nemmeno io. Anche in quello che dici tu c'è del vero. E tu pure,
sicuramente hai un'anima non ordinaria. Prima citavi l'Ifigenia in
Aulide se non ricordo male: ma'llon de; levktrwn sw'n
povqo" m j ejsevrcetai ej" th;n fuvsin blevyanta: gennaiva
ga;r ei (18) \ … w\ lh'm j
a[riston (19). Vedi che
bravo maestro sei stato? Anche Io probabilmente ti amo. Però l'anno
prossimo, anzi, subito dopo l’ esame, andrò a cercare lavoro, a vivere, in
una grande città dove nascono le idee, dove si crea cultura, dove si dà e
si prende, si fa e si disfa il potere: a Roma, o a Milano. E voglio
andarci senza te. Per imparare a cavarmela da sola, o forse piuttosto
per avere l'opportunità di incontrare un altro maestro geniale, uno
che mi aiuti a crescere nel campo attoriale. Tu mi hai spinta a
pensare, a studiare; mi hai donato la vita tua e hai chiarito
la mia a me stessa: te ne sono grata, te ne sarò grata sempre; ma presto
avrò bisogno di imparare delle cose che tu non puoi insegnarmi. Io sento
la necessità di recitare, come tu il bisogno di scrivere. Perciò
è meglio se ci lasciamo presto, o anche subito".
Le stavo seduto di fronte e avevo il fuoco sul fianco
destro, piuttosto vicino: sudavo, mi bruciavano gli occhi, mi tremavano
le mani al pensiero della fine anticipata e non catastrofica del
nostro rapporto. Per fortuna non era destino. Ma allora non lo
sapevo: dovevo mettercela tutta per arrivare con lei fino al momento in
cui avrei sentito la necessità di cominciare a scrivere. Non mancava molto
tempo del resto. Ad un tratto un pezzo di fuliggine o qualcosa del genere
mi entrò nell'occhio destro: il più miope, il più debole, e già
aspreggiato sia dal fumo, sia dalla lente a contatto che portavo da quindici
ore. Cominciai a lacrimare.
"Scusa – dissi – mi è entrato un pezzo di non so
che roba in un occhio". Ifigenia mi accarezzò. La
cameriera enorme ci osservava dal banco con i suoi piccoli occhi,
affondati nella carne copiosa, e protetti dalle scintille. Dovevo fare
pietà anche a lei. Ifigenia disse: "Che
tragedia!". "Perché tragedia? – domandai – Se non vuoi più stare
con me, puoi lasciarmi anche subito". "Non è così semplice, Nonostante tutto, io credo di amarti;
o, quanto meno, mi sento ancora legata a te". Il pezzo di roba uscì
dall'occhio straziato che provò sollievo; asciugai la guancia lacrimosa e,
recuperato un poco di coraggio, dissi: "Io sono sicuro di amarti
poiché ho plasmato il tuo spirito e mi sono lasciato potenziare,
raddrizzare, nel mio, debole e sghembo, dalla tua forza di ragazza
esemplarmente bella. I tarli, è vero, ancora purtroppo ci sono, ma quale
logica ci sarebbe nel lasciarci, prima che i sentimenti positivi siano
esauriti e sia compiuta l'opera di educazione reciproca? Pensa a quante
cose buone possiamo mettere insieme noi due. Aspettiamo di non
avere altro da costruire in comune, arriviamo almeno a superare il
tuo esame per il quale sto studiando anche io, tanto che finora non
ho trovato il momento opportuno per cominciare la mia, la
nostra creazione secondo lo spirito. Non potrò più sopportare me
stesso se non riuscirò a dimostrarti di sapere scrivere un
capolavoro ispirato da te e degno di me. Dammi questa possibilità
di redenzione e riscatto: vedrai che gli errori miei e tuoi, le
nostre pene, delusioni e sconfitte, troveranno una giustificazione
estetica, nella bellezza voglio dire, e noi ci innamoreremo di nuovo
l'una dell'altro, come quando tu eri ingenua, credevi in una vita
felice con me, e ci credevo quasi anche io. Quando mi venisti
incontro e mi chiedesti aiuto pensai che la mia bambina morta prima di
nascere fosse rinata in te e il mio primo pensiero fu di prendermi cura di
te. Poi è successo qualcosa: un salto retrogrado nell'abisso degli antichi
terrori, e del nostro passato più travaglioso. Ora finalmente
ne parliamo: ne stiamo prendendo coscienza. Perché dobbiamo lasciarci, mentre
la vicendevole educazione non è compiuta, e la mia opera non è nemmeno
avviata?" Tirai il fiato. Ce l'avevo messa tutta, non potevo aggiungere
altro.
La guardai attentamente cercando di piacerle, di
essere espressivo e non stralunato, non malato nonostante soffrissi ancora
lo strazio della cornea colpita dalle faville ardenti. La studiavo: era
bella, cupamente bella; il suo volto veniva acceso e brunito dai guizzi
del fuoco. "Se perdo una donna di questo formato - pensai - dove ne
trovo un'altra che non me la faccia rimpiangere per tutta la
vita?"
Finalmente la bella disse la sua sentenza: "Va
bene. Possiamo restare insieme. Non so quanto. Io adesso devo pensare all’
esame. Dopo si vedrà. Lasciamo fare al destino".
"Manco male", pensai, un'espressione quasi
apotropaica, raccolta dai colleghi veneti buoni bicchieri e simpaticamente
fedeli alla loro diavlekto~ natia. Non la koinhv letteraria che da noi è la lingua toscana ma un dialetto comunque
comprensibile, bonario e simpatico. Un dialetto dall’accento femminile, come è
la parola greca hJ dialekto~, “la dialetta”. Glielo dissi per sdrammatizzare.
Poi confermai le sue parole: "Certo che seguiremo le orme del nostro
destino onnipotente e già tracciato. Non credo che ci fece solo
all’affanno. Seguiteremo ad amare il destino, con la coscienza di essere
cari agli dei, favoriti da loro e dai nostri caratteri, mai discordi con il volere del fato. Adesso andiamo a
dormire, ché è tardi. Anche questo ritorno è destinato ab
aeterno, come perfino il cinguettare di un passero".
Ci alzammo, pagai il conto alla signorina assai grossa
e tornammo alla Campagnola. Non mi sembrò il caso di fare alcun'altra
proposta. Sicché ognuno andò direttamente in camera sua. Quando mi
trovai solo nel letto, dovetti fare i conti con sensi di colpa e di
inferiorità che, tutti sommati, davano angoscia. Cercavo di trasformare i
sentimenti in ragionamenti. Pensavo: "E' vero che solo attraversando
il dolore si può andare oltre il dolore, che sono passato per Esmeralda e
altre siffatte, prima di arrivare a
Ifigenia, necessaria al mio scrivere, quanto Päivi lo fu
al mio studiare, Helena al mio sentirmi abilitato ad amare le donne belle
e fini; però in questo modo con le persone ho rapporti di uso. I miei
progressi, se pure ci sono, costano sofferenze oltre le gioie poiché non
posso vivere me stesso e il prossimo mio, soprattutto le amanti, senza
fare calcoli. Questa è stata una creatura mia, l'ho fatta crescere io: è
mia figlia più che se l'avessi messa al mondo: devo provare a considerarla
un fine, non un mezzo. Sì, ma se è lei che non vuole essere uno scopo per
me? E poi per quale ragione non deve volermi? Perché non le piaccio?
O non le convengo? Oppure non si fida di me? Dice che l'ho ingannata
e delusa con la storia di Lucia. Ma lei stessa prima mi aveva mentito!
Quanto devo penare ancora per la restaurazione del bene prezioso che ho
adulterato? Quali altre sofferenze dobbiamo infliggerci per riparare i
danni della mutua ingiustizia?" Chiesi aiuto al buon Dio che mi esaudì
facendomi addormentare.
Bologna 30 giugno 2025 ore 18, 21giovanni
ghiselli
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Note
16 Cfr. Euripide, Ifigenia in Aulide, 1410.
17 Cfr. Dante, Paradiso, XXV,1-3
18 Euripide, Ifigenia in Aulide,
1410-1411. Maggiormente il desiderio delle tue nozze mi penetra/mirando
alla tua natura: infatti sei nobile.
19 Euripide, Ifigenia in Aulide, 1421. O anima nobile.
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